La lunga marcia senza stivali

La lunga marcia

Marcél ansimava forte, il maglione logoro che indossava si gonfiava e sgonfiava scompostamente al ritmo dei suoi respiri irregolari. I capelli gli si erano appiccicati alla fronte per la sporcizia e il sudore; gli occhi, cerchiati di occhiaie, erano puntanti verso l’intruso e vibravano di odio, febbre e paura.

La mano destra, fasciata con un vecchio calzino di cotone indurito dal sangue, tremava nello sforzo di puntare la kratzer in mezzo al muso del soldato. Marcél deglutì cercando di controllarsi e non mettersi a urlare.

Il soldato aveva sollevato le zampe in segno di resa. Il suo elmetto era mezzo slacciato, e un orecchio lungo, peloso e nero, sbucava malamente fuori. Era immobile, con la mimetica sbottonata, ancora mezzo chino su Loraine. Lei piangeva senza far rumore, come aveva imparato in quei giorni maledetti.

Dalle strade sottostanti giungevano i passi delle squadre di ailuri in caccia: erano silenziosi e veloci anche con le macerie che ingombravano le strade.

Marcél fece un cenno al soldato con la canna della kratzer, ordinandogli di mettersi in piedi. L’arma era pesante: non era fatta per un essere umano. Il soldato si tirò in piedi con le zampe dietro la nuca, la sua lunga coda nera sfiorava il pavimento; la muoveva in onde sinuose sollevando sbuffi di polvere grigia.

 

“Stai bene?” chiese Marcél gettando uno sguardo alla giovane ancora a terra. La ragazza aveva i capelli di un biondo rossiccio, legati dietro la nuca e nascosti da un basco calato sulla fronte. Aveva un volto tondo e ampio, ancora roseo nonostante tutto, ma i suoi occhi azzurri erano pieni di lacrime; la bocca, stretta ed esangue, tremava.

L’ailuro sorrise guardando la ragazza alzarsi, in quel loro modo ambiguo tutto zanne, e Marcél grugnì di rabbia. L’idea di quelle zampe pelose che violavano una creatura così silenziosa e dolce lo infiammò.

“Non la guardare animale! Non te la lascerò toccare brutto porco!” sibilò, e lo colpì alla guancia con la kratzer per poi puntargliela in mezzo agli occhi gialli.

L’ailuro iniziò, con estrema lentezza, ad aprire le braccia.

“E’ meglio che stai fermo!” intimò Marcél, e una goccia di sudore freddo gli scivolò sulla tempia: gli ailuri erano dappertutto, e uno sparo avrebbe di certo attirato una pattuglia, come potevano salvarsi? Serrò la mascella e strinse ancor di più l’arma, era furioso, ma non poteva sparare.

Il soldato fece un movimento delicato della zampa sollevata: un gesto universale per dire ‘aspetta’. L’indice di Marcél tremò sul grilletto, Loraine tratteneva il fiato.

L’ailuro aprì una tasca e ne tirò fuori una barretta azzurra, la portò alla bocca, facendo il gesto di morderla, e la avvicinò a Marcél. Questi gliela strappò dalle zampe e la lanciò a Loraine. Lei la scartò in fretta e ne addentò una parte, strizzando gli occhi masticando a fatica: era una barretta di carne dura per i denti di un essere umano, ma la fame era troppa. Ne porse la metà restante a Marcél che la rifiutò con un gesto deciso della testa.

 

“Grazie.” Bisbigliò la ragazza, l’ailuro annuì impercettibilmente e socchiuse gli occhi gialli.

“Ringrazialo pure!” sbottò l’uomo e si passò la sinistra tra i capelli. “Che facciamo adesso? Non posso sparargli a questo porco, anche se vorrei tanto.”

“Lasciamolo andare…” sussurrò Loraine.

“Cosa?!” Marcél alzò la voce poi, resosi conto dell’errore, ammutolì. La stanza piena di macerie e mobili spezzati era silenziosa, dall’esterno non provenivano più rumori di passi o le voci vibranti degli ailuri. Cosa voleva dire? Li avevano sentiti e si erano zittiti? Avevano proseguito? Potevano affacciarsi e controllare? Marcél non voleva morire, non voleva che Loraine morisse. Non voleva più veder morire nessuno in realtà. Attesero per lunghissimi istanti con il cuore in gola, e il silenzio che riempiva loro i timpani.

“Lasciamolo andare,” continuò lei. “Non ci ha fatto niente.” E gli appoggiò una mano sul braccio, una mano piccola e pallida, ferita.

