I minatori di Ribolla: fortunati o sfortunati?

I Minatori di Ribolla:
fortunati o sfortunati?

Nel villaggio minerario l’apprensione cresceva. La ribellione contro la Società Montecatini, e contro il suo direttore, era una bolla pronta ad esplodere. Era lievitata giorno dopo giorno fin dal 1951 ed ora serviva un’azione decisiva, contro le condizioni di lavoro in cui erano costretti ad operare.

Un raggruppamento di minatori, irritato oltre ogni margine, maturò l’idea di impadronirsi della miniera. Era l’atto estremo contro i rischi lavorativi e in opposizione soprattutto alla ormai prestabilita chiusura della miniera.

Il Sindacato minatori, inizialmente, non voleva collaborare con gli operai e cercò di impedire quell’idea eccessiva, criticandola ma per non venire oltrepassato dai propri iscritti, alla fine decise di collaborare.

In quella notte profonda dell’aprile del 1953, una cinquantina di intrepidi minatori si calarono nel pozzo Camorra, presero possesso delle gallerie e ne sbarrarono ogni via di accesso.

Uno di loro, rimasto sempre sconosciuto, avviò il grande argano del pozzo per farli scendere nel sottosuolo, li calò giù a gruppi di otto per volta. Finito l’incarico, sabotò l’impianto. Lo rese inservibile, occultando diversi meccanismi fondamentali per il funzionamento del verricello.

Il lunedì mattina seguente, ai minatori del primo turno giunse l’accurata distribuzione di un volantino del Sindacato con il quale si informava che la miniera era stata conquistata per protestare contro il pericolo delle frane e del gas, inoltre si lottava contro la chiusura della miniera e contro l’ing. Padroni.

Il comunicato terminava invitando i colleghi ad unirsi nello sciopero. Assieme, avrebbero dovuto intraprendere la contestazione, in solidarietà agli occupanti.

Intanto, la notizia era giunta alla popolazione del villaggio che si era prontamente radunata vicino al pozzo minerario. La folla stava sostenendo l’agitazione dei colleghi di lavoro e delle famiglie di quelli scesi ad occupare la miniera.

I dirigenti avevano avvisato la polizia che prontamente accerchiò la miniera, auspicando d’interrompere i rifornimenti ai rivoltosi sconosciuti, eclissati sotto terra.

Speravano di isolare e forzare all’abbandono i sepolti vivi della miniera. Nonostante la presenza degli agenti, i minatori ricevettero costantemente cibo e vivande calde.

Arrivarono anche caffè con latte e biscotti, all’ora della colazione. Non fu un miracolo ma l’azione di donne dell’UDI, che, ben organizzate, predisponevano in un luogo nascosto tutti i rifornimenti.

Ancora oggi tutto questo rimane un mistero e non si è mai saputo chi rifocillasse i minatori.
Si pensò che un anziano minatore conoscesse un tunnel, rimasto abbandonato per anni, e lo sfruttasse per rifornirli materialmente.

Gli audaci minatori facevano crescere il morale. La loro azione straordinaria alimentava l’entusiasmo, sia dentro che fuori quei tunnel. Conoscevano le gallerie come le loro tasche, erano svariati anni che ci lavoravano ed il posto dove si erano accampati, aveva le volte protette a prova di frana.

Inoltre, il passaggio dell’aria era regolare, e quindi il grisou era sotto controllo.
Era stato creato un posto di blocco e avevano programmato i turni di vigilanza negli incroci delle gallerie. Se si fosse presentato qualche indesiderato, la porta antifuoco sarebbe stata chiusa da dentro e gli estranei mai avrebbero raggiunto il fulcro del comando.

I minatori si fidavano fra di loro e benché temessero le forze di polizia e la vita fosse dura, riuscivano anche a scherzare e ridere. Parlavano delle proprie famiglie e delle speranze lavorative. Si rafforzavano l’un l’altro, sperando ardentemente in un risultato positivo.

Il villaggio intanto, si era gremito di gente venuta da altri paesi. La notizia di questa speciale fisionomia di lotta, aveva raggiunto ogni luogo.
La polizia, usando l’intimidazione, voleva i nomi dei minatori in sciopero, mentre i giornalisti richiedevano alle valorose famiglie nientemeno che le fotografie dei propri cari in lotta.

Tutto serviva a far notizia e riempire le testate giornalistiche.
Giungevano, biglietti scritti dai minatori, indirizzati a mogli, amici e figli. La polizia e i giornalisti tentavano d’impadronirsene. I minatori si sentivano forti, perché sostenuti dalla gente.

