IL FIUME E IL DESERTO – Parte trentunesima: Deserto in fiamme

Luglio. Anno del Signore 1530

 

Le cinque enormi portaornitotteri colpite sembravano animate e vive. La lava uscita dagli involucri stava fondendo il metallo dall’interno. I missili di Doria e Veniero erano un modello dotato di una testata esplosiva che perforava il metallo e di un’altra, più potente, che scoppiava non appena penetrata all’interno.

Rivoli di lava uscivano dalle chiglie dei relitti e gas venefici odoranti di zolfo ammorbavano l’aria. L’ammiraglio genovese comprese ben presto che qualora avesse insistito a bersagliare il resto della flotta nemica, le esalazioni e la lava avrebbero rischiato di avvelenare i francesi e i suoi uomini.

Per sfortuna o fortuna gli antimissili giapanghesi avevano evitato lo sfacelo delle altre navi. La natura stava vincendo la propria battaglia a discapito degli uomini. Necessitava una tregua. E una ritirata. Corse sul ponte, e accese il fuoco cinese colorato. Il segnale di imbarco immediato.

                                                                         ***

Non appena i primi rivoli di lava cominciarono a uscire dalle navi mostruosamente contorte Francesco I capì che entro poco non ci sarebbero stati né vincitori né vinti.

Ringraziò Dio che al comando delle flotte unite ci fosse Doria anziché quel giovane esaltato di Veniero e sperò che il genovese oltre che di senso strategico fosse dotato di senno.

Se avesse ragionato come Veniero, il Re avrebbe lanciato i propri uomini all’inseguimento dei giapanghesi, su per la rampa a continuare la battaglia a bordo delle navi. Ma sapeva che la lava colata sarebbe dilagata per il suolo, tagliando ogni via di fuga.

Se le navi di Shimada fossero riuscite a salpare, i suoi prodi si sarebbero trovati intrappolati a bordo. Se avessero impedito il decollo, la lava avrebbe sciolto le navi ancora a terra.

Oltre a tutto, i fumi avrebbero ben presto oscurato la visibilità impedendo la comunicazioni via razzi colorati e sbandieramenti tra ogni reparto che fino a ora aveva mantenuto una tattica omogenea.

Orbene, Doria comandava le navi, ma le truppe di terra erano ai suoi ordini e sotto la sua responsabilità. Oltre a tutto, una parte di lui era preoccupata per la sua alleata, la donna che amava. Agì risoluto e diede l’ordine di segnalare la ritirata verso le navi italiane.

Francesi, svizzeri e tedeschi ubbidirono e corsero verso la flotta di Doria. Lui spronò il cavallo dalla parte opposta in cerca di Basma. Si voltò indietro e mentre vedeva i suoi prodi correre verso la salvezza, il segnale di imbarco di Doria fu gioia per i suoi occhi.

                                                                          ***

Shimada non seppe se lo spettacolo davanti ai suoi occhi rappresentasse una sconfitta o una vittoria.  Aveva perduto metà della sua armata e quella superstite non era abbastanza potente per poter invadere l’Italia, ora che era evidente che la sua aviazione era in pieno assetto di guerra.

Una cosa sola avrebbe potuto fargli considerare l’esito della battaglia un trionfo. Inforcò l’autobiruote e accese il motore. Scese per la rampa e saltò al suolo. Un rivolo di lava, un rosso fiume crestato di fiamme, rompeva l’uniformità gialla e sabbiosa, intruso nella natura di quelle terre.

Shimada impennò il veicolo e saltò l’ostacolo. Fortunatamente il ruscello infiammato non era troppo largo, in caso contrario lui sarebbe stato fuso divenendo tutt’uno con il magma. Il nemico si stava ritirando, incalzato dai ruscelli incandescenti.

I fumi formavano una caligine grigio scura; il puzzo di zolfo raggiunse le sue narici, con la consapevolezza che entro poco l’aria sarebbe diventata irrespirabile. Ma nulla poteva fermarlo ora. E quando vide Lucrezia, in piedi, stoica, comprese di trovarsi a un passo dalla vittoria e dalla riscossa.

                                                                          ***

Basma guardò lo sfacelo che la circondava. Le navi giapanghesi si contorcevano come draghi agonizzanti non più in grado di controllare le fiamme che sputavano e sanguinavano di lava fiammeggiante che stava colorando il giallo della sabbia eterna del deserto di rosso.

Solo una cosa la consolò: un rivolo vermiglio e ribollente stava dilagando verso l’entrata del covo di sua sorella e i suoi alleati, il luogo dove lei era stata tenuta prigioniera. Entro poco la lava vi sarebbe penetrata trasformando quel luogo maledetto in una bolgia dell’Inferno descritto da quell’italiano, Dante Alighieri. Un piccolo trionfo della Luce.

La sua scorta di beduini era pronta a proteggerla. Ne ebbe compassione pensando che quelli in realtà sarebbero stati pronti a morire fusi dalla lava assieme a colei che credevano sua sorella. Ne ebbe compassione e diede l’ordine di mettersi in salvo.

