Mito ed epica a Roma – parte V

Parte V

La nascita della Repubblica e le virtutes dei Romani

La nascita della Repubblica a Roma non implica ancora il trapasso dall’età dei miti e delle leggende a quella più propriamente storica: i primi secoli di questo periodo storico, infatti, abbondano di aneddoti e di racconti più o meno verosimili che hanno sempre ad oggetto le imprese di uomini che avevano fatto grande la città o che erano stati un fulgido esempio delle virtutes dei Romani (non mancano, ovviamente, le storie relative a personaggi aventi un connotato decisamente più negativo).

A seguito della cacciata dei Tarquini, non pochi furono i tentativi di ripristinare l’antico regime da parte degli esponenti della famiglia reale e dei loro seguaci[1].

I consoli dovettero dapprima affrontare una insurrezione interna da parte di alcuni giovani rampolli della nobiltà, nostalgici del vecchio regime: Giunio Bruto la represse con fermezza, arrivando a condannare a morte persino i suoi figli (colpevoli di alto tradimento).

Giunio Bruto

In seguito, i Romani furono chiamati a combattere contro una coalizione di città etrusche (in particolare, quelle di Tarquinia e di Veio), che si erano alleate con i Tarquini per restaurarne il potere; nel corso della battaglia della Selva Arsia, vinta dai Romani, Bruto si scontrò contro Arrunte Tarquinio: i due, spronati i loro cavalli al galoppo, si trafissero vicendevolmente con le loro lance, perdendo la vita nello scontro.

Le cronache più antiche quindi, tramandano che il re etrusco Porsenna, reggitore della potente città di Chiusi, marciò con il suo esercito contro Roma per aiutare Tarquinio il Superbo a riprendere il trono; la città venne cinta da difese, ma un solo punto rimase scoperto: il ponte Sublicio: Fu lì che si concentrarono le forze etrusche, arginate dall’eroismo di un uomo solo: Orazio Coclite.

Quando apparvero i nemici, ci fu un fuggi fuggi generale dalle campagne: Roma stessa fu munita di presidi armati. Certe zone sembravano sicure per via delle fortificazioni, altre per via dell’ostacolo naturale del fiume Tevere. Il ponte Sublicio avrebbe offerto una breccia al nemico, se non fosse stato per un uomo solo, Orazio Coclite, il quale sostenne quel giorno le sorti di Roma.

Destinato per caso alla guardia del ponte, vide che i nemici si erano impossessati del Gianicolo con un attacco a sorpresa e da quel punto stavano correndo giù a rotta di collo, mentre i suoi compagni (in preda al panico più totale), rompevano le righe e buttavano le armi.

Allora, trattenendoli uno per uno, bloccando la strada e chiamando a testimoni gli uomini e gli dèi, urlava che era inutile che fuggissero dopo aver abbandonato i loro posti: se si fossero lasciati alle spalle il ponte incustodito, in un attimo sul Palatino e sul Campidoglio ci sarebbero stati più nemici che sul Gianicolo.

Così li esortò e li spinse a distruggerlo con il ferro, con il fuoco o con qualsiasi altro mezzo a loro disposizione: avrebbe retto lui l’urto dei nemici, nei limiti dell’umano. Quindi avanzò a grandi passi verso l’ingresso del ponte, facendosi notare in mezzo alle schiere dei compagni che rinunciavano a scontrarsi e disorientando gli Etruschi con l’incredibile coraggio che dimostrava nell’affrontarli, armi alla mano.

Trattenuti dal senso dell’onore, due restarono con lui: si trattava di Spurio Larcio e di Tito Erminio, entrambi nobili per nascita e per le imprese compiute. Fu con loro che egli sostenne per qualche tempo la prima pericolosissima ondata di Etruschi e le fasi più accese dello scontro. Poi, quando rimase in piedi solo un pezzo di ponte e quelli che lo stavano demolendo urlavano di tornare indietro, costrinse anche loro a mettersi in salvo.

