I “Nostoi” – La guerra di Troia – 1di6

PARTE III

I “Nostoi”

1.

Il ritorno in patria degli Achei

La morte di Agamennone

L’epopea dei ‘Nostoi’ (vale a dire i “Ritorni”, dal nome di un poema facente parte del Ciclo Troiano, attribuito a tale Agia di Trezene e andato ormai perduto) è, per certi versi, affascinante tanto quanto le leggende dedicate alla guerra.

Gli dei dell’Olimpo, adirati per gli eccessi e gli atti sacrileghi cui si erano lasciati andare gli Achei durante il sacco di Troia (non ultima, la distruzione di tutti i templi dedicati alle divinità), decisero che gli Elleni non sarebbero tornati in patria se non a prezzo di lunghe peripezie[1].

La flotta degli Achei venne travolta da un terribile temporale nelle vicinanze di Tenedo. Nauplio, padre di Palamede, desideroso di vendetta per l’ignominiosa morte del figlio, fece collocare dei fuochi luminosi in cima al capo Capareo, ingannando i nocchieri delle navi (che ritennero il luogo un porto sicuro per un tranquillo approdo).

In realtà, la zona era tristemente famosa a causa del fondale roccioso: gli Elleni cercarono tutti riparo nella baia, ma questa manovra avventata causò il naufragio di molte delle navi della flotta achea. Palamede era stato così vendicato.

A seguito di quella sventura, i comandanti greci si divisero cercando ognuno di raggiungere per proprio conto la patria lontana.

Nestore di Pilo, che aveva dimostrato una condotta integerrima durante la guerra e non si era lasciato andare ad eccessi sotto le mura di Troia (né prese parte al saccheggio), fu l’unico eroe ad avere un ritorno veloce e indolore; il sovrano fece ritorno nell’Elide sano e salvo e regnò ancora per molti anni; nessuno, tuttavia, poté consolarlo per la morte del figlio Antiloco, caduto a Troia per mano di Memnone, re d’Etiopia.

Nestore di Pilo

Aiace Oileo, che più di ogni altro aveva causato l’ira degli dei a causa dello stupro di Cassandra, non tornò mai più in patria; la sua nave fu infatti ridotta a pezzi a causa di una terribile tempesta (scatenata, pare, su richiesta della dea Atena, che non aveva perdonato al capo acheo le violenze nei confronti della figlia di Priamo, avvenute all’interno del suo tempio).

Poseidon ebbe pietà di lui e gli consentì di raggiungere la salvezza facendolo approdare su uno scoglio; il condottiero della Locride, tuttavia, fu talmente impudente da gridare al cielo che sarebbe stato capace di salvarsi da solo, anche senza l’aiuto degli immortali. Il dio del mare, sdegnato, fece sprofondare lo scoglio con un colpo del suo tridente e così Aiace Oileo annegò miseramente.

Teucro, figlio di Telamone e fratello del grande Aiace Telamonio (morto suicida a causa dell’umiliazione subita a causa della mancata assegnazione delle armi di Achille), giunse in patria ma venne esiliato dal padre per non aver saputo difendere o vendicare il fratello maggiore.

Teucro non si perse d’animo e, con i suoi compagni, salpò alla volta dell’isola di Cipro, dove fondò una nuova città cui dette il nome di Salamina, in onore della terra natia.

L’audace e valoroso Diomede giunse, dopo un temporale, in terra di Licia e poi in Attica prima di raggiungere Argo, dove trovò la moglie Egialea nel pieno di un adulterio (secondo altre versioni, ella cercò addirittura di ucciderlo in più di un’occasione). Disgustato, egli partì per l’Etolia e, in seguito, raggiunse l’Italia Meridionale dove fondò diverse città tra cui Brindisi e Benevento.

Chiamato in seguito dalle popolazioni italiche a prendere le armi contro Enea, che pure era giunto in Italia con i Troiani superstiti, egli si rifiutò di dichiarare guerra al vecchio nemico, avendo già sperimentato gli orrori della guerra e il valore dell’avversario.

