La balestra genovese

La balestra genovese, racconto di Paolo Ninzatti

Aprile. Anno del Signore 1529

Disgelo. La primavera era arrivata anche nelle Alpi Orobie. Pace e tranquillità, niente di meglio dopo tanti voli e viaggi per mezzo mondo, dal gelido Nord all’India misteriosa.

Artemide e Fioravante si godevano il riposo dei guerrieri nell’idillio senza tempo di quei boschi montani, tra abeti non dissimili da quelli delle foreste danesi e norvegesi, con la differenza che questi odoravano di casa.

Da qualche mese la tensione si era placata. C’era voluto tempo per sedare l’istinto che faceva voltare a ogni suono, destando la prontezza a reagire a qualsiasi nemico. Quando la mamma entrava nella capanna, sia lei che Fioravante scattavano. Artemide saltava alla balestra sempre a portata di mano, e il padre sfoderava la pistola sempre alla fondina sotto l’ascella.

La povera mamma si trovava ogni volta il marito e la figlia in assetto di guerra. Fortunatamente il dardo non era mai incoccato e la pistola scarica. I due non volevano correre rischi né essere di pericolo per alcuno.

Solo adesso la balestra genovese, le migliori del mondo, era carica e la pistola del padre col rotatore pieno di proiettili.

Gli avversari sarebbero stati capre di montagna e uccelli.

L’orecchio di Fioravante, cacciatore più esperto e anziano e un tempo soldato, sentì per primo. Ma lei fu lesta a intuire la preoccupazione nel volto paterno.

«Gli stambecchi non parlano» commentò la donna.

«E non portano armi da fuoco. Non senti l’odore di polvere da sparo?» ribattè l’uomo

«Ascolta, saranno una trentina. In concorrenza con una banda di cacciatori stasera torniamo senza prede. La mamma cucinerà la solita brodaglia.»

«Potrebbero essere briganti» commentò Fioravante. «Stiamo in guardia.»

Avanzarono guardinghi in direzione delle voci, stringendo le armi.

«Non parlano italiano» bisbigliò Artemide.

«Tedesco e anche francese» sentenziò il padre. Lei sapeva che lui aveva imparato ambo gli idiomi quando era soldato.

«Alleati, per fortuna.»

«Dipende. La pace ha reso molti mercenari senza lavoro e ho sentito dire che molti disertori si sono dati al saccheggio.»

«Se è così allora i valligiani sono in pericolo.»

«Vediamo con chi abbiamo a che fare.»

Non potè dire altro. Sentì qualcosa di duro premere la schiena e con la coda dell’occhio vide la lunga canna di un archibuglio puntata alla nuca del padre.

Una delle tre ombre dietro loro camminò fino a mostrarsi nella forma di un uomo la cui uniforme da militare era logora.

Il volto era scarno ma fiero e l’aria aggressiva. La bocca, a cui mancavano due denti, parlò

«Tu femmina, tu cettare kvesta palestra o tu e fekkio kaput!»

Alzarono le mani. Il mercenario le strappò l’artefatto genovese. Diede un’occhiata a Fioravante, senza alcuna arma visibile e li spinse in malo modo.

Vennero condotti in una radura. Artemide notò una banda mista. Osservando meglio le uniformi notò svizzeri, lanzichenecchi e gendarmi francesi.

 «Me risparmiare fekkio se tu coraccio ti sfitare a tuello. Lui patrino und testimone.»

La bocca da fuoco dell’archibugio era puntata alla nuca di Fioravante. La sua giaculatoria di strane preghiere era certamente finta paura per ingannare gli avversari, visto che al momento non avrebbe fatto a tempo ad estrarre la pistola nascosta nella fondina sotto l’ascella. Era necessario che il disertore abbassasse la guardia. Alla prima mossa falsa quello avrebbe fatto fuoco con quell’arma obsoleta, ma purtroppo, sempre efficace.

Il condottiero di quegli sbandati  lanciò la balestra ad Artemide la quale l’afferrò fingendo maldestrezza. Poi ordinò al compagno che brandiva l’archibugio che fino ad allora aveva tenuto in scacco Artemide, di consegnarglielo.