Lanciando occhiate di fuoco ai capi etruschi, Orazio Coclite li sfidava singolarmente a duello; li accusava tutti di essere schiavi dell’arroganza monarchica e di essere venuti a minacciare la libertà altrui, senza pensare alla propria. Essi allora ebbero un attimo di incertezza, e si guardarono a vicenda prima di attaccare.

Poi, spinti dalla vergogna, si buttarono tutti insieme all’assalto e, gridando a gran voce, concentrarono i loro tiri contro quell’unico nemico. Ma Orazio riuscì a ripararsi con lo scudo da tutti i colpi e non si mosse di un centimetro dalla sua posizione di difesa a oltranza del ponte; quando gli Etruschi erano ormai sul punto di travolgerlo per farsi strada, il fragore del ponte che andava in pezzi e l’esplosione di gioia dei Romani per aver portato rapidamente a termine l’operazione li spaventarono e ne contennero l’urto.

In quel preciso momento Coclite gridò: «O padre Tiberino, io ti prego solennemente, accogli benigno nella tua corrente questo soldato con le sue armi!». Detto questo, si tuffò nel Tevere armato di tutto punto e sotto una pioggia fittissima di frecce arrivò indenne a nuoto fino ai suoi compagni, protagonista di una impresa destinata ad avere presso i posteri più fama che credito.

Lo Stato ricompensò il suo eroismo con una statua in pieno comizio e con la concessione di tutta la terra che fosse riuscito ad arare nello spazio di un giorno. Accanto agli onori ufficiali ci furono anche manifestazioni di gratitudine: infatti, nonostante il periodo di grande carestia, ogni cittadino in proporzione alle proprie disponibilità si privò di parte della sua razione di viveri per fargliene dono”.

LIVIO, Ab Urbe Condita, Libro II, cap. 10

Porsenna, respinto al primo attacco, modificò la sua strategia, passando dall’idea dell’assalto a quella dell’assedio. Piazzò una guarnigione armata sul Gianicolo e si accampò in pianura lungo le rive del Tevere: il frumento si fece scarso, per cui il re di Chiusi, insistendo con la sua tattica, era fiducioso di espugnare presto Roma.

Cavalieri etruschi

Intanto, Caio Muzio, giovane di nobile famiglia, non poteva sopportare che il suo popolo, mai assediato da potenze straniere durante il periodo di schiavitù monarchica, una volta libero dovesse ora essere schiacciato dentro le mura dagli Etruschi che, in campo militare, avevano conosciuto solo sconfitte dai Romani.

Determinato a vendicare l’indegna situazione con un qualche gesto audace, sulle prime decise, senza consultare nessuno, di penetrare nell’accampamento nemico. Ma in séguito, temendo che una missione priva dell’autorizzazione consolare e ignorata da tutti avrebbe potuto costargli l’arresto per diserzione se le sentinelle romane lo avessero sorpreso (accusa peraltro molto verosimile dati i tempi e il luogo), comparì di fronte al senato e disse:

«Senatori, vorrei attraversare il Tevere e penetrare, se possibile, nell’accampamento nemico, ma non per fare razzia e ripagare i saccheggi con la stessa moneta. No, con l’aiuto degli dèi ho in mente qualcosa di più grande».

I senatori approvarono e Muzio partì con una spada nascosta sotto la veste.

Arrivato all’accampamento etrusco, si mescolò nel fitto della folla di fronte al palco del re. Casualmente era giorno di paga per i soldati e c’era uno scrivano, seduto accanto al re e vestito come lui, estremamente affaccendato, cui si rivolgevano quasi tutti i soldati.

Siccome Muzio non voleva chiedere quale dei due fosse Porsenna (ignorando una cosa del genere si sarebbe smascherato), si affidò alla sorte e sgozzò lo scrivano al posto del re. Poi si dileguò, facendosi largo con la spada insanguinata in mezzo alla folla in preda al panico. Appena però la gente cominciò a gridare all’impazzata, arrivarono da ogni parte le guardie reali e, dopo averlo catturato, lo portarono di fronte al palco del re.