Dovette insistere tre volte prima che, con le lacrime agli occhi, quei prodi guerrieri, più per ubbidienza che per salvare la vita, montassero a cavallo e si dirigessero verso le navi italiane. Non era per lei che piangevano quei prodi, ma per Fatima. In un attimo si sentì veramente sola mentre il rivolo incandescente penetrava nella base.

Pensò alla propria infanzia e giovinezza, invidiata e odiata per le proprie prerogative vaticinanti. Mai amata, forse da sua madre o da suo padre, ma rispettata solo per quello che sapeva fare, non per quello che era. La donna dietro all’aruspice non era stata mai amata da nessuno. Fino a quel momento. O almeno lo credeva.

Francesco, pensò. Non Francesco Primo Re Imperatore, ma solo Francesco, un uomo dietro l’armatura, dietro la corona, lo scettro e il titolo. In quel monento anche lei, Regina d’Egitto, era soltanto una donna, sola, innamorata e che stava assistendo a uno spettacolo di distruzione immane, fiamme, fuoco e fumo. Lo sfacelo di una piccola parte del suo regno. Tutto stava cadendo. L’unica cosa rimasta in piedi era l’amore.

Alle immagini reali si sovrapposero altre che vaticinavano avvenimenti e differenti diramazioni del prossimo futuro, tanto confuse che lei non seppe più cosa sarebbe accaduto in quel determinato destino. In uno lei sarebbe morta, e Francesco, sopravvissuto, sarebbe volato via da quella bolgia infernale a continuare la guerra contro le forze delle Tenebre.

In un altro lo vide morire assieme allo sfacelo di ambo le flotte. I pronostici si amalgamarono e lei perse il senso della realtà, rassegnandosi al suo destino, qualunque fosse. Tra l’alluvione rossa con i suoi tentacoli che ghermivano la sabbia e le fiamme in sottofondo vide d’un tratto qualcosa in movimento. Un uomo a cavallo, in lucente armatura.

Durante il suo soggiorno a Firenze, assieme a Fatima, a studiare la cultura e la lingua italiana, aveva letto poemi cavallereschi. Nel vedere avanzare il moderno Lancillotto credette di sognare. Di sicuro un miraggio, una fatamorgana, scherzi del deserto, anche se questo si stava riducendo a una nuova Pompei. O era l’effetto dei fumi venefici puzzolenti di zolfo? Ma certo, la morte la stava prendendo.

Il cavaliere arrivò al suo cospetto. La sua armatura baluginò al sole, prima che i fumi coprissero l’astro, rendendola opaca. Alzò la celata dell’elmo e lei ringraziò gli dei che prima di morire le avessero inviato l’ultimo sogno, incarnato nel suo più grande desiderio.

«Francesco, amore mio, portami in cielo.»

Il cavaliere rispose con voce melodica: «Monta sul mio destriero. Non è Pegaso, ma dopo una galoppata ci penserà Andrea Doria a portarci negli Eccelsi. Il Paradiso più aspettare.»

                                                                       ***

Lucrezia Borgia gioì nel vedere che metà flotta giapanghese era ancora intatta. Ragionò come avrebbe fatto suo fratello e formulò il piano di riserva. Fredda e calcolatrice non badò al pericolo della lava e dei fumi.

Già sapere che il colpo di mano orchestrato da Iside contro di lei e Salai era miseramente fallito era un piccolo trionfo. Aveva perduto un’alleata e l’Egitto, ma anche una spina nel cuore a cui stare attenta. Ma aveva guadagnato i poteri del Sole all’Orizzonte.

La convinzione era tanto grande che in qualche modo sapeva che l’avrebbe scampata. E quando vide l’autobiruote con a cavalcioni un giapanghese con l’armatura da ammiraglio ne ebbe la conferma. Il veicolo frenò e lei montò sul sellino posteriore. E mentre Shimada zigzagava evitando fiamme e lava con maestria, lei già stava imbastendo le prossime mosse.

Fatima dominava l’Egitto e, via Francesco I e Solimano, Francia, Germania e Impero Ottomano. La flotta ridotta di Shimada non sarebbe bastata per sconfiggere l’Italia, ma nonostante tutto sarebbe stata in grado di apportare danni ingenti alle altre potenze non dotate di aviazione.

La gara di corsa tra il lago di lava e l’autobiruote diede la vittoria a quest’ultima, che salì la rampa. Non appena a bordo sentì l’elevazione. Guardò fuori dal finestrino e vide le altre portaornitotteri involarsi, lasciandosi dietro fiamme e lava. Lontano, tra il fumo, lo sciame della flotta italiana stava anch’esso abbandonando il deserto. Shimada commentò con tono rassicurante.

«Mia signora, pur menomata, la mia flotta è ancora in grado di tener testa a quelle barchette da bel tempo.»

Lucrezia rispose: «Non ne dubito, mio prode ammiraglio. E neppure gli italiani. Non oseranno attaccarci.»

Shimada si aggrottò, dubbioso.

«Italiani?»

«Ma certo, la regina ci ha raccontato una menzogna grande come questa nave. Doria e Veniero sono certamente ancora vivi e si stanno mangiando il fegato per non essere riusciti a sconfiggerci.»

CONTINUA…

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di Paolo Ninzatti

Racconto breve ambientato nell’universo del romanzo “Le ali del serpente” dello stesso autore.

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