IL FIUME E IL DESERTO – Parte sesta: Il sole di Alessandro

Marzo. Anno del Signore 1530

La voce del muezzin che chiamava i fedeli alla preghiera da un minareto alla periferia del Cairo arrivò fino alle prime file dei giannizzeri schierati alla difesa della città.

Il condottiero Mustafà si rammaricò per non avere il tempo di inchinarsi e unirsi ai fedeli, lontani perché il nemico poteva attaccare da un momento all’altro. Si limitò a leggere un brano dal Corano. La fede gli diede il coraggio per continuare a combattere. Ma le intenzioni di morire da martire latitavano.

Non era un codardo, ma ogni soldato vivo avrebbe contribuito alla difesa dell’Impero e delle forze del Bene. Perché, era convinto, un nemico che mandava scorpioni giganteschi contro esseri umani era un servo del Diavolo, con cui doveva aver fatto un patto per creare quei mostri. Allah, perdonali perché non sanno quello che fanno, pensò, variando un citato del profeta Gesù, quando ancora lui vi credeva, prima che i turchi lo convertissero alla vera fede.

Quando era solo un ragazzo e si chiamava Dimitri, nella nativa Macedonia, aveva sentito parlare del grande re Alessandro, che aveva dato gloria alla sua terra. E dopo l’arruolamento nei giannizzeri con il nuovo nome, aveva continuato a leggere le mirabolanti imprese dell’antico re macedone.

Alessandro aveva guidato i suoi, sempre in testa, prode, rischiando la morte ogni volta. E non appena gli scorpioni si fossero affacciati all’orizzonte, i loro domatori asiatici servi dei servi di Satana avrebbero visto lui, novello Alessandro alla testa dei giannizzeri andare al contrattacco; ma non per un’inutile sacrificio. No, di morire, Mustafà, non ne aveva alcuna voglia, come neppure Alessandro il Grande l’avrebbe avuta.

Finì la preghiera e andò a ispezionare le truppe. Non aveva sistemato le artiglierie in prima linea, bensì la sua arma segreta: tre specchi metallici enormi un po’ convessi, montati su ruote. Aveva fatto lavorare i fabbri per giorni e notti. Un condottiero si doveva sempre mettere dal punto di vista dell’avversario, e questo era soltanto un branco di aracnidi ammaestrati, perché avevano bisogno di soldati a guidarlo, come gli elefanti.

L’istinto animale avrebbe preso il sopravvento alla vista delle immagini di loro stessi, un po’ ingrandite. Scambiandoli per altri scorpioni, più grandi di loro, si sarebbero imbizzarriti fuggendo presi dal panico, come gli elefanti di Pirro davanti alle fiamme romane. Se la sua tattica avesse funzionato, gli ottomani avrebbero potuto usarla su tutti i fronti e riconquistare Alessandria. Pensando alla città, Mustafà ricordò chi l’aveva fondata.

Qualcosa avanzò all’orizzonte. Ma niente chele né code da scorpione. Un uomo su un cammello. Forse un messaggero nemico per trattare la resa. Ordinò di coprire gli specchi con dei tendoni e attese pazientemente l’arrivo dell’uomo. Era un arabo, che affermava di avere un importante messaggio per il condottiero.

Poco dopo, nel quartier generale, l’uomo venne interrogato da Mustafà.

«Mi chiamo Aziz, e mi vergogno di confessare che ero uno spione al servizio dell’Italia. Ma voglio riscattarmi fornendo alla Sublime Porta importanti informazioni. In compenso supplico umilmente di aver salva la vita.»

Mustafà rispose, risoluto.

«Hai la mia parola, ma solo perché il tempo stringe e voglio sapere tutto sul nemico, subito e adesso. Jalla, jalla

Aziz parlò.

«Il Doge è impazzito, indemoniato. Si è alleato con la strega Fatima e ha sfoderato armi segrete mai usate prima. Gli scorpioni sono solo macchine, un po’ più pericolose dei carri corazzati, ma hanno spaventato i più coraggiosi soldati dell’Islam. Ma ben presto la Repubblica metterà in campo aeronavi enormi, capaci di volare fino ai confini del mondo, in Giapangu, dove sono stati arruolati mercenari pagani di quel paese.

Non posso più servire un’Italia sotto un pazzo votato al Diavolo che si è messo contro l’Islam, tradendo l’alleanza decennale con la Sublime Porta. Tra dieci giorni, mentre una modesta forza attaccherà qui, le navi voleranno su Baghdad e i diavoli gialli del Sol Levante la conquisteranno.»

                                                                             ***

«Il Sole all’Orizzonte è sopra di noi. Appartenuto a un soldato di Alessandro il Macedone. Una donna indegna lo porta, ma per chi parla coi Messaggeri è un talismano di valore inestimabile.»

La mummia tacque. Da giorni ripeteva la stessa cosa. Gabriele notò il lampo di avidità negli occhi di Iside ogni volta che la regina morta ripeteva la medesima frase. E ogni volta insisteva ad agire, a catturare gli intrusi che spiavano da giorni, sempre stando alle informazioni dell’antica sovrana.

