IL FIUME E IL DESERTO – Parte quinta: Sabbia e scorpioni

IL FIUME E IL DESERTO – Parte quinta: Sabbia e scorpioni, racconto di Paolo Ninzatti

Marzo. Anno del Signore 1530

Il sole batteva sulla sabbia. Rashid teneva d’occhio l’orizzonte, guardingo. I mamelucchi ai suoi ordini erano in pieno assetto di guerra, pronti a montare a cavallo e ondeggiare le scimitarre, a guadagnarsi il Paradiso.

Rashid era consapevole che il nemico era superiore, non soltanto ai suoi valorosi soldati, che da generazioni rifiutavano l’uso delle armi da fuoco, ma anche degli alleati, poco lontani, altri prodi guerrieri, i giannizzeri ottomani, che, invece, erano equipaggiati con cannoni e archibugi.

Chi era il nemico? Si diceva che ben presto sarebbero stati gli italiani ad attaccare, anche se altri sospettavano una rivolta di pagani, dotati di armi fornite dall’Italia. In ambo i casi entro poco si sarebbero trovati ad affrontare macchine volanti, carri semoventi o uomini meccanici.

Combattere all’arma bianca o usando inutili e antiquati cannoni avrebbe portato allo stesso risultato: una gloriosa disfatta e una morte da martire, prima della quale avrebbe avuto l’onore di trascinare all’Inferno qualche infedele. Il trionfo finale sarebbe stata l’entrata in Paradiso dove settantadue vergini attendevano lui, i suoi e gli alleati turchi. La sconfitta sul piano terreno sarebbe stata in realtà una vittoria per la Fede.

Poco più di un decennio addietro i mamelucchi avevano dovuto soccombere ai turchi. Pochi anni dopo avevano mal sopportato il vassallaggio al Sultano. Ma, davanti alla minaccia pagana o cristiana che fosse, ottomani e mamelucchi erano ora compagni d’armi, soldati dell’Islam. Tra le sue truppe militavano arabi e circassi.

Solimano aveva compensato la perdita di Costantinopoli da parte degli infedeli conquistando Baghdad anni prima, che era divenuta la nuova capitale dell’Impero, come lo era stata del Califfato, secoli addietro. Alle loro spalle, Alessandria era visibile a occhio nudo.

Il fior fiore delle truppe era stato stanziato alla difesa della città portuale e della capitale della provincia, Il Cairo. I condottieri avevano previsto l’eventuale strategia nemica e le truppe non temevano ciò che li aspettava.

Che scendessero dai cieli o attaccassero dal deserto non li avrebbe fatti tremare. Allah era dalla loro parte e se dovevano perdere, era Sua volontà. Nonostante servi del Demonio i nemici erano soltano esseri umani e le loro macchine, anche gli automini, soltanto ferraglia e vapore.

Il cielo si ingiallì all’orizzonte, sabbia sollevata. O un ghibli, oppure… gli infedeli. La cortina sabbiosa avanzava e dietro di essa, visibili ma sfocate, forme in movimento. Man mano che quella strana massa si avvicinava si potè constatare che non si trattava di macchine volanti, bensì una decina di sagome piatte e larghe.

Lanciò l’urlo di guerra e montò a cavallo, seguito dai suoi, ormai convinto di dover affrontare i carri corazzati prodotti in Italia, forme coniche irte di cannoni. Che fossero i seguaci della Regina maga Fatima o truppe d’assalto della Repubblica, in ambo i casi il Doge mandava i suoi lacché o italiani veri. La guerra italo-turca era iniziata.

Lanciò i suoi alla carica. Solo allora il coraggio cominciò a latitare. Quelli non erano carri, bensì forme grandi come elefanti che avanzavano su zampe. Zampe, non ruote. Con orrore le contò: otto.

Dieci enormi scorpioni color rosso uscirono dal giallo sabbioso. Le chele impugnavano cannoncini a ripetizione, a mo’ di pistole e sulla coda era piazzato un missile. Su ciascuna groppa si stagliava una specie di torretta non differente a quelle montate sugli elefanti da battaglia.

Il nemico aveva domato e ammaestrato dei mostri. Da dove erano usciti quegli scorpioni? Forse un sortilegio malefico li aveva fatti crescere a dismisura. Udì l’urlo di terrore dei suoi e dei turchi. Nessun guerriero dell’Islam tremava davanti a uomini armati. Ma quei mostruosi scorpioni, di umano non avevano nulla.

I cannoni impugnati dalle chele spararono e con precisione impressionante  fecero scempio della cavalleria mamelucca e delle artiglierie ottomane. Dalle code partirono i missili. L’impatto fu devastante. Non era la gloriosa sconfitta che si era atteso. La fede vacillò nell’inutile desiderio di voler affrontare uomini e non aracnidi giganti. Allah decise di donargli una gloriosa morte da martire quando uno dei mostri si diresse verso di lui.

Il cavallo si impennò e Rashid venne disarcionato. Si rialzò, mentre il mostro si fermava. Si voltò indietro; il terrificante spettacolo degli scorpioni che incalzavano mamelucchi e turchi in fuga si mischiò all’onta per il coraggio che aveva abbandonato i soldati dell’Islam.