Pur trattandosi di un situazione rischiosissima e continuando più a incutere paura che ad averne, egli disse: «Sono romano e il mio nome è Caio Muzio. Volevo uccidere un nemico e morire non mi fa più paura di uccidere. Il coraggio nell’agire e nel soffrire è cosa da Romani. E io non sono il solo ad avere questi sentimenti nei tuoi confronti: dopo di me è lunga la lista dei nomi di coloro che vorrebbero avere questo onore. Perciò, da oggi in poi, se ci tieni alla vita, preparati a difenderla ad ogni ora del giorno e abituati all’idea di un nemico armato fin nel vestibolo della reggia. Questa è la guerra che la gioventù romana ti dichiara: niente scontri e niente battaglie, non temere. Sarà soltanto una cosa tra te e uno di noi».

Poiché il re, ad un tempo furibondo e terrorizzato per il pericolo corso, minacciava di ordinare che lo mandassero al rogo se non si sbrigava a chiarire tutta quella serie di oscure minacce nei suoi confronti, Muzio esclamò: «Attento! Questo è il valore che dà al corpo chi aspira ad una grande gloria!» E così dicendo infilò la mano destra in un braciere acceso per un sacrificio e la lasciò bruciare come se fosse stato privo di sensazioni.

Il re allora, sbalordito dall’episodio senza precedenti, dopo essersi alzato di scatto dal suo scranno ed aver fatto allontanare il giovane dall’altare, disse: «Vattene, sei libero: sei riuscito a infierire contro la tua persona più di quanto tu non abbia fatto con la mia. Onorerei il tuo coraggio se fosse al servizio del mio paese. Dato che le cose non stanno così, ti risparmio la corte marziale e ti lascio libero senza che ti si torca un capello».

Allora Muzio, quasi per ricambiarne la generosità, disse: «Visto che stimi il coraggio, ti dirò quel che non mi hai strappato con la minaccia: abbiamo giurato in trecento, il meglio della gioventù romana, di attentare alla tua vita in questo modo. Io sono stato sorteggiato per primo. Gli altri, qualunque sia la sorte di quelli che li hanno preceduti, faranno lo stesso, ciascuno quando sarà il loro turno, fino al giorno in cui il destino non ti esporrà ai nostri colpi»”.

LIVIO, Ab Urbe Condita, Libro II, cap. 12

Dopo il rilascio di Caio Muzio, poi soprannominato Scevola per la perdita della mano destra, Porsenna preferì negoziare la pace con i Romani; per ritirare le sue truppe dal Gianicolo, tuttavia, il re di Chiusi pretese in cambio degli ostaggi.

Una ragazza di nome Clelia, cui era toccato di trovarsi nel numero degli ostaggi, siccome l’accampamento etrusco era situato casualmente vicino alla riva del Tevere, riuscì a sfuggire alle sentinelle e, con al séguito un gruppo di coetanee, attraversò a nuoto il fiume sotto una pioggia di frecce; le ricondusse sane e salve ai parenti in città. Appena il re lo venne a sapere, montò su tutte le furie e in un primo tempo mandò degli ambasciatori a Roma per chiedere la restituzione dell’ostaggio Clelia, senza preoccuparsi troppo di tutte le altre ragazze.

Poi però, passato dalla collera all’ammirazione, disse che un’impresa del genere superava quelle dei Cocliti e dei Muzi e che il rifiuto di restituire l’ostaggio sarebbe stato considerato una violazione del trattato. Se invece gliel’avessero consegnata lui l’avrebbe restituita ai suoi senza farle alcun male.

Entrambe le parti mantennero la parola: i Romani riconsegnarono il pegno di pace, come previsto dal trattato, e il re etrusco non solo protesse la ragazza, ma ne onorò il coraggio con questa forma di riconoscimento: le avrebbe donato parte degli ostaggi e lei stessa poté scegliere quali portare con sé. Quando li ebbe tutti davanti, sembra che ella scelse gli adolescenti, sia perché la scelta era più in sintonia con la sua età, sia perché avrebbe probabilmente avuto l’approvazione degli ostaggi stessi (la cosa migliore era togliere al nemico chi si trovava nell’età più esposta a possibili rischi).