Filottete riuscì a raggiungere sano e salvo la sua patria (la penisola di Magnesia), ma in seguito ne venne scacciato a causa di una sedizione; egli riparò in Italia dove fondò diverse città fra cui Crotone. Si narra che egli fece costruire un tempio dedicato ad Apollo in Lucania, cui offrì in sacrificò le armi di Eracle.

Idomeneo, re di Creta, riuscì a tornare nella sua isola; secondo una tradizione, tuttavia, la sua flotta venne colpita da una tempesta durante il viaggio di ritorno, per cui egli promise a Poseidon di sacrificargli il primo essere vivente che avesse visto dopo essere sbarcato se il dio del mare gli avesse concesso la salvezza.

Il caso volle che la prima persona a venirgli incontro al momento dell’approdo fosse suo figlio; il re di Creta non se la sentì di celebrare il sacrificio e gli dei, adirati, mandarono una pestilenza che devastò tutti gli abitanti dell’isola. Quando gli oracoli rivelarono la vera causa dell’epidemia, Idomeneo fu mandato in esilio dapprima in Italia e poi in Asia minore, dove morì.

Nessuna notizia certa, invece, si ha riguardo al re di Atene, Menesteo; secondo alcune fonti, egli fu ucciso da Pentesilea mentre altri riferiscono che sarebbe sopravvissuto alla guerra tornando poi in patria; di certo c’è soltanto che a regnare sulla città durante le scorrerie dei Dori (che avvennero almeno una generazione dopo) vi era un tale Codro, che si immolò in prima persona per salvare la città dall’invasione; non è possibile tuttavia accertare l’esistenza di legami di parentela tra i due sovrani.

Fra i re minori sopravissuti alla guerra furono ben pochi a raggiungere le proprie terre, fatta forse eccezione per Toante, che ritornò in Etolia anche se a seguito di un lungo viaggio.

Il profeta Calcante, invece, si mosse via terra e giunse a Colofone (in Asia Minore), dove venne sfidato in una gara di divinazione dal veggente Mopso; essendo stato sconfitto, per l’umiliazione egli preferì suicidarsi.

Il profeta Calcante

Diverso discorso va fatto per il casato di Atreo, le vicende dei quali ispireranno poeti e tragici di molte generazioni.

Secondo quanto ci riferisce Omero nell’Odissea, Menelao e la sua flotta patirono molte peripezie prima di giungere dapprima a Creta e poi in Egitto: solamente cinque delle sue navi sopravvissero alla furia degli elementi.

In Egitto, tuttavia, le navi non riuscirono a ripartire a causa della totale assenza di venti. Menelao decise quindi di chiedere consiglio a Proteo, una antica divinità marina dotata del dono della profezia (nonché del potere di trasformarsi in qualsiasi essere vivente).

Il vecchio dio del mare rivelò a Menelao la rotta giusta per ritornare in patria e quali sacrifici celebrare per avere il favore degli dei nel viaggio di ritorno.

Va ricordato che, secondo una tradizione posteriore ad Omero[2], la vera Elena sarebbe rimasta sempre in Egitto, fedele al marito, mentre Paride avrebbe portato con sé un semplice simulacro della donna, fatta della stessa materia delle nuvole. Quando il re di Sparta approdò nei lidi africani, egli avrebbe ritrovato e riconosciuto la sua vera moglie, riconciliandosi definitivamente con lei; il falso sembiante che il figlio di Atreo aveva portato con sé da Troia si volatilizzò del tutto.

Menelao ed Elena ritornarono infine in Laconia dopo ben otto anni dalla fine della guerra di Troia, dove poterono trascorrere una vecchiaia serena.

Nell’Odissea si narra che Telemaco, figlio di Odisseo, si recò proprio a Sparta per avere notizie del padre e che, in tale occasione, Menelao rassicurò il principe di Itaca sulla sorte del padre; il vecchio Proteo, infatti, gli aveva rivelato che anche Odisseo sarebbe tornato in patria, anche se a seguito di un lungo e periglioso viaggio (di cui parleremo più diffusamente nel capitolo 2).

