I “Nostoi” – La guerra di Troia – 2di6

2.

L’Odissea

Il viaggio di ritorno di Odisseo (Ulisse), che trascorse dieci anni prima di poter raggiungere la propria patria, è l’argomento dell’Odissea, il secondo grande poema epico attribuito ad Omero; numerosi, tuttavia, sono gli autori successivi[1] che si sono occupati del carattere e delle imprese dell’eroe natio di Itaca.

Ulisse, di Sergio Fasolini

Dopo il sacco di Troia, il figlio di Laerte e i suoi compagni partirono con una flotta di dodici navi cariche di bottino per raggiungere l’isola di Itaca.

Essi giunsero quindi ad Ismaro, nel paese dei Ciconi[2]; poiché essi erano stati alleati dei Teucri durante la guerra, Odisseo decise di mettere a ferro e a fuoco la città.

Gli Achei depredarono tutta la regione, prendendo donne e ricchezze in abbondanza; essi tuttavia si attardarono troppo nei saccheggi e diedero il tempo al nemico di riorganizzarsi; i Ciconi tornarono alla riscossa e ricacciarono indietro i Greci: ben sei compagni per ogni nave non fecero più ritorno e caddero sul campo di battaglia.

Avviliti per le perdite subite, Odisseo e i suoi guerrieri ripresero il mare in direzione sud e giunsero sino a Capo Malea, dove avrebbero potuto completare la circumnavigazione della penisola ellenica e spingersi a settentrione, verso Itaca.

Una terribile tempesta e il vento di Borea, tuttavia, respinsero la flotta itacese per ben nove giorni; nel decimo giorno, le navi giunsero nella terra dei Lotofagi[3].

I compagni di Odisseo scesero a terra per attingere acqua e procurarsi cibo; quindi, vennero inviati degli araldi per raccogliere informazioni.

Poiché i messi non tornavano, il figlio di Laerte si allarmò e andò alla ricerca dei compagni; egli scoprì che gli abitanti del luogo avevano dato agli Achei il dolce frutto del loto da mangiare; chi ne assaggiava, dimenticava del tutto la patria lontana e non desiderava altro se non masticare ancora loto.

Odisseo ordinò di portare via i compagni a viva forza e tornò sulle navi; ripreso il largo, i guerrieri di Itaca giunsero in un’isola di fronte alla terra dei Ciclopi[4].

Dopo essere andati a caccia, i compagni di Odisseo banchettarono a base di carne, bevendo il dolce vino dei Ciconi; il giorno successivo, il figlio di Laerte decise di esplorare le terre circostanti, avvicinandosi alla costa con una sola delle navi e sbarcando con dodici uomini al seguito.

Ben presto, Odisseo giunse all’ingresso di una vasta spelonca: all’interno, erano stipati agnelli e capretti; i graticci erano carichi di latte e di formaggio in abbondanza; senza curarsi delle preghiere dei compagni (che lo spingevano a portar via cibo ed armenti e a fuggire), il figlio di Laerte volle rimanere per conoscere chi abitava quelle terre misteriose.

Di lì a poco, giunse un mostro immane; alto come una montagna, setoloso ed irsuto, il gigante aveva un solo occhio tondo in mezzo alla fronte; il Ciclope, che portava con sé le sue greggi e una carico di legna secca, levò in alto un grosso pietrone e lo posò all’ingresso dell’antro.

Il gigante scorse i forestieri e li apostrofò: “Stranieri, chi siete? Da dove venite? Per affari o alla ventura vagate sul mare, come i predoni che vagano rischiando la vita, portando danno agli stranieri?”.

Astutamente, Odisseo riferì che lui e i suoi compagni erano dei naufraghi, scampati per miracolo ad una tempesta, e che imploravano dal gigante l’ospitalità gradita a Zeus e alle altre divinità.

Il Ciclope rispose con arroganza: “Sei sciocco, o straniero, o vieni da molto lontano, tu che mi inviti a temere o a schivare gli dei. Ma i Ciclopi non curano Zeus né gli dei beati, perché siamo molto più forti.

Per schivare l’ira di Zeus non risparmierei né te né i compagni, se l’animo non me lo ordina”. Detto ciò, egli afferrò due dei compagni di Odisseo e li sbatté a terra provocandone la morte: poi cominciò il suo macabro pasto e in breve tempo divorò le carni dei due sventurati.

Quando il Ciclope si fu riempito il gran ventre mangiando carne umana e bevendoci sopra il suo purissimo latte, si mise a giacere nell’antro, disteso in mezzo alle sue bestie. Odisseo fu tentato di colpire a morte l’orrenda creatura con la sua lama, ma si trattenne pensando che mai egli e i suoi uomini avrebbero potuto rimuovere l’enorme lastrone di pietra che chiudeva l’imboccatura della grotta.

