La guerra di Troia: il conflitto – 8di9

11.

La morte di Achille

 

Anche dopo la morte del suo condottiero più valoroso, Troia resisteva ancora e sempre agli assedianti.

Si racconta che, in quel periodo, giunse in aiuto dei Teucri la regina delle Amazzoni, la valorosa Pentesilea, figlia di Ares.

Le Amazzoni erano una famosa stirpe guerriera, il cui temibile esercito era composto di sole donne; la bella regina seminò morte e distruzione tra le fila dei Greci, arrivando ad uccidere anche Podarce di Filache, il medico Macaone e, secondo alcune fonti, anche il re di Atene Menesteo.

Ad affrontare la terribile regina delle Amazzoni fu, ancora una volta, il valoroso figlio di Peleo che, al termine di un epico scontro, la uccise e la spogliò delle sue armi.

Achille e Pentesilea

Fu solo quando Achille tolse l’elmo al nemico ucciso che egli realizzò che il suo avversario era una donna e, per giunta, dalla bellezza incomparabile.

Il figlio di Peleo si innamorò perdutamente della regina delle Amazzoni e, commosso, pianse calde lacrime sulla salma dell’avversario ucciso.

Il vile e subdolo Tersite (Parte II, capitolo 7), giunto nei pressi, derise Achille per quelle manifestazioni di tenerezza che a lui apparivano sciocche ed inutili; per sfregio, egli cavò gli occhi di Pentesilea.

Il vilipendio del cadavere della valorosa guerriera costò la vita al meschino Tersite, che venne ucciso da un micidiale pugno di Achille, irritato da una tale bassezza d’animo.

Anche Memnone, re dell’Etiopia e nipote di Priamo (era infatti figlio di Titone e di Eos, la dea dell’aurora “dalle dita rosee”, come dice Omero) venne col suo esercito ad aiutare lo zio. Egli giunse nella Troade portando con sé un esercito formato da etiopi e indiani e indossando una corazza forgiata da Efesto, proprio come Achille.

Nella prima battaglia che seguì al suo arrivo, Memnone uccise Antiloco, figlio di Nestore, che si fece colpire per salvare il padre.

Ad affrontare il re etiope fu ancora una volta il prode figlio di Peleo, che sfidò il nuovo alleato dei Teucri; come aveva già fatto al tempo del duello tra Ettore ed Achille, Zeus posò sui piatti della sua bilancia d’oro il destino dei due eroi; il Fato si pronunciò a favore dell’eroe acheo, che uccise l’avversario ed inseguì i Troiani sino alle mura della città.

Gli dei, a questo punto, disgustati dagli orribili massacri compiuti dal figlio di Peleo, decisero che fosse giunta l’ultima ora anche per Achille. Come Ettore aveva previsto in punto di morte, infatti, egli venne ucciso da una freccia scagliata dall’imbelle Paride e guidata dal dio Apollo.

Dopo la morte di Achille, si scatenò una furiosa battaglia per recuperare il corpo e le armi dell’eroe, che terminò solo con l’intervento di Zeus in persona, il padre di tutti gli dei. Solo a questo punto Aiace Telamonio e Odisseo riuscirono a trasportare via la salma e le sue favolose armi.

La madre Teti stabilì a questo punto che l’armatura di Achille venisse destinata al guerriero più valoroso tra i Greci: il grande Aiace si fece avanti, ritenendo – forse non a torto – di essere il più forte degli Elleni, dopo Achille.

Lo scaltro Odisseo, tuttavia, grazie alla sua parlantina riuscì ad irretire tutti gli altri duci achei e a farsi assegnare le armi.

Umiliato e furente, Aiace Telamonio impazzì per il dolore: sguainata la spada, egli cercò di scagliarsi contro i suoi compagni, che gli avevano negato le armi forgiate da Efesto. La dea Atena, tuttavia, gli offuscò totalmente il senno, ragion per cui il figlio di Telamone sfogò la sua rabbia contro un gregge di pecore: nella sua furia, egli fece a pezzi due arieti ritenendo che fossero i due Atridi, Agamennone e Menelao.

All’alba, l’eroe greco rinsavì ma, accortosi di quanto accaduto, ritenendo di essere stato motivo di scherno per i Greci durante la sua follia, si tolse la vita con la spada che gli aveva donato Ettore.

Aiace Telamonio si prepara al suicidio

Il fratello Teucro chiese allora di poter dare gli onori della sepoltura al corpo di Aiace il Grande, ma Agamennone si oppose fermamente poiché il figlio di Telamone, poco prima di morire, si era comportato come un nemico degli Achei in quanto aveva rivolto la spada contro gli armenti nella convinzione di uccidere i guerrieri greci.

Alla fine, fu Odisseo a risolvere la contesa, imponendo agli Elleni di concedere a Teucro di seppellire il fratello con i rituali funebri prescritti[1].

Secondo una tradizione, ripresa dal Foscolo, il figlio di Laerte non poté comunque gloriarsi a lungo delle armi di Achille; alla fine della guerra, infatti, una tempesta suscitata dagli dei dell’oltretomba le strappò alla nave di Odisseo portandole sulla tomba dell’eroe suicida:

 

    Né senno astuto, né favor di regi

all’Itaco le spoglie ardue serbava,

ché alla poppa raminga le ritolse

l’onda incitata dagli inferni Dei[2].