Gabriele poteva capire la voglia della nuova regina di impadronirsi di un ciondolo capace di acuire il potere suo, della sua collega defunta da secoli e di Freja. Oltre a tutto appartenuta a un milite di un grande conquistatore.

Quello che invece era ancora un mistero era l’esitazione di Freja. Secondo lei, in teoria, i seguaci dell’Ombra non avrebbero potuto vedere con gli occhi dello spirito i seguaci della Luce da sottoterra. E invece, in barba a tutte quelle teorie astruse, la mummia aveva informato della presenza delle spie nemiche. Un vantaggio per loro, senza dubbio, ma la sua alleata sospettava che Iside nascondesse qualcosa.

Il potere magico della regina era forse più forte di quanto non volesse mostrare ai suoi alleati. Se la mummia era stata una sovrana dedita alla Luce, Iside era riuscita a convertirla, come aveva fatto con le spie, una delle quali aveva ingannato i giannizzeri alla difesa del Cairo. Anche Gabriele avrebbe preferito catturare gli intrusi. Ma Freja esitava, sospettosa. Voleva valutare il potere della regina, prima che questa mettesse le mani sul talismano.

Quello non era un triumvirato basato sulla lealtà e sulla fiducia reciproca. Era un compromesso secondo le regole di Machiavelli. Freja veniva da una famiglia di intriganti, lui stesso era stato un ladruncolo infido e falso. E Iside non era da meglio. La strada per conquistare il mondo era ancora lunga. Prima l’Egitto, poi i resti dell’Impero Ottomano sconfitto dalle macchine italiane, che a loro volta sarebbero state debellate dalla sue, più potenti e micidiali. Solo allora, la resa dei conti.

Freja tirò un respiro, non appena la mummia venne portata via. A ogni sessione temeva che questa captasse i suoi sospetti e i piani che aveva in mente. Se avesse potuto fidarsi di Iside, avrebbero fatto una sortita in superficie, sorprendendo le spie, convinte che la cecità spirituale fosse reciproca. Ma Iside non doveva impossessarsi del Sole all’Orizzonte.

Il talismano spettava a lei. Per questo non dovevano essere i beduini a catturare gli intrusi, bensì i suoi samurai. Avrebbe dovuto agire di nascosto. Era in dubbio se mettere Gabriele al corrente dei suoi piani. Un infido ladruncolo dalla grande intelligenza. Le macchine progettate da lui erano state sviluppate da progetti copiati e rubati. Una volta ladro e falso, sempre ladro e falso.

La storia insegnava che i triumviri erano finiti per guerreggiarsi l’un l’altro. Chi sarebbe stato il novello Cesare, o l’Ottaviano a reggere l’impero prossimo venturo, che si sarebbe esteso per tutta l’Europa e l’Asia fino a Giapangu? Il primo impero che avrebbe veramente fatto il giro del mondo, dove l’alba era anche il tramonto. Un ladro e le sue macchine? Una maga dal potere ipnotico? O chi li avrebbe messi l’uno contro l’altra? Purtroppo era ancora troppo presto per disfarsi dei due alleati.

                                                                             ***

I beduini entrarono al Cairo al galoppo ventolando la bandiera con lo Scarabeo, il simbolo della regina Iside. Il loro capo, Ali, provava orgoglio misto a senso di rivalsa, nonostante la città fosse stata conquistata senza colpo ferire. Avrebbe preferito una gloriosa battaglia contro i giannizzeri, un confronto da vero guerriero.

Stringeva in mano un rivoltone fabbricato in Giapangu; i suoi beduini erano equipaggiati con armi uguali. Se i giannizzeri non fossero cascati nell’inganno marciando alla difesa di Baghdad, avrebbe avuto il piacere falciarli con raffiche di proiettili. Ma non appena i vessilli con la Mezzaluna ottomana vennero ammainati e bruciati e quelli con lo Scarabeo garrire al vento proveniente dal deserto, si sentì ugualmente vincitore.

I beduini nomadi erano da secoli considarati lo strato più basso della società egiziana. Arabi, mamelucchi e ottomani li avevano sempre discriminati. Considerati predoni di poca fede. Vero, molti beduini interpretavano il Corano un po’ a modo loro. Ma ora, servire antiche divinità egizie e dare lustro al suo paese aveva dato motivo per una Guerra Santa.

Gli dei avevano soppiantato il dio dei padroni che avevano vessato l’Egitto per secoli. I beduini non avevano ancora una divisa, ma lo Scarabeo cucito sul petto lo faceva sentire soldato di una causa a cui si era dedicato fin dalla notte in cui aveva visto il carro del faraone sulla facciata della piramide. Il messaggio degli dei per la grandezza d’Egitto.

CONTINUA…

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di Paolo Ninzatti

Racconto breve ambientato nell’universo del romanzo “Le ali del serpente” dello stesso autore.

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