Il giorno dopo, il Ciclope si svegliò ed accese il fuoco; prima di portare gli animali al pascolo, egli ghermì altri due uomini per farne il suo pasto; poi, sollevò la pietra con grande facilità e richiuse l’antro lasciando prigionieri Odisseo e i compagni superstiti.

 A quel punto, il figlio di Laerte ideò un piano: poiché il Ciclope aveva lasciato nella caverna un enorme tronco di ulivo, l’eroe acheo dapprima lo fece raschiare sino a farlo diventare liscio; poi, fece appuntire una delle estremità sino a farla diventare ben aguzza, arroventandola nelle braci del fuoco ardente; quindi, il tronco venne nascosto in mezzo al letame degli animali.

Giunta la sera, il Ciclope tornò con il suo gregge e ancora una volta afferrò due uomini, divorandoli avidamente.

 Odisseo si fece quindi avanti con un’anfora di vino di Ismaro, offrendolo alla gigantesca creatura e invocando ancora una volta le leggi dell’ospitalità. Il Ciclope lo tracannò con un sorso e ne pretese dell’altro; con i sensi del tutto annebbiati a causa del liquido inebriante, egli chiese allo sconosciuto il suo nome, promettendogli in cambio un dono; l’astuto Odisseo rispose di chiamarsi Nessuno[5].

Poco prima di sprofondare in un sonno profondo, il Ciclope si era beffato ancora una volta dell’eroe acheo gridando: “Vuoi sapere quale sarà il mio dono, Nessuno? Ti divorerò per ultimo”.

A questo punto Odisseo e i suoi compagni presero il tronco di ulivo e lo resero incandescente a contatto con il fuoco; quindi, lo conficcarono violentemente nell’unico occhio della orrenda creatura.

Le urla di dolore del gigante risuonarono per tutta la caverna, facendo tremare le pareti. I Ciclopi che vivevano nelle vicinanze accorsero, chiedendo a Polifemo (solo a quel punto Odisseo venne a sapere il nome dello spaventoso essere con un occhio solo) la causa di quelle grida.

Il Ciclope accecato, con voce rotta, rispose: “Nessuno mi uccide! Nessuno è causa del mio dolore!”.

Le altre mostruose creature dell’isola, a questo punto, cominciarono a schernire Polifemo: “Se nessuno è causa del tuo dolore, allora il tuo male proviene dagli dei; perciò, rassegnati o prenditela con loro; noi non possiamo fare nulla per te”. E si allontanarono sghignazzando.

All’alba, il Ciclope aprì l’entrata della sua caverna per portare il gregge al pascolo; Odisseo e i suoi compagni si aggrapparono sotto il ventre delle pecore in modo tale che Polifemo, che tastava il dorso degli animali che uscivano, non si accorgesse della loro presenza.

Una volta in salvo, Odisseo non poté trattenersi dal gridare al Ciclope il suo vero nome; Polifemo scagliò con rabbia dei macigni nella direzione da cui proveniva la voce dell’eroe acheo, mancando per poco le navi. Poi, invocando il dio Poseidon (che era suo padre), maledisse il figlio di Laerte e chiese vendetta: da quel momento, il dio del mare sarebbe stato nemico giurato di Odisseo.

Odisseo acceca il ciclope Polifemo

Gli Achei ripresero il mare e giunsero nell’isola galleggiante[6] dove dimorava Eolo, il dio dei venti, il quale prese in simpatia la causa di Odisseo e dei suoi compagni; per aiutarli, il nume chiuse i venti contrari in un otre di cuoio, che affidò all’eroe itacese, lasciando libera solamente una brezza favorevole, in grado di spingere le navi verso casa.

Odisseo portò con sé a bordo il prezioso otre e si mise al timone; dopo dieci giorni di navigazione le coste di Itaca si profilarono all’orizzonte; il figlio di Laerte, stremato da un così lungo periodo alla guida della nave senza prendere sonno, si addormentò.

I compagni di Odisseo, immaginando che l’otre di cuoio contenesse un tesoro donato da Eolo, decisero di aprirlo: i venti contrari si scatenarono e sospinsero le navi lontano da Itaca, nuovamente verso la dimora del nume.

Il figlio di Laerte cercò di farsi ricevere nuovamente dal dio dei venti, raccontando le sue disavventure; ma Eolo, avendo compreso che Odisseo era in odio agli dei beati, lo respinse sdegnato, rifiutandosi di concedergli nuovamente il suo aiuto. Abbattuti e demoralizzati, gli Achei si misero nuovamente in mare.