 

Quando, nel corso delle sue peripezie per ritornare in patria, Odisseo giunse nel regno dei morti[3], egli incontrò l’ombra del figlio di Telamone ancora corrucciato e provò a rivolgergli la parola:

“Aiace, neppure da morto dovevi scordare la collera contro di me per quelle armi maledette? A rovina degli Argivi le posero là gli dei; peristi tu, così forte baluardo per loro. E ci rattristammo continuamente, noi Achei, per la tua scomparsa, come per la sorte del Pelide Achille. Vieni avanti, sovrano, ascolta le mie ragioni: frena il tuo impulso e l’animo superbo”.

Ma l’ombra di Aiace non rispose e si allontanò tra le altre anime giù nell’Erebo.

Aiace, Persefone e Sisifo dell’Ade

12.

Le profezie di Eleno

 

Nel decimo anno di guerra Calcante rivelò che l’unica persona in grado di profetizzare come espugnare Troia era Eleno, figlio di Priamo e dotato del dono della preveggenza.

Odisseo tese quindi un’imboscata all’indovino e lo catturò, costringendolo a rivelare tutto quello che il figlio di Priamo conosceva sulle sorti della sua città.

Secondo la profezia, quattro erano le condizioni che dovevano avverarsi perché Troia crollasse: innanzi tutto, era necessario portare in guerra Neottolemo, il figlio di Achille e di Deidamia; in secondo luogo, era indispensabile riportare nell’esercito acheo l’arco e le frecce di Eracle (conservate da Filottete, abbandonato nell’isola di Lemno); i Greci, inoltre, per vincere la guerra avrebbero dovuto ritrovare le ossa di Pelope e trafugare dal tempio troiano di Atena il Palladio, una statua dedicata alla dea.

Filottete ferito a Lemno

Odisseo venne quindi condotto a Sciro, presso il re Licomede, per persuadere il figlio di Achille a unirsi alla spedizione degli Achei; Neottolemo seguì senza indugio il principe di Itaca e, nonostante la giovane età, divenne ben presto uno dei condottieri più audaci di tutto l’esercito ellenico e una delle voci più autorevoli durante le assemblee dei duci achei; egli uccise, tra gli altri, Euripilo, figlio di Telefo re della Misia (v. capitolo 2), che era giunto a sostegno dei Troiani.

Odisseo e Neottolemo si recarono quindi nell’isola di Lemno a recuperare Filottete[4]; per ovvi motivi, l’arciere della Tessaglia, dopo dieci anni di esilio in un’isola deserta, non aveva alcuna intenzione di unirsi nuovamente alla spedizione degli Achei.

Al contrario, egli scagliò tutta la sua rabbia nei confronti di Odisseo, che riteneva (non a torto) il principale responsabile del suo abbandono: Filottete stava per scoccare un freccia in direzione del suo mortale nemico, quando un nuovo attacco epilettico causatogli dalla ferita lo fece stramazzare al suolo, svenuto.

I Greci volevano impossessarsi delle armi di Eracle mentre il figlio di Peante giaceva privo di sensi, ma Neottolemo oppose un orgoglioso rifiuto; colpito dalla lealtà del figlio di Achille e persuaso che il suo destino e le sue sventure facessero parte di un disegno divino, Filottete si rassegnò a seguire gli Achei a Troia.

Tornato sul campo di battaglia, Filottete riprese il comando delle sue truppe (Medonte, il fratellastro di Aiace Oileo che era stato nominato duce in sua assenza, era stato ucciso da Enea); grazie alle cure dei medici, la sua ferita guarì del tutto consentendogli di combattere di nuovo: con le sue frecce invincibili, egli giunse ad uccidere Paride, vendicando in questo modo la morte di Achille.

Narrano le leggende, a questo punto, che Elena decise di riprendere marito e che la sua scelta ricadde su Deifobo, un altro dei figli di Priamo[5].

In seguito, gli Achei riuscirono a recuperare l’osso della spalla di Pelope nella città di Pisa, in Elide, e a condurlo presso l’accampamento greco.

Travestito da mendicante, Odisseo penetrò quindi all’interno della città di Troia per scoprire dove fosse nascosta la statua del Palladio; in quella occasione, egli venne riconosciuto da Elena, che non lo denunciò ai Teucri:

forse venne ingannata dalle lacrime ipocrite di Odisseo, forse ella presagì la imminente caduta della città e preferì crearsi dei nuovi alleati. Fatto sta che, grazie alle informazioni apprese dal sovrano di Itaca, quest’ultimo e Diomede riuscirono in seguito a trafugare il Palladio.

Neppure adempiendo alla profezia di Eleno, tuttavia, i Greci riuscirono ad espugnare la rocca di Ilio.

 

[1]    Il suicidio e la sepoltura di Aiace Telamonio ispirarono a Sofocle la tragedia “Aiace”.
[2]    FOSCOLO, I Sepolcri, vv. 222-225.
[3]    OMERO, Odissea, Libro XI, vv. 692-703.
[4]    Il ritorno dell’eroe è argomento di un’altra tragedia di Sofocle, il “Filottete”.
[5]    Secondo un’altra versione del mito, Eleno – furioso per non essere stato prescelto come marito di Elena – si ritirò nelle montagne circostanti e lì venne catturato dai Greci, rivelando come conquistare Troia. La necessità delle armi di Eracle, in questa variante, venne profetizzata da Calcante e a recarsi a Lemno furono Odisseo e Diomede (Neottolemo sarebbe subentrato tempo dopo).

← Capitolo precedente                                           Capitolo successivo→

Torna all’inizio

di Daniele Bello

Lascia un commento