IL FIUME E IL DESERTO – Parte settima: Sotto la sabbia

Aprile. Anno del Signore 1530

 

Fulvia montava di guardia stringendo in mano l’archibugio a ripetizione. Era il suo turno e ormai si era abituata alle ore passate sempre guardinga e attenta a ogni minimo rumore e anche a ombre in movimento.

Era una notte di luna e il suo sguardo poteva estendersi per almeno mezzo miglio. Fu allora che vide la figura vestita di nero avanzare, lentamente. In una notte scura sarebbe anche potuta passare inosservata e avrebbe anche avuto la possibilità di avvicinarsi di più. Se aveva intenzioni ostili, di chiunque si trattasse, non era una mossa intelligente scegliere una notte del genere per una sortita. E soprattutto da solo. A meno che non fosse l’avanguardia di una forza d’attacco.

Fulvia si inchinò puntando l’arma. Non appena la figura fu a pochi piedi, lei vide un uomo vestito alla foggia araba. Diede un ultimo sguardo notando che non c’era nessun altro dietro costui. O si era cacciato in trappola da solo, oppure era un messaggero. C’era un solo modo per saperlo. Senza alzare troppo la voce ordinò: «Mani in alto. Ti tengo sotto tiro con un rivoltone.»

L’arabo ubbidì replicando, in italiano con cadenza straniera: «Parla piano. Sono un agente della Serenissima Repubblica. Ho un’importante informazione per voi. Il tempo stringe.»

L’agente Malik fece strada seguito da Fioravante. Dietro al druido, Artemide e  Anna. Padre, figlia e nipote, poi Atena, Fulvia, Luna d’Argento, Fiona e Gudrun. Mehmet era rimasto di guardia all’accampamento e ai cammelli.

Fulvia era eccitata dal fatto che finalmente si potessero menare le mani, dopo tanto tempo in posizione di stallo. Era anche orgogliosa dell’efficenza dello spionaggio italiano; quando ormai si era dato per scontato che i tre agenti fossero stati scoperti, ecco che invece, Malik, con pazienza aveva indagato e pedinato il losco terzetto scoprendo non soltanto il loro nascondiglio, ma anche un antico passaggio segreto per penetrarvi.

Aveva anche rassicurato che i due colleghi si trovavano ora dietro le linee avversarie, uno ad Alessandria, l’altro al Cairo, ormai in mano nemica.

La situazione era ormai disperata e l’Egitto era in pratica nelle grinfie della regina Iside e i suoi alleati. Ma se il piano andava in porto, loro sarebbero penetrati nella base segreta. Malik aveva per giorni studiato ogni dettaglio delle antiche tombe dei faraoni. Gli alloggi di Gabriele, Freja e Iside non erano lontani dall’imbocco del passaggio. Malik aveva anche origliato i discorsi dei tre, confermando che costoro ignoravano la loro presenza.

Atena aveva imbastito il piano, semplice ma efficente. Sarebbero penetrati negli alloggi dei triumviri, avrebbero messo fuori combattimento le sentinelle con i dardi narcotici e avrebbero usato gli stessi contro i loro capi, sorprendendoli nel sonno. Dopodiché si sarebbero dileguati in silenzio con i prigionieri addormentati sui cammelli. L’agente aveva anche organizzato la fuga a bordo di un submarem, che avrebbe navigato sotto le acque del Nilo, fino al mare, evitando il pericolo di venire scoperti.

Fulvia sorrise mentre immaginava la faccia di quei tre svegliarsi a Venezia, pronti a venire rinchiusi nelle patrie galere. Strinse la pistola lanciadardi, sperando di essere lei la prima a prolungare il sonno di uno dei tre facinorosi. Ma la sfida con Artemide e Anna era grande.

Ringraziò che sua madre non potesse leggerle nel pensiero ammonendole che era ora di crescere e di smettere di giocare, considerando il pericolo della missione. Una mossa sbagliata, un bersaglio mancato, un grido di allarme e di colpo si sarebbero trovati ad affrontare guerrieri del deserto e samurai.

Il wadi si fece più stretto. Malik premette un sasso e d’un tratto il terreno si aprì, mostrando una rampa di scale sotto il suolo. Lesto, si immerse nelle viscere della terra, seguito dagli altri. Quando venne il proprio turno, Fulvia sentì la piacevole sensazione del rischio. Scesero arrivando a un corridoio illuminato da lampade a olio. Malik premette qualcosa che lei non vide, e il muro davanti a loro si aprì a mo’ di porta.

Si trovarono in una grande sala con affreschi e bassorilievi sicuramente millenari, che ancora ostentavano la grandezza di quel paese. Uno, raffigurante un’antica regina, sembrò dare loro il benvenuto. Malik aprì una porta, facendo cenno di attendere non appena l’ebbe varcata. Questa si chiuse. Fulvia ne fu sorpresa, ma non appena anche il muro del passaggio tornò al suo posto, Atena urlò: «Tradimento! Una trappola.»