Dopo sei giorni di navigazione, gli Achei approdarono nell’isola dei Lestrigoni[7]. Tutte le navi entrarono nel porto, tranne quella di Odisseo che, reso più prudente a causa delle precedenti disavventure, decise di ormeggiare la sua imbarcazione in un’ansa fuori dell’imboccatura principale.

Una delegazione venne inviata per raccogliere informazioni sulla popolazione; gli araldi vennero accolti a palazzo, solo per scoprire che gli abitanti del posto erano degli orribili giganti che si nutrivano di carne umana.

Guidati dal loro re Antifate, che afferrò uno degli ambasciatori per farne il suo pranzo, i Lestrigoni dall’alto delle rupi scagliarono enormi macigni sulle navi ancorate, poi trafissero a colpi di lancia i marinai caduti in mare, infilzandoli come pesci prima di divorarli. Solamente la nave di Odisseo riuscì a levare in tempo gli ormeggi della propria nave e a fuggire.

Con la flotta ridotta a una sola imbarcazione, Odisseo ed i suoi compagni giunsero nell’isola di Eea[8], ricoperta da una fitta foresta.

Il figlio di Laerte sbarcò nell’isola alla ricerca di selvaggina; durante l’esplorazione, egli riuscì ad abbattere un grosso cervo dalla alte corna e a scorgere del fumo provenire dalle fitte boscaglie.

Dopo essersi rifocillati, gli Achei (memori delle sventurate vicende di Polifemo e dei Lestrigoni) decisero di dividersi in due gruppi: uno al comando di Odisseo e l’altro al comando di suo cugino Euriloco; la sorte decise che quest’ultimo drappello avrebbe esplorato l’isola, mentre gli altri sarebbero rimasti a bordo.

Gli esploratori giunsero in prossimità di un palazzo costruito con pietre lisce e levigate; intorno ad esso vi erano diversi animali selvaggi come leoni, orsi e lupi; lungi dall’attaccare i visitatori, le fiere sembravano festose ed amichevoli.

All’interno del palazzo, gli Achei vennero accolti da una voce melodiosa; di lì a poco, fece il suo ingresso la signora del luogo: la bella maga Circe[9] dai capelli scuri, figlia di Helios, che invitò gli ospiti a seguirla.

Tutti i compagni di Odisseo seguirono quella donna ammaliatrice; tutti tranne Euriloco, il quale si trasse in disparte, insospettito dal comportamento degli animali selvatici che li avevano accolti.

La bella Circe offrì cibo e vino ai suoi ospiti, poi li toccò con una verga e li trasformò in porci; la maga li fece quindi uscire dal palazzo, spingendoli verso una stalla e gettando loro sdegnosamente delle ghiande.

Inorridito, Euriloco ritornò di corsa verso la nave per avvertire Odisseo.

Incurante degli avvertimenti dei suoi amici, il figlio di Laerte decise si recarsi da solo verso il palazzo di Circe, armato unicamente della propria spada. Lungo il cammino, egli incontrò il dio Hermes, che lo mise in guardia contro i sortilegi della maga donandogli un’erba magica (il moly) in grado di renderlo immune dai poteri della figlia di Helios.

Accolto dalla maga e dalle sue ancelle con tutti gli onori, Odisseo bevve tranquillamente il vino drogato che gli venne offerto, fiducioso nelle virtù della pianta che gli aveva donato il messaggero degli dei; quindi Circe lo colpì con la sua verga gridando: “Va’ ora nel porcile e coricati in mezzo agli altri compagni”.

Grande fu la sorpresa di tutti nel constatare che il misterioso ospite non solo non si era trasformato in un maiale, ma sguainava minacciosamente la sua spada.

Circe riconobbe di trovarsi di fronte ad un uomo protetto dagli dei; dopo aver giurato solennemente di non ordire più inganni nei confronti degli Achei, ella restituì la forma umana ai compagni di Odisseo e li invitò a rimanere nel suo palazzo.

Odisseo, Euriloco e tutti i loro compagni rimasero un anno intero nell’isola di Eea come ospiti della maga, sino a quando non vennero presi nuovamente dalla nostalgia di casa; quando il figlio di Laerte (che, in quel periodo, aveva convissuto con la maga Circe) chiese la via migliore per tornare ad Itaca, gli venne risposto di visitare prima il regno degli inferi per consultarvi l’ombra dell’indovino Tiresia.

La nave solitaria ed il suo equipaggio partì ancora una volta verso terre sconosciute, lasciandosi dietro uno dei marinai, Elpenore, il quale (avendo bevuto più del dovuto) si era addormentato sul tetto del palazzo di Circe e, svegliatosi di soprassalto, era caduto dall’alto della terrazza, morendo sul colpo.