Un portello della torretta si aprì e un nemico saltò giù. Vestiva una strana armatura e un elmo senza visiera. Vide i lineamenti: cinese, mongolo o in ogni caso dell’estremo oriente. La Regina pagana o l’Italia che fosse mandava mercenari da terre lontane. Il soldato disse qualcosa in una lingua sconosciuta e sfoderò una spada ricurva, la cui lama baluginò al sole. Giocherellò con quella strana scimitarra ostentando dimestichezza. Rashid impugnò la propria.

Il guerriero straniero rise. Piantò la spada nella sabbia e con un balzo si gettò contro di lui, disarmato. Pazzo suicida o prode combattente. La sicurezza dell’avversario lo sbilanciò e quello approfittò per compiere strani movimenti con tutti e quattro gli arti, quasi una danza. In un baleno, con una semplice manata al polso, il nemico gli fece cadere la scimitarra.

Poi, tornò verso lo scorpione e rimontò sulla torretta. Il mostro si mosse, voltò le spalle e corse via. Rashid si ritrovò solo, sulla sabbia. Guardò gli scorpioni che puntavano verso Alessandria. Vide molti caduti a terra. Ringraziò Allah che il guerriero straniero gli avesse risparmiato la vita.

                                                                            ***

«I mamelucchi e i giannizzeri sono in fuga spaventati dagli scorpioni meccanici come un tempo i romani davanti agli elefanti di Pirro» informò la mummia . «Le cose nuove impauriscono anche il più coraggioso guerriero.»

La voce era senza emozioni, in contrasto all’espressione trionfante di Iside, Freja e Gabriele nell’udire la conferma della vittoria. L’antica regina continuò.

«I giapanghesi che hanno usato il karate  hanno umiliato gli avversari battuti da uomini disarmati: la beffa. Alessandria è conquistata e i beduini incalzano mamelucchi e ottomani in fuga verso il Sinai. E la voce sparsa dai superstiti dilagherà per l’Egitto come uno stormo di cavallette annunciando il vostro trionfo.»

Mentre la mummia veniva portata via, Freja nonostante euforica, venne presa da un dubbio: la mummia informava, ma non sembrava partecipare alla gioia della vittoria. ”Il vostro trionfo” aveva detto. Da che parte stava l’antica sovrana?

                                                                                ***

La mitica Valle dei Faraoni si estendeva a poche miglia. La conferma che il covo di Iside, Freja e Gabriele fosse nelle sue viscere era stato il fatto che Fioravante e le sensitive non riuscivano più a compiere sessioni. Il potere mentale degli avversari, a breve distanza, era tale da bloccare il loro, nonostante i talismani. Quella specie di cecità aveva abbassato il morale dei sensitivi, fatta eccezione per Fioravante.

Atena, Fulvia e Mehmet, al contrario, che ciechi erano stati ogni volta che gli altri vedevano lontano con lo spirito, facevano lavorare la mente anche se non veggente per un piano pratico e coi piedi per terra. Se dal punto di vista occulto la vicinanza alla base nemica era stata una catastrofe, da quello spionistico, Atena, sua figlia e il collega turco consideravano i giorni trascorsi nascosti in quei paraggi nei pressi dell’antica Tebe, un successo.

Per notti e notti avevano visto e osservato le enormi aeronavi che avevano sbarcato a distanza di pochi giorni samurai di Giapangu e macchine, carri semoventi e scorpioni meccanici. Da lontano, col cannocchiale, avevano persino visto, alla luce delle fiaccole, i tre capi avversari.

Atena aveva dovuto sedare i bollenti spiriti della figlia, che aveva insistito per una sortita, un attacco a sorpresa. Specialmente dopo che Fioravante aveva esposto la sua teoria: che i devoti alla Luce tendono a vedere con lo spirito ciò che si trova più in alto e quelli dell’Ombra quello che sta in basso. Se loro ora erano ciechi, lo erano anche i nemici.

Ma Atena, un po’ madre e un po’ capo, aveva messo al suo posto la figlia e subalterna, fortunatamente sostenuta da Mehmet. Ma la giovane aveva insistito; se era una follia attaccare in numero inferiore samurai e beduini, Artemide, Anna e Fioravante avevano una mira eccezionale e potevano ciascuno colpire a distanza. Gli archibugi di precisione li avevano.

Fioravante si era intromesso e con calma aveva convinto la giovane che bisognava prenderli vivi. E loro erano tagliati fuori da ogni contatto amico. Il Proteus aveva lasciato l’Egitto per andare a prendere rinforzi, e, dopo la sospensione dell’alleanza, il Doge era stato costretto a non rischiare ulteriormente inviando macchine volanti. E anche se avesse trasgredito ai patti, Angelo non avrebbe saputo dove trovarli.

E neppure potevano contare sui turchi, ormai divenuti nemici. Erano soli, contro tutti.

CONTINUA…

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di Paolo Ninzatti

Racconto breve ambientato nell’universo del romanzo “Le ali del serpente” dello stesso autore.

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