Le bocche di una fila di guerrieri scolpiti nel muro si rivelarono dei fori dai quali si scaturì del fumo grigio, che in breve dilagò nella sala. Dalle labbra socchiuse del bassorilievo rappresentante l’antica sovrana, una voce di donna parlò, in italiano.

«Volevate addormentarmi e catturarmi. Sarete invece voi a cadere nel sonno e finire prigionieri. Il vostro risveglio sarà molto spiacevole.»

Il grigio circondò Fulvia, accecandola. Il fumo aveva un odore dolciastro. Le palpebre si appesantirono. Poi, il buio.

                                                                          ***

L’enorme nave volante spuntò all’orizzonte e in breve si trovò sopra i cieli di Baghdad. Mustafà, dalle mura, vide il Leone di San Marco dipinto sulla fiancata. Scese correndo dagli spalti chiamando a raccolta i suoi giannizzeri, mentre l’imponente gigante sorvolava la capitale imperiale. Un attimo dopo, il cielo si riempì di forme umane appese a ombrelli a forma di piramide. Subito dopo, la grande nave girò, allontanandosi.

Mustafà aveva previsto quella strategia. Colpi ben assestati di cannone avrebbero prima o poi recato danni alla macchina volante e questa se l’era squagliata, vomitando i guerrieri con rallentacadute. Senza le informazioni della spia passata dalla loro, la città sarebbe stata attaccata di sorpresa. Ma ora lui e i suoi giannizzeri avrebbero dato la caccia agli invasori scesi dal cielo. Ne identificò due, che stavano calando dietro una casa. Sfoderò una pistola e una scimitarra.

Come aveva previsto, non si trattava di fanti d’aviazione italiana. Gli uomini in armatura di stile asiatico ed elmi dalla visiera con le fessure di vetro erano palesemente i mercenari di Giapangu, che la Repubblica mandava in prima linea. I due guerrieri atterrarono. L’uno in piedi, l’altro sdraiato. Sparò al primo.

Quello sembrò non venire scalfito e, apparentemente invulnerabile, si mise a camminare. Per un attimo Mustafà pensò che quelle corazze dovevano essere a prova di proiettili, ma non appena notò il passo troppo cadenzato del giapanghese, concluse all’istante che quelli erano soltanto automini.

Il compagno del primo si alzò, goffamente. L’altro cominciò a falciare l’aria, con le mani metalliche vuote, a ritmo, imitato subito dopo dal compagno, secondo regole di molle, ingranaggi, sfere a vapore, senz’anima, né coraggio, né paura, timor di Dio o fedeltà a re, dogi, papi o patria alcuna.

Macchine, e neppure tanto sofisticate, come lo erano stati invece gli scorpioni. Un paio di colpi di cannoncini e quelli sarebbero divenuti ferraglia inutile. Sicuramente costruiti in fretta e furia per ordine del Doge indemoniato. Improvvisamente, dalle dita meccaniche scaturirono getti di vapore che gli automini, muovendo le braccia, sparsero nell’aria.

Mustafà osservò meglio: non era vapore, bensì fumo grigio, che in breve divenne a nuvola che avanzava, sempre più grande, unendosi a quella del compagno del finto giapanghese. Un drappello di giannizzeri sbucò da dietro l’angolo. Una nube di fumo, dall’altro.

I giapanghesi calati sulla città spargevano quell’intruglio. Vide i suoi soldati venirne avvolti. Li sentì tossire e poi accasciarsi al suolo. L’ultimo suo pensiero fu per gli abitanti della città che entro breve avrebbero respirato quei veleni. La vista si fece grigia. Attese settantadue vergini prima che il grigio si facesse nero.

                                                                            ***

La donna era bellissima. I suoi occhi neri lo fissavano. Solimano, appena tornato in sé, si chiese se la meravigliosa creatura fosse una delle vergini a lui destinate in Paradiso. Ma poi riconobbe i contorni della sua stanza nella fortezza e comprese che si trovava sempre a Baghdad ed era ancora in vita. Aveva soltanto dormito e ora si stava svegliando. Ma quegli occhi lo stavano riportando dentro un nuovo sogno.

Era sveglio, eppure i sensi non rispondevano del tutto alla sua volontà. Una parte di lui era Solimano il Magnifico, ma lo sguardo della donna soggiogava man mano il resto della sua volontà. La baldanza e la determinazione erano ancora presenti, ma quel fluido, unito alla litania che usciva dalla bocca di lei, gli stavano imponento ordini a cui lui non sarebbe stato in grado di disubbidire.

Solimano era un guerriero ma quella strana magia stava imponendogli quale nemico combattere. Passò dallo stato di veglia a quello di schiavo di una volontà non più sua. La voce della donna ripeteva in arabo, lingua che lui conosceva, la stessa frase e le parole alla fine divennero come un imperativo.

Alla fine, mentre ormai la magia della Regina dea Iside, che gli stava davanti gli ordinava di muovere guerra alla Repubblica Italiana, lo stratega ancora vivo in lui, agì come Solimano avrebbe fatto anche libero dal servaggio mentale.

CONTINUA…

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di Paolo Ninzatti

Racconto breve ambientato nell’universo del romanzo “Le ali del serpente” dello stesso autore.

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