Una volta ristabilita la pace, i Romani immortalarono quell’atto di coraggio inusuale per una donna con un onore anch’esso nuovo: in cima alla Via Sacra le fu dedicata una statua equestre che rappresentava una ragazza in groppa a un cavallo”.

LIVIO, Ab Urbe Condita, Libro II, cap. 13

Fuga di Clelia

Dopo aver raggiunto la pace con il re Porsenna, altre guerre attendevano la giovane Repubblica di Roma: essa dovette lottare a più riprese con i Sabini e con le città dei Latini. Tale situazione scontentava soprattutto la plebe, che dovevano prendersi carico dei maggiori oneri derivanti dalla guerra (a quell’epoca, ogni cittadino doveva equipaggiarsi a spese proprie per prestare il servizio militare; le persone meno abbienti erano costrette ad indebitarsi e ritornavano dalla guerra più povere di prima, se i loro poderi nel frattempo rimanevano incolti oppure venivano devastati dal nemico).

Si giunse così ad una vera e propria secessione della plebe (494 a.C.), per scongiurare la quale fu necessario l’intervento di un cittadino di natali plebei, famoso per le sue arti oratorie: Menenio Agrippa.

Le truppe, su proposta di un certo Sicinio, si ammutinarono all’autorità dei consoli e si ritirarono sul monte Sacro, sulla riva destra dell’Aniene, a tre miglia da Roma. Questa è la versione più accreditata: stando invece a quella adottata da Pisone, la secessione sarebbe avvenuta sull’Aventino.

Lì, senza nessuno che li guidasse, i plebei fortificarono in tutta calma il campo con fossati e palizzate, limitandosi ad andare in cerca di cibo; per alcuni giorni, non subirono attacchi né attaccarono a loro volta.

Roma era nel panico più totale e il clima di mutua apprensione teneva tutto in sospeso. La plebe, abbandonata al suo destino, temeva un’azione di forza organizzata dal senato; i senatori temevano i plebei rimasti in città ed erano incerti: era preferibile che questi rimanessero o se ne andassero? Quanto sarebbe durata la calma dei secessionisti? Che cosa sarebbe successo se nel frattempo fosse scoppiata una guerra con qualche paese straniero?

La sola speranza era rappresentata dalla concordia interna: per il bene dello Stato andava restaurata, a qualunque costo. Si decise allora di mandare alla plebe come portavoce Menenio Agrippa, un uomo dotato di straordinaria dialettica e ben visto per le sue origini popolari. Una volta introdotto nel campo, pare che raccontò questo apologo con lo stile un po’ rozzo tipico degli antichi:

«Quando le membra del corpo umano non costituivano ancora un tutt’uno armonico, ma ciascuna di esse aveva un suo linguaggio ed un suo modo di pensare, tutte le altre parti erano indignate di dover sgobbare a destra e a sinistra per provvedere ad ogni necessità dello stomaco, mentre questi se ne stava zitto zitto, lì nel mezzo, a godersi quanto gli veniva dato. Allora, decisero di accordarsi così: le mani non avrebbero più portato il cibo alla bocca, la bocca non si sarebbe più aperta per prenderlo, né i denti lo avrebbero più masticato.

Mentre credevano di far morire di fame lo stomaco, le membra stesse ed il corpo tutto si ridussero pelle e ossa. In quel momento capirono che anche lo stomaco aveva una sua funzione e non se ne stava inoperoso: nutriva tanto quanto era nutrito e a tutte le parti del corpo restituiva, distribuendo equamente per le vene (e arricchito dal cibo digerito) il sangue che ci dà vita e forza».

Mettendo in parallelo la ribellione interna delle parti del corpo e la rabbia della plebe nei confronti del senato, Menenio riuscì a farli ragionare”.

LIVIO, Ab Urbe Condita, Libro II, cap. 32

Venne allora affrontato il tema della riconciliazione tra patrizi e plebei e si giunse al seguente compromesso: vennero designati dei magistrati sacri e inviolabili, il cui compito sarebbe stato quello di prendere le difese della plebe: nessun patrizio avrebbe potuto avere quest’incarico. Quindi furono eletti due tribuni della plebe: Caio Licinio e Lucio Albino.

