La guerra di Troia: il conflitto – 7di9

9.

La ritirata dei Greci

I primi versi dell’Iliade in greco

Dopo la breve tregua, la battaglia tra i due eserciti ricominciò con maggior vigore; dall’alto del Monte Olimpo, Zeus impose agli dei di non intervenire nella guerra e decretò che i Troiani avrebbero avuto i favori della battaglia, sino a quando Achille non avesse ottenuto la giusta riparazione per l’umiliazione subita.

Ettore, quel giorno, fece strage tra gli Achei; tutti i Greci batterono in ritirata incalzati dai Teucri e dai fulmini scagliati da Zeus; il vecchio Nestore, rimasto indietro, stava per essere ucciso ma venne salvato da un tempestivo intervento di Diomede, il solo a non fuggire davanti ai Troiani.

I Greci furono costretti a trovare rifugio all’interno della mura in legno, costruite a difesa delle navi. Al calar della notte, per non perdere il terreno conquistato, i Teucri si accamparono davanti agli Achei.

Agamennone, sconsolato per la cocente sconfitta, provò a riconciliarsi con Achille, offrendo di restituire Briseide assieme ad altri doni; ma il figlio di Peleo, dopo aver ascoltato l’ambasceria, rifiutò sdegnato e annunciò la sua imminente partenza per Ftia.

Nottetempo, Diomede ed Odisseo uscirono per spiare il campo nemico e raccogliere informazioni utili; durante la loro sortita, i due incontrarono Dolone, un araldo dei Troiani che si muoveva tra i caduti per il medesimo scopo. Pur di avere salva la vita, egli tradì i compagni rivelando ai due Achei notizie preziose sull’accampamento troiano, ma Diomede lo uccise per punirlo della delazione.

I due greci penetrarono così nel campo dei Traci, facendo strage dei nemici addormentati (tra le vittime anche il loro re, il giovane Reso); Odisseo e Diomede riuscirono infine a raggiungere le loro tende, dopo aver trafugato un carro ed una bellissima pariglia di cavalli traci[1].

Uccisione di Dolone

Il giorno dopo, i due eserciti attaccarono nuovamente battaglia; nonostante il valore degli Achei, essa si trasformò ben presto in un vero e proprio assedio dei Troiani alle mura dell’accampamento ellenico.

Ettore fece strage di nemici, mentre numerosi duci tra gli Achei (tra cui Diomede, Odisseo, Agamennone e persino il medico Macaone) dovettero abbandonare il campo di battaglia perché gravemente feriti.

I Greci, in particolare i due Aiaci, cercarono in tutti i modi di resistere agli attacchi dei nemici, alla testa dei quali vi erano i Lici guidati dal re Sarpedonte[2]; preso un macigno, Ettore lo scagliò contro la porta delle mura dei Greci consentendo ai Troiani di sciamare nel campo avversario.

Dall’Olimpo, la dea Hera architettò un inganno contro Zeus convincendo Ypnos (il Sonno) ad addormentare il sovrano di tutti gli dei; di ciò approfittò Poseidon, il dio del mare, per dare man forte agli Achei; Aiace Telamonio riuscì così a colpire Ettore, facendolo cadere a terra privo di sensi.

Quando Zeus si accorse dell’inganno, egli intimò a tutti gli dei di abbandonare la battaglia, minacciando terribili punizioni in caso di disobbedienza.

I Troiani si rianimarono e, spinti da Ettore (riavutosi dalla ferita), travolsero i Greci arrivando fino alle loro navi, giungendo persino ad incendiarne una (quella che fu di Protesilao); il solo Aiace Telamonio, armato di una trave, tentò di ergersi a baluardo degli Achei e di respingere i nemici.

A quel punto, Patroclo entrò nella tenda di Achille, scongiurandolo di tornare a combattere per respingere i Troiani; ottenuto un netto rifiuto, egli chiese di poter almeno vestire le armi del figlio di Peleo e di guidare così i Mirmidoni alla riscossa.

Achille acconsentì, ma chiese all’amico di limitarsi ad incutere timore nel nemico e di ricacciare i Troiani dall’accampamento, senza correre rischi eccessivi.

Vestite le splendide armi di Achille, Patroclo si mise alla guida dei Mirmidoni e guidò la riscossa dei Greci; i Teucri, ritenendo che al comando delle truppe scese in battaglia ci fosse il figlio di Peleo, vennero presi da un momento di sconcerto; Patroclo ne approfittò per ricacciare indietro i Troiani, che furono così allontanati definitivamente dall’accampamento acheo.