“Non ti ha fatto niente?!” soffiò lui. “Voleva violentarti! Te ne rendi conto?”

La ragazza abbassò lo sguardo, fissò imbarazzata vari punti della stanza, e poi continuò a voce ancora più incerta. “Io non credo che volesse farmi del male…”

“Sei impazzita?!” per poco la pistola non perse la sua mira. “Era sopra di te con le braghe calate!”

“Guarda.” Fece Loraine indicando con il mento il soldato.

 

All’altezza dei fianchi, dove passava la ruvida cintura dei pantaloni, vi era una macchia di pelle lucida senza peli.

“E’ ferito.”

“E allora?”

La ragazza sospirò. “Marcél,” disse piano. “Io non voglio uccidere nessuno.”

“Ma…” tentennò. “Non possiamo…”

“Io non voglio uccidere nessuno.” Ripeté. “Mi sono svegliata di soprassalto e l’ho visto sopra di me. Ho gridato perché mi sono spaventata, ma lui non mi ha fatto niente. Ha buttato l’arma a terra e è caduto  in ginocchio. Sembrava più spaventato di me.”

“Hai visto cosa fanno questi mostri alla gente come noi! Lo hai visto! Se lo lasciamo andare ci verranno a cercare, lo capisci vero?”

“Sì lo capisco.” Lei strinse forte il braccio di Marcél. “Ma io non credo che voglia farci del male.”

 

Fulmineo l’ailuro si mosse, strappò la kratzer dalla mano di Marcél e lo spinse via con una spallata. Loraine gridò, e si udì uno sparo che echeggiò nella stanza, poi il tonfo di un corpo che cade.

Quando Loraine riaprì gli occhi dovette strofinarli con il dorso della mano per togliere la polvere e riuscire a vedere. Era caduta a terra, non sapeva come, e fissava Marcél impietrita. Alle sue spalle un altro ailuro aveva cercato di entrare, ma ora giaceva riverso a terra nella polvere e nel sangue.

Marcél gridò e si avventò sul soldato che teneva la kratzer fumante nella zampa travolgendolo. Gli salì a cavalcioni sullo stomaco e lo colpì al muso con tutta la forza che aveva.

Una, due, tre volte.

“No!” gridò la ragazza. “Fermati!”

Il soldato ripeteva una frase ossessivamente, cercava in tutti i modi di togliere l’uomo da sopra ma teneva l’arma lontana da lui. Le forze di Marcél si esaurirono, i muscoli stanchi per i giorni di fame e stenti non lo reggevano più, e la scarica di rabbia che lo aveva sorretto in quegli istanti, era svanita lasciandolo esausto e con lo stomaco sconvolto.

Sentì Loraine alle sue spalle, le intimò di allontanarsi, di fuggire, ma la ragazza gli appoggiò la mano sulla spalla e disse piano: “Lasciala andare Marcél.”

“Cosa?” balbettò l’uomo.

“Lasciala andare, alzati.”

Marcél vide la zampa lasciare la presa sulla pistola e gli occhi gialli e grandi dell’ailuro riempirsi di lacrime. Si alzò come in un sogno, come se fosse ubriaco. Loraine lo aiutò sorreggendolo, e lo fece guardare.

La giacca mimetica dell’ailuro si era aperta, mostrava due file di piccoli seni tondi e, poco più in basso, un ventre peloso e rigonfio. L’ailuro si tirò a sedere, appoggiò la schiena ai resti di un mobile, si portò una zampa alla pancia respirando forte.

“Io, non capisco…” disse stupidamente Marcél e Loraine gli dedicò uno sguardo bonario.

 

La ragazza raccolse lo zaino dell’ailuro e ne tirò fuori degli abiti civili da uomo: pantaloni, casacca, cappello, sciarpa. La soldatessa si spogliò della divisa, indossò gli abiti civili e calò sulla testa il cappello per nascondere le orecchie, si avvolse nella sciarpa per nascondere il muso.

Loraine prese la barretta che aveva messo in tasca e la mise nella zampa dell’ailuro e chiuse le sue dita. La femmina fece per protestare ma lei strinse forse la zampa tra le sue mani e fece di no con la testa; lei avvicinò il muso alla sua guancia. Poi dedicò un breve sguardo a Marcél e, senza dire altro, si gettò agilmente dalla finestra correndo silenziosa sui tetti.

Loraine si voltò di scatto, si aggrappò al maglione di Marcél e lo strinse forte affondando il viso nella lana grezza e inondandolo di lacrime.

“Presto questa guerra finirà!” disse tra i singhiozzi.

di Valentino Eugeni

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