In seguito, i plebei chiesero ed ottennero che le leggi venissero fissate per iscritto; furono pertanto eletti dieci magistrati (i decemviri), con il compito di redigere ed emanare il corpus delle regole fondamentali del diritto pubblico e privato: le “Leggi delle XII tavole (duodecim tabularum leges)”. Si racconta tuttavia che i decemviri, una volta ultimato il loro compito, non vollero rinunciare alle loro prerogative.

Senza preoccuparsi di far eleggere altri magistrati al loro posto, i decemviri – ora privati cittadini – apparvero in pubblico facendo capire di non voler assolutamente rinunciare alla gestione del potere, né di volersi privare delle insegne che erano il distintivo della carica. Senza dubbio il loro sembrava un vero e proprio dispotismo”.

LIVIO, Ab urbe condita, libro III, cap. 38

Tra questi, particolare risalto ebbe – in senso negativo – la figura di Appio Claudio, tristemente famoso per la sua insana passione per una donna plebea; per sottolineare la gravità dell’episodio, “nato dalla libidine”, LIVIO non esita a dire che:

le conseguenze non furono tuttavia meno disastrose di quelle che, a causa dello stupro e del suicidio di Lucrezia, avevano in passato portato alla cacciata dei Tarquini dal trono e da Roma”.

LIVIO, Ab urbe condita, libro III, cap. 44

Il decemviro si invaghì di Verginia, una bella giovane di famiglia plebea; dapprima egli tentò di corrompere con denaro e lusinghe la giovane, già promessa al tribuno della plebe Lucio Icilio; poiché la fanciulla non cedette, Appio Claudio convinse un suo cliente[2], Marco Claudio, a sostenere che Verginia fosse una sua schiava.

Marco portò la causa in tribunale e a decidere della controversia venne chiamato proprio l’arrogante decemviro, il quale accordò che venisse dichiarata in via provvisoria la schiavitù a favore del suo cliente; ciò indusse il padre della ragazza, Lucio Verginio, a reagire con veemenza:

Mia figlia, Appio, l’ho promessa a Icilio e non a te, e l’ho allevata per le nozze, non per lo stupro. A te piace fare come le bestie e gli animali selvatici che si accoppiano a caso? Se questa gente lo permetterà, non lo so: ma spero che non lo permetteranno quelli che possiedono le armi!”.

LIVIO, Ab urbe condita, libro III, cap. 47

Appio Claudio reagì intimando ai Littori di intervenire per sedare la rivolta; a quel punto Verginio si appartò con la figlia e, piuttosto che consegnarla ai suoi aguzzini, preferì ucciderla.

Così, figlia mia, io rivendico la tua libertà nell’unico modo a mia disposizione!”.

LIVIO, Ab urbe condita, libro III, cap. 48

Alla vista del corpo esanime della fanciulla, il popolo insorse; con l’aiuto dell’esercito romano i decemviri vennero esautorati e furono ripristinate le antiche prerogative dei consoli e dei magistrati romani. Il crudele Appio Claudio venne rinchiuso in carcere, ma preferì suicidarsi piuttosto che affrontare il processo.

Cinque anni dopo la caduta dei Decemviri, Gaio Canuleio fece approvare la sua legge per abrogare il divieto di matrimonio fra patrizi e plebei, imposto proprio dai Decemviri con le XII tavole: la Lex Canuleia.

In quegli stessi anni, Roma proseguiva la sua politica di espansione; ribadita la propria supremazia nei confronti delle altre città latine con il Foedus Cassianum (a seguito della vittoriosa battaglia del Lago Regillo), la città rivolse poi le sue mire nei confronti dei territori del basso Lazio, abitate dalle bellicose popolazioni degli Equi e dei Volsci.

A distinguersi particolarmente nelle azioni militari fu il console Gneo Marcio, in seguito detto Coriolano perché aveva espugnato la città di Corioli; la sua gloria venne tuttavia offuscata dalle continue liti con la plebe, tanto che egli fu citato in giudizio dai tribuni della plebe.