«Kvando tonna kon palestra incontrare vomo kon arkibuzio, tonna kon palestra tonna morta.»

Rise e aggiunse: «Me sfizzero, ma non Wilhelm Tell. Palestra arma fekkia, puona solo kontro mele in testa pampini. Maletetta pace. Noi senza arbeit. Niente arbeit niente kompenso. Merzenari senza merze, noi sakkezzare fillacci a falle, ma prima foi morire. Ma me non ammazzare tonna tisarmata. Ich soldat.»

Si voltò e si mise a contare i passi.

«Eins, zwei, drei…»

Artemide strinse la balestra mentre con la coda dell’occhio osservava Fioravante e il mercenario che teneva il dito sul grilletto dell’archibugio. Lo stoppino con la fiammella sembrava un cero in chiesa.

Se lei avesse esitato a duellare quella candela votiva avrebbe acceso le polveri aprendo un buco nella testa di suo padre. Si fece coraggio.

«Zwanzig» dichiarò lo svizzero fermandosi a venti passi.

Si voltò stringendo l’archibugio. La fiamma della miccia brillava. A quella distanza sarebbe stata colpita. Il tipo doveva essere un franco tiratore.

«Si tu kolpire me, Rudolf sparare, e fekkio kaput» urlò, poco convinto che la cosa fosse possibile.

 I duellanti si squadrarono, puntando ciascuno la propria arma.

Fioravante temeva per sua figlia. La pistola sembrava calda a contatto dell’ascella. Un attimo, si disse, solo un attimo sarebbe bastato. Ma il lanzichenecco insisteva a tenerlo di mira, palesemente disinteressato al duello, ormai convinto sulla vittoria del condottiero e impaziente di darsi alla scorribanda ai danni dei valligiani, dopo aver finito anche lui.

Uno sparo, un clangore, un sibilo. Un botto.

Ambo i duellanti in piedi, l’archibugio fumante, la balestra scarica.

«Sono invulnerabile» dichiarò sua figlia all’esterrefatto condottiero.

Il lanzichenecco per istinto voltò il proprio archibugio in direzione di Artemide, urlando qualcosa in tedesco che Fioravante capì come ”Questo è da vedere, bifolca!”

Mise la mano sotto l’ascella e sfoderò la pistola, mentre il tedesco prendeva la mira. Non appena sua figlia si accorse della situazione, fece una capriola e il colpo del lanzichenecco fece cilecca.

Il caricatore rotante aveva sei colpi. Fioravante in un lampo valutò chi colpire. L’arma del tedesco era scarica, ma quelle di tre dei mercenari, no.

«Ein messer!» allarmò uno del terzetto, convinto che Fioravante avesse sfoderato un coltello. Nessuno di loro aveva forse mai visto una pistola in vita loro. E i pochi esemplari fabbricati in Toscana sparavano solo un colpo alla volta.

Fioravante fece fuoco a ripetizione e i tre caddero.

Il condottiero svizzero guardò Fioravante palesando di sapere cosa fosse una pistola ma convinto  non potesse sparare più di tre colpi, che erano già tanto.

La sua banda era esterrefatta, ma lui urlò nella sua lingua che quella era soltanto un’arma moderna, ma ormai scarica.

Sfoderata la spada si gettò contro Artemide. L’istinto paterno gli fece sparare ancora un colpo. Il condottiero cadde. Due colpi ancora, ma lo sapeva solo lui. I disertori erano ora senza un capo.

Puntò la pistola e in un tedesco claudicante urlò: «A valle, ogni famiglia ha una pistola come questa. Venite pure a saccheggiare le nostre case  e vi riempiremo di piombo. E intanto, avanti il prossimo. Ho altri cento colpi per voi.»

Voltrono la schiena, mogi mogi, e in fila tornarono sui loro passi in direzione della Valtellina da dove erano calati.

Fioravante osservò le schegge di legno e metallo sull’erba.

Colpire la pallottola dell’archibugio in volo richiedeva una mira eccezionale. Era orgoglioso della sua bambina.

Le campane a valle suonarono a festa, ricordando che era Pasqua, tempo di pace.

di Paolo Ninzatti

Racconto breve ambientato nell’universo del romanzo “Le ali del serpente” dello stesso autore.

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