Contravvenendo alle raccomandazioni di Achille, tuttavia, Patroclo incalzò l’esercito nemico sino alle mura, compiendo molte gesta eroiche e uccidendo, tra gli altri, il re dei Lici Sarpedonte.

Le Moire stavano però già tessendo il destino del migliore amico di Achille: il dio Apollo colpì a tradimento Patroclo, provocandone il momentaneo stordimento, consentendo in tal modo ad Ettore di dargli il colpo di grazia; poco prima di morire, tuttavia, l’agonizzante Patroclo profetizzò ad Ettore la morte imminente per mano di Achille.

Menelao sorregge Patroclo ucciso

Si accese quindi un’aspra mischia per impadronirsi del corpo di Patroclo e – soprattutto – delle armi di Achille; Menelao si mise a difesa delle spoglie del compagno, aiutato dai due Aiaci e da Idomeneo.

Nel mentre, Achille venne a sapere della morte dell’amico da Antiloco, figlio di Nestore. Sconvolto dal dolore, egli scoppiò in un pianto disperato, che venne udito dalla madre Teti.

La ninfa subito accorse per cercare di rincuorare il figlio: Achille palesò così alla madre la sua intenzione di tornare a combattere e vendicare la morte dell’amico fraterno. Teti capì in questo modo che si stava avverando la profezia che aveva tentato in tutti i modi di scongiurare.

Achille, a questo punto, uscì dalla tenda e si presentò al margine del fossato che cingeva le mura erette dagli Achei; per tre volte, egli fece riecheggiare il suo grido di battaglia: i Troiani, atterriti, volsero in fuga.

Nel tumulto che ne seguì, Menelao riuscì a trasportare il corpo di Patroclo all’interno del campo greco, mentre le armi furono appannaggio del prode Ettore.

Nel frattempo, Teti si recò da Efesto, il fabbro divino, chiedendogli di forgiare nuove armi per il figlio; il dio si mise subito al lavoro e in breve tempo riuscì a plasmare corazza, elmo, spada e giavellotto, nonché uno splendido scudo d’oro intarsiato.

Achille, dopo aver pianto amaramente il cadavere dell’amico perduto, si affrettò a riconciliarsi con il duce di tutti gli Achei; ispirato dagli dei, Agamennone chiese pubblicamente il perdono del figlio di Peleo e gli offrì dei doni come riparazione; i Greci si prepararono quindi ad una nuova battaglia.

[1]    Questo episodio dell’Iliade (raccontato nel Libro X e secondo alcuni studiosi aggiunto in un momento successivo) ha ispirato ad un poeta greco – erroneamente identificato, all’inizio, con Euripide – la tragedia “Reso”.
[2]    Il re dei Lici si era già distinto più volte in battaglia, arrivando ad uccidere il re di Rodi, Tlepolemo.

10.

Il duello tra Ettore ed Achille

Terribile nelle sue nuove armi, Achille si preparò a salire sul suo carro da guerra, guidato dai due superbi cavalli donati da Poseidon alle nozze di Teti e Peleo, Bàlio e Xanto: ispirato dagli dei, quest’ultimo acquisì per pochi istanti il dono della parola, rivelando al suo padrone la sua fine imminente.

Teti consegna le armi di Efesto ad Achille

I Troiani e gli Achei si prepararono così allo scontro; Zeus, avendo adempiuto alla sua promessa nei confronti di Teti, acconsentì che gli dei intervenissero in battaglia: così Apollo, Artemide, Ares ed Afrodite scesero dall’Olimpo per schierarsi a fianco dei Troiani, mentre Hermes, Atena, Poseidon ed Hera stavano dalla parte dei Greci.

Achille si mise subito alla testa dell’esercito acheo e cominciò a mietere vittime; il figlio di Peleo, dopo aver ucciso molti rampolli della nobiltà troiana, si scagliò contro Enea, ma a salvarlo intervenne Poseidon: pur essendo ostile ai Teucri, infatti, il dio del mare sapeva che il figlio di Anchise era destinato dal Fato a far rinascere la stirpe di Priamo.

Achille, nel frattempo, continuava a seminare terrore tra i nemici, gettando sprezzante i cadaveri nel fiume Scamandro[1]; indignato per tanta impudenza, il dio del fiume intimò al figlio di Peleo di continuare la strage altrove, poiché le sue acque erano già intrise di sangue;

Achille non diede ascolto alla divinità fluviale, che gli scatenò contro la sua potenza; Achille stava per rischiare una fine ingloriosa ma venne in suo aiuto il dio Efesto, che placò la furia dello Scamandro con una tempesta di fuoco.