Secondo LIVIO, Coriolano rifiutò di affrontare il processo e preferì l’esilio volontario nella città di Anzio, presso i Volsci, ospite di Attio Tullio. I due, animati da forti sentimenti di rivincita nei confronti di Roma, iniziarono a tramare affinché i Volsci marciassero nuovamente contro il potente vicino.

Coriolano

Alla fine i Volsci decisero per una nuova guerra contro Roma; Coriolano, al comando del proprio esercito, espugnò numerose città e giunse alle porte dell’Urbe; mentre i consoli organizzavano le difese della città, egli venne fermato dalle implorazioni della madre Veturia e della moglie Volumnia, accorsa con i due figlioletti in braccio, che lo convinsero a desistere dal proprio proposito di distruggere Roma.

Coriolano saltò giù come una furia dal suo sedile e corse incontro alla madre per abbracciarla. Lei però, passata dalle suppliche alla collera, gli disse: «Fermo lì, prima di abbracciarmi: voglio sapere se qui ci troviamo da un nemico o da un figlio e se nel tuo accampamento devo considerarmi una prigioniera o una madre»”.

LIVIO, Ab urbe condita, libro III, cap. 40

LIVIO riferisce tradizioni diverse sulla morte di Coriolano; secondo alcuni egli fu ucciso dai Volsci, che lo considerarono un traditore per aver sciolto l’esercito sotto le mura di Roma; secondo altri, morì di vecchiaia in esilio. Si tamanda anche che, avuto notizia della sua morte, le matrone romano lo piansero a lungo e si misero in lutto.

Un altro romano, famoso invece per la sua semplicità e per l’austerità dei suoi costumi, fu Lucio Quinzio Cincinnato (cioè “riccioluto”): LIVIO lo definì “spes unica imperii populi romani” (l’ultima speranza del potere del popolo romano).

Durante la guerra contro gli Equi il console Lucio Minucio Esquilino Augurino era rimasto assediato nel suo accampamento; l’altro console, impegnato con i Sabini, non era in grado di aiutarlo. La situazione era così grave da richiedere la nomina di un dittatore con pieni poteri; i senatori si recarono al di là del Tevere dove Cincinnato stava arando il suo podere, a torso nudo:

lo pregarono di indossare la toga e di venire da loro. Sua moglie Racilia andò alla capanna per recare l’indumento: Cincinnato si deterse il sudore e si rivestì; solo allora i senatori lo pregarono di assumere la dittatura.

Cincinnato accettò e tornò a Roma attraversando il Tevere; il giorno dopo radunò l’esercito e lo condusse a marce forzate in soccorso dei concittadini assediati nel loro accampamento. Iniziò così la battaglia del Monte Algido che portò alla sconfitta degli Equi.

Cincinnato, liberato l’esercito romano, distribuì premi e punizioni: il bottino andò ai suoi soldati, Lucio Minucio dovette invece rinunciare alla carica di console e rimase in armi al comando di Quinzio; ai soldati soccorsi non toccò nulla.

La carica di dittatore poteva durare fino a sei mesi: Cincinnato, invece, celebrato il trionfo, dopo sedici giorni rinunciò alla dittatura e tornò alla sua vita di privato cittadino, nei campi. Questo comportamento restò negli annali come esempio di virtù e di modestia.

Dopo aver sconfitto e sottomesso gli Equi e i Volsci, i Romani dovettero affrontare le minacce e le pressioni della città etrusca di Veio; si tramanda che in un primo momento la guerra venne sostenuta da un esercito privato, gestito e finanziato dalla gens dei Fabii: l’intera stirpe di questa nobile famiglia romana venne però sterminata dai Veienti (fatta eccezione per un unico rampollo, che fu il progenitore di Quinto Fabio Massimo, eroe delle Guerre Puniche). La città di Veio venne infine espugnata, dopo un assedio decennale, dal console Furio Camillo (396 a.C.).

Nubi oscure, tuttavia, si addensavano all’orizzonte della popolazione romana: un nuovo nemico proveniente dall’Italia settentrionale – i terribili Galli guidati da Brenno – sbaragliò le truppe dei Romani sul fiume Allia (390 a.C.) e marciò in direzione dell’Urbe per saccheggiarla.

