IL FIUME E IL DESERTO – Parte trentaquattresima: Le due torri

Luglio. Anno del Signore 1530.

 

Quando Bologna si stagliò all’orizzonte, una valanga di emozioni inondò Fratello Fulmine.  Bologna La Turrita, simbolo dell’Uomo che vuole elevarsi a Dio, come coloro che avevano osato costruire la Torre di Babele e che il Signore aveva punito confondendo le loro lingue.

L’Uomo era terra e non doveva elevarsi verso i Cieli, né in cima a torri, né volando su macchine diaboliche. Non era suo diritto e prima o poi ogni marchingegno che osava emulare gli angeli sarebbe caduto con fragore, come Lucifero.

Fratello Fulmine pregava insistendo a chiedere perdono al Signore per essere ormai l’unico uomo nei cieli d’Italia. Così gli aveva ordinato l’Angelo Sterminatore, l’unico essere capace di convincerlo a salire a bordo di un ornitottero. Più che combattere per il Triumvirato o la Spagna lui voleva distruggere e uccidere in nome di Dio.

La suora che l’aveva ingaggiato gli aveva promesso che dopo l’invasione e l’avvento di una nuova austerità, le macchine volanti sarebbero state distrutte, l’Uomo avrebbe finalmente ritrovato l’umiltà e ogni ambizione di elevarsi troppo in alto sarebbe stata estirpata per sempre.

Prima le macchine volanti, poi le torri. E infine, le case. Sarebbero state scavate grotte e gallerie e le nuove città sotterranee sarebbero state popolate da uomini di buona volontà. Le macchine diaboliche sarebbero state usate per battere il Diavolo stesso.

Con l’inganno, il Re di Francia aveva dirottato l’intera flotta aerea della perversa Repubblica verso l’Egitto e ora nessun italiano era più in grado di volare. Tutti all’infuori di lui. Pregò più intensamente per il piccolo peccato di vanagloria, mentre pilotava l’ornitottero verso una specie di gigantesca capovolta V un po’ sghemba. Bologna scorreva sotto di lui.

Chissà cosa provavano quei peccatori, là sotto? L’ornitottero fornitogli dai giapanghesi era stato truccato in modo da sembrare un angelo. Piume candide sulle ali e finte braccia, una delle quali stringeva in mano una enorme spada. Una testa dipinta ad arte rappresentava un volto angelico dall’aria truce: l’Angelo Sterminatore. Ma non sarebbe stata la spada a seminare morte e distruzione, bensì i missili attaccati sotto le ali.

Forse quei senza Dio non sarebbero caduti nel trucco, ma entro poco avrebbero compreso l’allegoria. In ogni parte d’Italia i suoi Fratelli Flagellanti stavano colpendo un po’ dovunque, spianando la strada alle forze preponderanti dei liberatori. La profezia biblica della Battaglia di Armegheddon si sarebbe avverata. Le macchine dei giapanghesi in arrivo erano gli angeli sterminatori della profezia. Ma nessuna ne aveva le sembianze.

Pregò ancora una volta per aver osato paragonarsi agli inviati di Dio. La Torre degli Asinelli e la sua sorella più bassa e pendente, la Garisenda, divennero sempre più grandi. Fatte costruire cinque secoli addietro dai nemici del Papa, i Ghibellini, per glorificare la loro effimera potenza, morta e sepolta, sarebbero state le prime a crollare, entro breve.

Fratello Fulmine ripensò al proprio passato e ai diversi nomi che aveva assunto e che ora non contavano più nulla. Un tempo soldato al servizio degli Sforza. Poi milite del Signore, aveva tentato di fondare una repubblica basata sulla Fede, a Bergamo, ma due maledette finte suore gli avevano strappato la vittoria. Dopo anni di prigionia, altre monache l’avevano liberato, dandogli la libertà di scegliere come colpire.

E l’angelo che da sempre aveva ispirato le sue azioni, gli aveva dato licenza di sterminare in suo nome e a sua immagine e somiglianza. Nel ’13 una palla di cannone aveva colpito l’abominio più alto, quella degli Asinelli, ma questa aveva resistito all’impatto. La gramigna era dura da estirpare, ma un missile ben assestato alla base avrebbe fatto abbassare i rimasugli della vecchia tracotanza ghibellina.

Si accinse a tirare il cordino che lanciava il missile, quando con grande delusione si accorse che le strade ai piedi delle torri erano deserte. Si consolò un attimo dopo, pensando che anche se forse non ci sarebbero state molte vittime, il solo fatto che la gente avesse voltato le spalle a divertimenti e mercati, convinta che l’invasone fosse ormai imminente, era un buon segno dei tempi a venire.

Il missile partì e colpì. L’esplosione scatenò fuoco e fiamme. Fulmine sorvolò le due torri e girò.

