L’arma del capitano

L'arma del capitano, racconto di Paolo Ninzatti

Il capitano Angelo Santus non sapeva impugnare una spada e neppure tirare di archibugio, balestra o pistola.

Ciononostante, durante la sua gioventù, nell’Anno del Signore 1509, aveva partecipato alla storica battaglia di Agnadello che aveva dato la vittoria alla Serenissima Repubblica di Venezia la quale aveva cacciato gli invasori della Lega di Cambrai e alla fine unito l’Italia.

Nella sua modestia cacciò il pensiero vanaglorioso che gli ronzava spesso nella testa: non era stato una semplice comparsa, bensì uno dei protagonisti.

Si era buttato in picchiata col suo ornitottero contro le truppe francesi seminando lo scompiglio, lanciando i missili a vapore che avevano distrutto i cannoni di re Luigi XII e azionando gli archibugi a mitraglia che avevano seminato il panico tra i cavalieri e i fanti svizzeri mercenari del monarca d’olralpe.

Armi, sì, ma, come dire, niente che lui stesso impugnasse, ma parte integrante del velivolo, un’estensione del suo corpo. La sua audacia aveva salvato la Repubblica dalla distruzione.

Angelo non era un combattente, detestava guerre e conflitti, ma in un mondo violento si era adattato e avava compiuto il suo dovere, salendo di grado come capitano dell’aria, e poi come ammiraglio. Nell’anno del Signore 1516 era stato inviato in missione segreta in America dal Doge in persona per studiare le civiltà del Nuovo Mondo.

Una missione pacifica, all’inizio. Ma ancora una volta si era trovato a dover intervenire per salvare il grande impero Mexica dagli spagnoli in una grande battaglia, dove gli iberici del conquistador Cortes stavano per massacrare un esercito di nativi.

Ancora una volta le macchine volanti avevano seminato il panico e ancora una volta lui si era trovato protagonista del destino di un intero impero, che ora prosperava e univa molte genti. Non c’erano stati molti morti nella battaglia di Otumpan, e il suo intervento a bordo della nave volante era stato più che altro un trucco da baraccone, una beffa per i violenti e gli arroganti.

Lui, modesto valligiano delle Alpi Orobie, aveva orchestrato l’inganno che aveva messo paura sia agli invasori di Spagna che ai mexica, scambiato per un intervento divino. I primi della versione punitrice del Dio cristiano, i secondi di quella dei loro dei sanguinari che richiedevano sacrifici umani.

Gli uomini temevano le cose mai viste e grazie alle invenzioni del grande Leonardo da Vinci arrivate in America, l’Impero Mexica aveva abolito i sacrifici umani e gli spagnoli avevano abbandonato quelle terre. I trucchi talvolta vincevano guerre e battaglie e cambiavano gli animi della gente.

Per un periodo, a causa dei suoi capelli rossi, era stato scambiato per il dio del sole dagli americani. Facile quindi predicare in nome di quella divinità la versione pacifica del cristianesimo. Uno smacco all’Inquisizione Spagnola e alle superstizioni americane.

Ora che la pace era giunta in quelle regioni capitan Angelo poteva finalmente togliersi di dosso fama e gloria che a lui non interessavano e godersi la più grande passione della vita: volare e la tranquillità.

Essere sposato con una furia guerriera come l’agente Atena, che per lui era sempre Loretta, e avere come figlia quell’amazzone di nome Fulvia lo rendevano ancora più tranquillo. Anche in tempi di pace chi ha una famiglia indifesa ha il dovere di proteggerla, con le armi.

Che le donne della sua vita fossero in grado di essere loro il pericolo per eventuali aggressori gli donavano sonni tranquilli liberi dall’incombenza di dover combattere. Il coraggio di un uomo si manifestava in tanti modi.

Affrontare temporali e infilandosi tra le nuvole o atterraggi azzardati non lo annoveravano nella lista dei codardi di certo e Angelo era in pace con se stesso. Anche Leonardo da Vinci aveva aborrito guerra e violenza, nonostante ideatore di artifizi micidiali.

E ora, in piena pace, si trovava in missione. L’Inghilterra, alleata della Spagna, nemica dell’Italia, non aveva mai combattuto in campo aperto contro il suo paese, ma aveva fatto parte del fronte avversario. E ora che gli iberici avevano fatto pace con la Serenissima Repubblica, Enrico VIII aveva aperto le frontiere alle aeronavi italiane. Ma, dietro le quinte il re sguinzagliava spie per carpire il segreto del motore a vapore. Il duca de Palmer, dietro la facciata di mercante era un agente del re.

Lo spionaggio della Serenissima sapeva che un traditore italiano avrebbe dovuto consegnare i piani di costruzione del motore. Prima che costui contattasse il duca, l’agente Atena aveva inviato una lettera per l’incontro e lui si sarebbe spacciato per il traditore, e dietro il paravento di capitano di un mercantile volante avrebbe consegnato al duca dei piani di costruzione falsi.

L’aeronave sorvolava le campagne del Kent dopo aver attraversaro la Manica. Il castello del duca si stagliò tra il verde sfocato da una foschia grigia. Atterrarono nel vasto cortile.