Achille proseguì così la sua strage di nemici, ma venne ingannato dal dio Apollo che, prese le sembianze di un guerriero troiano in fuga, si fece inseguire lontano dalle mura consentendo ai Teucri di riparare all’interno della città. Il solo Ettore, ormai, si ergeva come baluardo dell’esercito troiano davanti alle Porte Scee.

Quando scoprì l’inganno del dio, Achille scorse la figura del figlio di Priamo e, colto da una rabbia furiosa, puntò deciso verso di lui: preso dal panico, Ettore si diede alla fuga e per tre volte fece il giro della mura incalzato dal figlio di Peleo sino a quando Atena, sotto le mentite spoglie di Deifobo (fratello dello stesso Ettore), non persuase l’eroe troiano ad affrontare il nemico.

Ettore si preparò al duello proponendo ad Achille un giuramento; il vincitore avrebbe reso in ogni caso alla famiglia il cadavere dello sconfitto: il figlio di Peleo rifiutò.

Achille scagliò quindi l’asta contro Ettore, che schivò il colpo; il figlio di Priamo allora prese il suo giavellotto e provò a ferire l’avversario, ma l’asta centrò in pieno lo scudo forgiato da Efesto.

Ettore, a quel punto, cercò sostegno nel fratello Deifobo ma troppo tardi comprese che l’immagine che gli si era parata davanti un istante prima era solo un inganno degli dei; l’eroe troiano capì che per lui non vi era più speranza ed esclamò: “So che è giunta la fine, ma non mi ritirerò! Lotterò fino all’ultimo perché io possa morire gloriosamente così che i miei posteri mi possano stimare”.

I due guerrieri estrassero così le spade acuminate; Achille partì per primo all’attacco, con il cuore carico di collera; la spada del figlio di Peleo risplendeva nella sua mano destra.

Le armi bronzee ricoprivano tutto il corpo di Ettore, ma vi era una parte scoperta, nella fessura tra il collo e la spalla: Achille lo colpì proprio nell’unico punto debole ed Ettore si accasciò a terra. Il figlio di Peleo esclamò furente: “Mentre spogliavi Patroclo delle sue armi credevi forse di sfuggirmi. Ora cani e uccelli ti sbraneranno”.

Il duello tra Ettore e Achille

Senza più forze, Ettore implorò il nemico: “Ti prego per la tua vita, per le ginocchia, per i tuoi genitori, non lasciare che venga sbranato dai cani degli Achei, ma accetta oro e bronzo senza fine, i doni che ti verranno dati da mio padre e dalla mia nobile madre: rendi il mio corpo alla mia patria, perché possa ricevere gli onori della sepoltura”.

Al netto rifiuto di Achille, il figlio di Priamo poco prima di spirare sussurrò: “Bada che la mia morte non ti porti l’odio degli dei quel giorno che Paride, guidato da Apollo, ti ucciderà sopra le porte Scee”[2].

Il figlio di Peleo fece scempio del cadavere di Ettore: dopo avergli forato i tendini dietro ai due piedi dalla caviglia al tallone, ci passò due cinghie e lo legò al cocchio; balzato sul carro, lo trascinò nella polvere senza alcuna pietà.

Dall’alto delle mura, i genitori Priamo ed Ecuba scoppiarono in lacrime disperati, mentre la moglie Andromaca svenne per il dolore.

Dopo i solenni funerali di Patroclo, Achille organizzò dei giochi funebri in onore dell’amico; gli eroi Greci si sfidarono nella lotta, nella corsa, nel lancio del giavellotto, nel pancrazio[3] e nella corsa con i carri.

Nel frattempo tutti i numi dell’Olimpo, mossi a compassione per la morte di Ettore, decretarono che il suo corpo dovesse essere restituito ai familiari.

Ispirato dagli dei, il re Priamo si mise in cammino verso l’accampamento dei Greci, sotto la protezione del dio Hermes. Non appena giunto nella a tenda di Achille, il re si prostrò ai suoi piedi, implorandolo di rendergli le spoglie del figlio.

Impietosito dalle lacrime del vecchio sovrano, il figlio di Peleo acconsentì alla restituzione del corpo di Ettore e a concedere un periodo di tregua di dodici giorni per rendere le onoranze funebri all’eroe troiano.

Con i funerali di Ettore e i pianti di Andromaca, Ecuba ed Elena si chiude l’Iliade di Omero.

Omero

[1]    Lo Scamandro (o Xanto) era – assieme al Simoenta – uno dei due fiumi che scorrevano presso la pianura di Troia.
[2]    Omero non lo dice espressamente, ma nella mitologia i morituri acquisivano, sia pure per pochi istanti, il dono della profezia.
[3]    Il pancrazio era una antica forma di pugilato.

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di Daniele Bello

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