Poiché non vi era alcuna speranza di poter difendere la città con un esercito ormai esiguo, ai Romani sembrò opportuno che la gioventù militare con le mogli, i figli e i senatori più validi si ritirassero sul Campidoglio.

Gli anziani dichiararono che non avrebbero aggravato la situazione dei loro concittadini; poiché non potevano portare le armi, né difendere la patria, la massa dei vecchi tornò alle proprie case e attese l’arrivo dei nemici con l’animo disposto ad accettare la morte. Quanti di loro avevano ricoperto cariche importanti, indossata la veste più sontuosa, si posero a sedere al centro dei loro palazzi su scranni d’avorio. Alcuni affermano che essi offrirono la loro vita agli dei per la patria.

Il giorno dopo i Galli entrarono dalla Porta Collina e giunsero al Foro, volgendo intorno lo sguardo verso i templi; poi si sparpagliarono in cerca di preda per le vie deserte, in cui non si incontrava anima viva; alcuni irrompevano in massa verso le case. Atterriti da quel gran deserto, i Galli si riunirono di nuovo in gruppo nel Foro o nelle vicinanze: qui videro gli anziani seduti nei vestiboli dei palazzi, del tutto simili agli dei, non solo per l’abbigliamento e per il loro aspetto, ma anche per la maestà che spirava dai loro sguardi e per la dignità dei loro volti.

Si racconta che, mentre stavano immobili di fronte a loro come davanti a statue, uno di questi nobili vecchi, Marco Papirio, colpì sulla testa con il bastone d’avorio un Gallo che accarezzava la sua barba: ciò provocò l’ira del barbaro e di lì ebbe inizio la strage: tutti furono massacrati sui loro scranni; nessuno fu risparmiato: le case furono saccheggiate e date alle fiamme. Durante la notte i Galli tentarono di penetrare nel Campidoglio, dove si era rifugiato il resto della popolazione romana.

La rocca romana ed il Campidoglio furono in grande pericolo. Infatti i Galli […] in silenzio raggiunsero di soppiatto la cima del colle e non solo ingannarono le sentinelle, ma non svegliarono neppure i cani, che pure sono animali che si svegliano facilmente per i rumori notturni.

Non ingannarono però le oche che, essendo sacre a Giunone, anche in quella situazione di estrema penuria di cibo vennero risparmiate: questo fatto garantì la salvezza; infatti M. Manlio, che tre anni prima era stato console (uomo di ottima disciplina militare), svegliato dal loro starnazzare e dal rumore delle ali, afferrate le armi si precipitò risoluto chiamando tutti gli altri alle armi e, mentre gli altri si preparavano in fretta, colpì con l’umbone e fece precipitare uno dei Galli che si era fermato sulla sommità del colle […], abbatté altri Galli impauriti che, abbandonate le armi, si abbarbicavano alle rocce cui tentavano di aggrapparsi con le mani. Gli altri Romani procurarono confusione nei nemici con dardi, frecce e sassi; la schiera dei nemici al completo, travolta dalla caduta, cadde a precipizio”.

LIVIO, Ab urbe condita, libro V, cap. 47

Oche del Campidoglio

La fame opprimeva entrambi gli eserciti, più di tutti i mali dell’assedio e della guerra; inoltre, un’epidemia si era diffusa nell’accampamento dei Galli; poiché essi non potevano tollerare il caldo, morivano tormentati dall’afa soffocante: essi bruciavano cumuli di cadaveri accatastati alla rinfusa (ciò rese famoso il luogo con il nome di “rogo dei Galli”).

In quel frangente, i Romani elessero dittatore Furio Camillo, che venne richiamato dal suo esilio ad Ardea[3]; mentre il condottiero radunava le truppe necessarie per rompere l’assedio dell’Urbe, l’esercito capitolino – stremato dalla fame e dai massacranti turni di guardia – decise di arrendersi, tanto più che i Galli apertamente andavano ripetendo che erano disposti ad abbandonare l’assedio dietro pagamento di un riscatto non eccessivo. Il Senato venne convocato e si diede mandato ai tribuni di trovare un accordo con il nemico.