Lo spettacolo era terrificante. Dalla nuvola grigio scuro in basso la cima della torre si ergeva. Volò in cerchio due volte nell’attesa che quella Babele rovinasse al suolo, ma l’abominio ghibellino restava in piedi. Quindici anni addietro aveva resistito a una cannonata. Ora, sembrava immune a un missile.

Era ora di colpire la Garisenda. Lanciò il proietto e colpì alla base. La costruzione, già pendente si inclinò sempre di più, fino ad andare a cadere contro l’altra torre.

Fu il colpo di grazia per gli Asinelli, abbattuti dall’opera claudicante di altri Ghibellini, dopo secoli. Troppo tardi Fulmine si accorse che l’altissima torre stava cadendo sul suo velivolo. Impossibile evitare l’impatto. Fulmine si preparò a morire da martire.

                                                                           ***

«Veniero, rendimi le mie navi!» urlò il Doge, furente, consapevole di sentirsi come Cesare Augusto alla notizia della disfatta di Varo a Teutoburgo e scimmiottando la famosa frase. Poi tacque, cercando di ponderare sulla gravità della situazione, ma anche sulle possibili svolte a vantaggio della Repubblica.

Andrea Doria e gli altri condottieri attendevano ordini, istruzioni e strategie. Si rivolse a Doria.

«Ammiraglio, spiegatemi meglio questa storia dei missili che seguono il bersaglio e dei piloti suicidi.»

Doria si schiarì la voce e parlò

«Eccellenza, ho soltanto la testimonianza dei naufraghi superstiti, che mi hanno riferito mentre erano ancora spaventati a morte. Ma tutte le descrizioni sembrano combaciare: gli antimissili seguono la traiettoria sia dei missili che degli ornitotteri, come fossero vivi e intelligenti. Quanto ai piloti suicidi, all’inizio avevamo pensato alla stessa tecnica degli antimissili applicata agli ornitotteri, dove i bersagli erano le aerogalee…»

Si interruppe come esitando a descrivere qualcosa di sgradevole.

«Proseguite, Doria.» ordinò il Doge.

L’ammiraglio inghiottì saliva prima di parlare.

«Eccellenza, accanto a cadaveri dilaniati degli aeronauti di Veniero, pace all’anima sua, galleggiavano anche arti mozzati, torsi con volti dalle sembianze asiatiche.»

Il Doge cambiò argomento perché si stava accorgendo che Doria era in procinto di rimettere per il ribrezzo.

«E Veniero? Siete sicuro che sia tra i caduti?»

Doria trattenne un urto di vomito mentre mostrava le pantofole ancora bagnate e odoranti di acqua salmastra del giovane e collerico veneziano.

Si fece un segno della croce e concluse il rapporto con Doria, che, dopo un saluto, uscì dalla sala assieme agli altri ufficiali.

Rimasto solo con Loretta, Ferruccio sentenziò: «Anche il terrorista che ha colpito a Bologna era un pilota suicida da quanto ho appena appreso.»

L’agente Atena dissentì subito.

«Non è esatto: da buon italiano, il tipo se la sarebbe svignata in volo, ma la torre degli Asinelli è cascata addosso sia a lui che al finto angelo. Dal torso in su era intatto e riconoscibile. Una vecchia conoscenza. Bergamo, nel ’13. La Spada e l’Archibugio. Finalmente prima di finire al cospetto della sua versione di Nostro Signore, è finalmente riuscito in una missione. O almeno, parte di essa.»

«In che senso?»

«Quel giorno ero a una spanna da quel fanatico. Nonostante siano passati tanti anni, quello non è il tipo da leccarsi i baffi per qualche mattone abbattuto. Quello voleva ammazzare. Se non fossimo stati in guerra, ci sarebbe stata una discreta folla per le strade. Buon per lui: secondo la versione del Dio che dice di non ammazzare, in Purgatorio sarà piazzato nel girone dei vandali, ma non degli assassini.»

«Le torri si possono ricostruire; le vite umane, no» sentenziò il Doge.

Loretta sorrise rimettenbdolo di buon umore.

«La buona  notizia è che costui non era una semplice recluta. I Flagellanti hanno perso un capo. Un pezzo grosso in meno a cui dare la caccia.»

«E visto che la tanto attesa invasione giapanghese si farà attendere, quei fanatici perderanno la veemenza. Di danni ne hanno fatti anche troppi in questi giorni. E pace alle loro vittime anche se non molte. Purtroppo un terzo dell’aviazione è perduto.»

«Un terzo? Nonno, la memoria ti sta venendo meno? Hai dimenticato le tre superportaornitotteri in America? Doria ha appena riferito che al nemico ne sono rimaste solo cinque.»

 «Quello che temo sono quei missili che seguono il bersaglio. Noi non abbiamo niente da contrapporvi.»

CONTINUA…

Torna alla trentatreesima parte

di Paolo Ninzatti

Racconto breve ambientato nell’universo del romanzo “Le ali del serpente” dello stesso autore.

Lascia un commento