Ben diversa fu invece la sorte del maggiore degli Atridi, Agamennone, il quale ritornò i Grecia con tutti gli onori portando con sé un cospicuo bottino di guerra (tra cui la profetessa Cassandra, di cui il re di Micene si era invaghito facendone la sua concubina).

Sua moglie Clitennestra, come noto, durante l’assenza del marito si era unita ad Egisto, cugino di Agamennone, governando la città con il suo ausilio.

Probabilmente ancora adirata per il sacrificio di Ifigenia, la figlia di Tindaro venne istigata dall’amante a togliere di mezzo lo scomodo sovrano. Cassandra presagì il futuro delitto e tentò di avvertire il suo padrone e gli anziani di Micene; la maledizione che su di lei incombeva fece sì che ancora una volta nessuno volle ascoltarla.

Istigata da Egisto, Clitennestra uccide Agamennone

Agamennone venne così ucciso a tradimento, mentre faceva il bagno, insieme alla infelice Cassandra. Clitennestra ed Egisto governarono da allora l’Argolide con giustizia, ma la popolazione non riuscì mai ad amare due sovrani che si erano macchiati di un tale atroce delitto.

La giovane figlia del re Agamennone, Elettra, per evitare che l’ira di Egisto si accanisse anche nei confronti dei discendenti del defunto re di Micene, riuscì a nascondere l’unico erede maschio, Oreste, presso il re Strofio nella Focide.

Diventato adulto, il giovane Oreste si recò all’oracolo di Delfi per conoscere il suo destino; per bocca del dio, la Pizia gli ordinò di tornare in Argolide per vendicare la morte del re suo padre. Egli tornò quindi a Micene assieme all’amico del cuore Pilade, figlio di Strofio, e si rivelò alla sorella Elettra, che per anni era vissuta ai margini della vita di corte in attesa del ritorno del fratello minore. Insieme essi cospirarono per vendicare la morte di Agamennone: Oreste trucidò Egisto e la madre Clitennestra, diventando così il nuovo re di Micene[3].

Anche se il matricidio gli era stato comunque imposto dall’oracolo, per il suo delitto Oreste venne tormentato per anni dalle terribili Erinni, mostruosi esseri alati che perseguitano quanti si rendono colpevoli dei crimini più efferati: quelli tra consanguinei.

 

Perché la Moira inflessibile

ci filò questa sorte per sempre:

chi dei mortali incorra

in furore di strage consanguinea,

incalzarlo finché non scenda sotterra.

E neppure morto

sarà libero del tutto[4].

 

Ovunque andasse, il figlio di Agamennone era sempre accompagnato dalla macabra danza delle repellenti creature.

 

Mi scelsi lo sterminio delle case

quando nella pace domestica

Ares abbatte un parente.

Di lui, oh, allora balziamo in traccia,

e per vigoroso che sia, ugualmente

lo anneghiamo sotto nuovo sangue[5].

Sulla pazzia di Oreste esistono numerose versioni: secondo la tradizione ripresa da Euripide, Apollo predisse che per trovare pace il nuovo re dell’Argolide avrebbe dovuto trafugare una statua lignea consacrata ad Artemide nella Tauride (l’odierna Crimea); qui, egli incontrò la sorella Ifigenia, che salvò il fratello e l’amico Pilade da morte certa (nella Tauride, gli stranieri venivano catturati e sacrificati agli dei) e lo aiutò ad appropriarsi della preziosa statua; in tal modo Oreste riconquistò finalmente il senno perduto.

Secondo Eschilo, invece, ascoltando i vaticini del dio Apollo l’infelice Oreste si sarebbe recato nella città di Atene, dove gli anziani giudicarono del suo crimine nell’antico tribunale dell’Aeropago.

Apollo ebbe il ruolo di difensore di Oreste mentre le Erinni quello delle accusatrici. Nel processo le parti sostennero con fermezza le rispettive ragioni: le Erinni, in quanto divinità più arcane, difendevano le antiche leggi tribali che consideravano più sacri i legami di sangue, ragion per cui il figlio di Agamennone doveva essere condannato in quanto omicida di un consanguineo (la madre, appunto).