Gli operai in lotta ebbero l’appoggio di tanti cittadini, dai più semplici ai più importanti. Le guardie erano arrabbiate perché non riuscivano a tirarli fuori. Si sentivano presi in giro. Era un vero pandemonio.

La promessa era quella di resistere per settimane, a meno che il Sindacato non fosse riuscito ad ottenere un accordo positivo, per i minatori. Insieme erano sicuri del successo.

Sindacalisti e politici salirono sul palco delle conferenze uno dietro l’altro, ma non trovarono la soluzione per un lavoro duraturo.
Intanto nella Segreteria della miniera era tutto un via vai di dirigenti. Erano stati convocati il Commissario di Pubblica Sicurezza, il Comandante della Celere, il Maresciallo dei Carabinieri, il Capo Guardia della Società e tutti i Tecnici che forse conoscevano le viscere della miniera.

Nessuno sapeva nulla. Non conoscevano la galleria in cui si erano fermati e a quale profondità si nascondevano. Nessun volontario si fece avanti per scendere nelle viscere della terra. La tensione si faceva sempre più spessa!

L’occupazione terminò a causa di un tradimento. Come quasi sempre avviene, anche in quell’occasione si trovò un Giuda Iscariota che tradì il Giusto.

Un ex minatore, promosso da tempo a dirigente, conosceva i segreti della miniera. Guidò la “celere” accuratamente nascosta, verso i due minatori che montavano il turno di guardia. Tesero una vera imboscata ai due scioperanti e le forze scelte di polizia li accerchiarono.

I minatori erano 44, e tutti vennero fatti uscire. Per ordine del direttore Padroni, vennero arrestati come delinquenti. Furono tutti processati, condannati e licenziati in tronco.

Ancora una volta sconfitti dalla cieca ottusità. Nel villaggio minerario di Ribolla, la gente soffriva perché non sapeva come sarebbe stato il loro futuro.
Oggi, si può affermare che quegli intrepidi minatori furono licenziati e soffrirono molto. Dovettero tirarsi su le maniche per trovare un nuovo lavoro, ma nessuno di loro fa parte dell’elenco dei deceduti che il 4 maggio 1954 trovò la morte nella miniera di Ribolla.

In quella stessa miniera, dove non erano state apportate migliorie alla sicurezza, come chiedevano i scioperanti di un anno prima e il lavoro era ancora svolto come nei cento anni precedenti.

Quel 4 maggio 1954, la violenza dell’esplosione fu terribile, con conseguenze termiche devastanti.

Lungo le gallerie ci furono effetti dinamici di spostamento d’aria. Alla confusione primaria si sostituì l’angoscia e il terrore. Come in tutte le sciagure delle miniere, le prime notizie erano imprecise. Non si arrivava a comprendere cosa in realtà fosse successo.

I responsabili sapevano bene che l’esplosione di grisou in una miniera, poteva portare solo risultati negativi e di proporzioni tragiche.
Le notizie divenivano sempre più chiare e la morte nera come il carbone, agghiacciava operai, mogli, figli e amici che si avvicinavano al pozzo Camorra.

Si misero tutti al lavoro, sperando di poter aiutare qualche superstite ad uscire.
In poco tempo, le notizie erano già arrivate nelle altre miniere e in tutti i paesi della Maremma.

Tutto era ancora nel vago ma si comprendeva che dei minatori erano morti facendo il loro duro lavoro.

Anni dopo per quei 43 morti si tenne il processo. Iniziò nel 1958 a Verona. I dirigenti della Montecatini pagarono i risarcimenti alle parti civili e zittirono anche molti testimoni che erano tornati a lavorare sotto terra per loro.

Il risultato fu un’assoluzione piena, e l’anno dopo la Montecatini licenziò tutti. Era padrona di Ribolla, e ora poteva distruggere il simbolo dei villaggi/fabbrica costruiti tra l‘800 e il ‘900 in Italia.

Un dramma nel dramma che divise il paese negli anni a venire.
L’ultimo “reduce”, Imolo Martini, è morto all’età di 95 anni nel febbraio 2017.

Imolo viveva a Roccastrada (Grosseto) ed era sopravvissuto perfino alla campagna di Russia. Era un duro ma quando parlava della miniera di Ribolla, cadeva in lacrime. Ricordava la foga disperata impiegata per risalire quei maledetti 260 metri di profondità del pozzo, dove lavorava quel 4 maggio.

Si arrampicava assieme ad una colonna di fumo denso e scuro, che era il pronostico di molti lutti tra i suoi amici di vita.

di Emanuele Corocher

Racconto pubblicato nell’antologia Racconti di Terra – Premio letterario Parole di Terra 2018

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