Il capitano e il suo seguito sbarcarono. In base al trattato di pace, gli equipaggi delle aeronavi italiane non dovevano portare armi. Neppure pugnali.

Lui si sentiva a suo agio, abituato a girare disarmato, ma poteva solo immaginare il nervosismo degli altri: Atena, senza l’inseparabile spada al fianco e lo stesso sua figlia Fulvia. L’agente Musico era armato solo del liuto. Il condottiero Francesco e sua moglie Artemide, l’uno senza lo stocco e l’altra senza armi da lancio recitavano le parti di mercanti come gli altri, spie provette, attori e attrici della guerra dietro le quinte.

Angelo si prostrò davanti al duca, e gli porse la bolla di consegna della merce, una cassa che Francesco e Musico, ridotti a facchini, trasportarono nella sala piena di cortigiani e ospiti. La vera merce era la falsa bolla: dentro la busta c’erano i finti piani di costruzione del motore.

Il duca fece uscire gli ospiti e a un suo cenno, una decina di armigeri armati di alabarde li circondarono.

In un perfetto italiano, il duca esordì:  «Noi ringraziamo, ma purtroppo siamo costretti a cancellare ogni traccia del nostro incontro. A noi non serve più altro, ora che Britannia potrà finalmente costruire la sua flotta volante. Verrete impiccati domani, tutti, come traditori. Del vostro paese. Nessuno in Italia sentirà la vostra mancanza. E grazie per le spezie d’oriente».

Due valletti presero la cassa per le maniglie. Un  attimo dopo, il coperchio si aprì da solo sputando fuori una palla di tela, che rotolò sul pavimento. Un rumore metallico come di molle e il groppo si aprì come un ombrello diventando qualcosa di alato.

Gli armigeri, sorpresi, non agirono. Angelo, afferrò l’aliante e si mise a correre per la sala, saltò su un tavolo e prese quota. L’uccello artificiale passò sopra le teste degli armati, che istintivamente abbassarono la testa, come se un’aquila li stesse assalendo. Mentre Angelo teneva lontani gli sgherri del duca, Artemide, dalla cassa estrasse una  scatola quadrata con una lente di vetro. Corse verso l’esterrefatto duca e puntò, come se stesse impugnando una balestra.

«Sorrida, altezza» proferì.

Seguì una specie di clic. Il duca assunse un’espressione spaventata.

«Niente paura, duca» rassicurò Artemide «Non è un’arma, ma solo una alcamera. Adesso abbiamo immortalato la vostra brutta faccia e lo spionaggio italiano saprà chi è la spia inglese.»

Nel frattempo, gli alabardieri, ripresisi dalla sorpresa iniziale, puntando le armi, avanzavano verso il gruppo degli italiani. Angelo calò in picchiata e con maestria volò in modo che l’orlo dell’ala destra si inserisse tra le scuri delle alabarde e l’asta, riuscendo a strapparle di mano agli armigeri, una a una. Il peso delle armi fece inclinare l’aliante.

Uno svantaggio che divenne vantaggioso permettendo un passaggio per la grande porta. Mentre l’aliante arrivava al cortile, Angelo, con la coda dell’occhio, si assicurò che i suoi compagni corressero fuori dal salone. Manovrò facendo scuotere l’ala seminando le alabarde per il selciato e alla fine facendo posare l’aliante sul ponte dell’aeronave.

Accese il motore e i due rotori cominciarono a girare. Vide gli altri uscire a uno a uno, con gli armigeri alle calcagna che raccolsero le alabarde, incitati in inglese dal duca furente.

Gli attimi sprecati a riprendere le armi diedero ulteriore vantaggio ai fuggitivi, che salitono la rampa. L’ultima a imbarcarsi fu Artemide, con  l’alcamera. Angelo fece decollare l’aeronave.

Dall’alto vide la frustrazione degli armigeri che puntavano, ormai invano, le alabarde in cielo, tanto minacciose quanto, ora, inutili. L’unico volto dal ghigno trionfante era quello del duca, il cui grido di vittoria rimbombò da sotto mentre sventolava il pezzo di carta con i piani di costruzione.

«Forse un giorno ci incontreremo nei cieli, capitano, quando comanderò una nave volante sul cui pennone sventolerà la bandiera inglese. E vi assicuro che sarò armato, mentre voi avete soltanto mostrato arti degne di un saltimbanco. Arrivederci, capitano!»

«Addio duca. Cosa serve una spada, quando con un insieme di tela e legno ho disarmato i vostri alabardieri? E, a proposito, con quei piani potrete costruire un’ottima pentola a pressione, ma per volare ci vogliono quelli veri. Buon appetito, duca. Brinderemo al vostro ritratto sviluppato. Come spia avete chiuso.»

L’urlo di rabbia del duca si perse nell’aria, mentre l’aeronave volava verso le bianche scogliere di Dover, dopo una vittoria ottenuta senza l’uso di armi offensive, solo la destrezza: l’arma del capitano Angelo, maestro del volo, fedele al nome che portava.

di Paolo Ninzatti

Racconto breve ambientato nell’universo del romanzo “Le ali del serpente” dello stesso autore.

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