Quindi, dopo un colloquio, venne trovato un accordo tra il tribuno Sulpicio e il reggitore dei Galli Brenno e fu fissato il prezzo di mille libre d’oro per un popolo destinato a dominare il mondo. Al fatto, già di per sé assai umiliante, si aggiunse l’indegnità: i pesi portati dai Galli non erano genuini e, a causa delle proteste del tribuno, l’insolente [Brenno] aggiunse la sua spada sulla bilancia e pronunciò una frase non tollerabile per i Romani: “Vae victis” (guai ai vinti)”.

LIVIO, Ab urbe condita, libro V, cap. 48

Ma gli dei e gli uomini impedirono che i Quiriti venissero umiliati; prima che fosse pesato tutto l’oro, il dittatore Furio Camillo giunse a Roma: ordinò che si togliesse di mezzo l’oro e che i Galli venissero allontanati; egli negò che l’accordo fosse valido, in quanto concluso da un magistrato di grado inferiore (“Non con l’oro, ma con il ferro si riscatta Roma!”).

Camillo ordinò quindi le schiere e predispose tutto ciò che, secondo l’arte militare, poteva essere scelto e disposto a vantaggio delle sue truppe; già al primo scontro i Galli furono sbaragliati in un tempo non superiore a quello con cui essi avevano preso il fiume Allia;

poi venne espugnato l’accampamento nemico: la strage fu tale che non fu lasciato vivo neppure un messaggero. Il dittatore trionfante tornò in città: egli venne acclamato invocato come secondo Romolo e salvatore di Roma;

nonostante buona parte della popolazione avesse espresso il desiderio di emigrare a Veio dopo l’incendio dell’Urbe, egli insistette per non abbandonare i luoghi consacrati agli dèi; per puro caso, durante il discorso del dittatore, una pattuglia di soldati stava attraversando il Foro e il loro centurione esclamò: “Signifer, statue signum. Hic manebimus optime (“Alfiere, pianta l’insegna. Qui staremo benissimo”).

In molti interpretarono quella frase come un presagio: era il segno che le divinità desideravano che l’Urbe venisse rifondata, nonostante i Galli l’avessero devastata lasciando cumuli di macerie.

Con la ricostruzione di Roma, la mitologia passa definitivamente il testimone alla storia descritta negli Annali e nelle opere degli studiosi: una storia che racconta le vicende di una civiltà chiamata a cambiare il mondo, senza conoscere più l’onta dell’assedio per ottocento anni; dominando il Mediterraneo per secoli e secoli, essa era destinata a tramandare ai posteri un’eredità di cui ancora oggi siamo debitori.

Furio Camillo, affresco di Domenico Ghirlandaio

[1]   Riferisce LIVIO che le terre di Tarquinio il Superbo, situate tra Roma e il Tevere, furono consacrate a Marte e in séguito divennero il Campo Marzio. Le spighe di grano presenti su quei terreni furono tagliate con tutto lo stelo da una gran massa di persone e gettate in ceste di vimini nel Tevere che scorreva a basso regime d’acqua; le fascine, andandosi ad impigliare dove l’acqua era meno profonda, si depositarono sul fango del fondale e di lì (anche grazie ai detriti di altra natura che il fiume trascinava a valle) si sarebbe formata l’isola Tiberina.
[2]   Il cliens in epoca romana era quel cittadino che, per la sua posizione svantaggiata all’interno della società, si trovava costretto a ricorrere alla protezione di un “patronus” o di una intera “gens” in cambio di svariati favori, talvolta al limite della sudditanza (applicatio) fisica o psicologica. Il cliente era obbligato nei confronti del proprio patronus in quanto doveva a questi il voto nelle assembelle e doveva aiutarlo qualora fosse stato impegnato in guerra.
[3]   L’ex console era infatti stato accusato (molto probabilmente, a torto) di aver sottratto parte del bottino proveniente dal sacco di Veio.

  ←Capitolo precedente   

Torna all’indice

di Daniele Bello

Lascia un commento