Apollo, nume della nuova generazione, perorava le nuove leggi delle divinità olimpiche così come erano state consacrate nelle poleis greche; sotto questo profilo, il matrimonio era altrettanto sacro del vincolo di sangue e di conseguenza il delitto di Clitennestra (che aveva ucciso il marito) era altrettanto grave del matricidio; Oreste non poteva quindi essere considerato colpevole in quanto aveva vendicato la morte del padre, obbedendo all’oracolo di Delfi.

Oreste consulta l’oracolo

A seguito della discussione i voti della giuria furono pari; con il suo voto, Atena (chiamata ad esprimersi in quanto presidente dell’Areopago) dichiarò Oreste innocente.

Le Erinni si tramutarono così nelle Eumenidi (le “Benevole”) e non tormentarono più l’ultimo discendente degli Atridi; questi poté finalmente ricoprire il suo ruolo di sovrano di Micene, Argo e Tirinto (alla morte di Menelao, egli ereditò anche il trono di Sparta).

Neottolemo, il figlio di Achille, fu l’unico ad affrontare il viaggio di ritorno sulla terraferma portando con sé i propri uomini, il proprio bottino e i propri schiavi (tra cui l’indovino Eleno e la vedova di Ettore, Andromaca, che divenne sua concubina).

Giunto in patria, egli conquistò l’Epiro e, alla morte del nonno Peleo, ereditò il trono di Ftia.

Il figlio di Achille volle a questo punto prendere moglie e chiese la mano dell’unica figlia di Elena e Menelao, Ermione.

I re di Sparta acconsentirono a queste nozze, anche se la bella Ermione era stata già promessa in precedenza al cugino Oreste (il quale, all’epoca, era ancora in preda alla follia a causa della persecuzione delle Erinni).

Non ancora rinsavito, il figlio di Agamennone incontrò il rivale Neottolemo presso l’oracolo di Delfi e qui lo colse di sorpresa uccidendolo senza pietà: “Né pietà alcuna meritava il tristo figlio di Achille; per mano di Oreste lo colpiva la giustizia degli Dei e quella del Fato, al quale neppure gli Dei possono sottrarsi”[6].

Dopo la morte di Neottolemo, il regno dell’Epiro passò ad Eleno, il quale sposò Andromaca e fondò una nuova città (Butroto, oggi Butrinto), dove accolsero i rifugiati troiani. Per loro, la vita riservava quanto meno una vecchiaia serena, nella malinconia e nel ricordo dei cari ormai perduti.

Clitennestra in un disegno di Panaiotis Kruklidis

[1]    Abbiamo comunque già visto che alcuni tra i più famosi guerrieri Greci (Achille, Aiace Telamonio, Antiloco, Macaone, Medonte, Palamede, Patroclo, Podarce, Protesilao e Tlepolemo) erano periti durante la guerra.
[2]    Tale tradizione è ripresa nella tragedia “Elena” di Euripide.
[3]    La saga di Agamennone e dei suoi discendenti è stata raccontata, sia pure in modo diverso, da tutti e tre i grandi tragici della letteratura greca; si leggano, al riguardo, la trilogia dell’Orestea di Eschilo (“Agamennone”, “Le Coefore”, “Le Eu-menidi”), la tragedia “Elettra” di Sofocle e le altrettanto famose “Oreste” ed “Elettra” di Euripide.
[4]     ESCHILO, Le Eumenidi, Stasimo Primo, Antistrofe I, Torino, Einaudi, pp. 161-164.
[5]    ESCHILO, Le Eumenidi, Stasimo Primo, Antistrofe II, Torino, Einaudi, pp. 161-164.
[6]    MORPURGO, Le favole antiche, Torino, Petrini, 1953, p. 178. Il destino di Andromaca, Oreste e Nettolemo sono narrati anche nella tragedia “Andromaca” di Euripide.

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di Daniele Bello

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