Attenendosi alle istruzioni di Circe, Odisseo giunse infine nel regno delle ombre, nella terra dei Cimmeri (ai confini dell’Oceano)[10].

Camminando lungo la corrente dell’Oceano, il figlio di Laerte giunse nel luogo che gli aveva indicato la maga[11]: scavò una fossa, che riempì dapprima con una bevanda di latte e miele, poi con dolce vino e infine con acqua, spargendo sopra bianca farina di orzo.

Vennero immolati agli dei un montone ed una pecora nera; le anime dei defunti si radunarono fuori dall’Erebo avvicinandosi al luogo del sacrificio; quanti si accostavano al sangue degli animali per berne, riacquistavano sia pure per pochi istanti il dono della parola.

Odisseo riuscì così a consultare l’indovino Tiresia, il quale gli predisse il suo ritorno a casa sano e salvo, ma lo avvertì di stare attento a non attirarsi l’ira degli dei, soprattutto nell’isola di Trinacria.

Tiresia istruì anche Odisseo sui rituali da seguire per placare l’ira del dio Poseidon, una volta giunto in patria; egli infine lo informò che ad Itaca avrebbe trovato una situazione di grande disordine, da cui avrebbe tratto comunque la sua vendetta (“Troverai nella tua causa dei guai: vi troverai uomini prepotenti che ti divorano i beni e aspirano a sposare tua moglie… Ma ti vendicherai delle loro offese”[12]), e che sarebbe morto sulla terra ferma, in età avanzata.

Il figlio di Laerte incontrò quindi l’ombra della madre Anticlea, morta di crepacuore nell’attesa del ritorno del figlio; più volte Odisseo cercò di abbracciarla, riuscendo a stringere solo fumo.

Altre ombre si avvicinarono al luogo del sacrificio: quella di Elpenore, che chiese all’eroe acheo di rendergli gli onori della sepoltura; quella di Agamennone, che gli narrò delle sue disavventure al rientro nell’Argolide; quella di Achille, struggente nella sua malinconia (“Oh non consolarmi della morte, glorioso Odisseo; preferirei da vivo e sulla terra essere servo di un altro, stare presso un uomo privo di mezzi, piuttosto che dominare su tutti i defunti”[13]); solamente l’ombra di Aiace Telamonio si rifiutò di parlargli, ancora sdegnato.

 

Odisseo nel regno dei morti

Il figlio di Laerte vide anche le ombre dei grandi del passato, il giudice dell’oltretomba Minosse e gli eterni castighi cui erano condannati gli empi: il supplizio di Tantalo (v. Parte I, cap. 5), di Sisifo[14] e del gigante Tizio[15]; quando la folla dei morti sconosciuti cominciò ad accalcarsi intorno a lui, Odisseo lasciò il regno degli inferi.

La nave degli Itacesi tornò quindi nell’isola di Eea, dove finalmente vennero dati gli onori della sepoltura allo sventurato Elpenore. Prima della partenza, la maga Circe mise in guardia il figlio di Laerte dalle ultime insidie del viaggio.

Gli Achei si apprestarono quindi ad attraversare i mari infestati dalle Sirene, creature alate che incantavano i naviganti con la loro voce melodiosa, facendoli annegare[16].

 

Odisseo e le Sirene

Seguendo i consigli di Circe, Odisseo fece colare cera molle nelle orecchie dei suoi compagni, per impedire che venissero attirati dal canto delle misteriose creature; egli si fece invece legare saldamente all’albero della nave, per poterne ascoltare il canto.

Durante la traversata, funestata dalla visione di numerosi scheletri adagiati sugli scogli, le Sirene cercarono di sedurre il signore di Itaca: “Vieni, Odisseo, glorioso vanto degli Achei; ferma la nave, se vuoi ascoltare la nostra voce. Nessuno è mai passato di qui con la nave senza udire la nostra voce dal dolce suono”.

Nonostante le preghiere del figlio di Laerte, che implorava di essere sciolto, gli Achei passarono oltre e si lasciarono alle spalle l’isola delle Sirene.

Improvvisamente, Odisseo e i suoi compagni videro dinanzi a loro del fumo e un gran vortice d’acqua, udendone lo spaventoso fragore; ai naviganti atterriti sfuggirono di mano i remi, che ricaddero nella corrente.

Due scogli si paravano di fronte agli Achei; uno dalla vetta aguzza e avvolto da una nuvola scura, l’altro più basso, distanti un tiro di freccia l’uno dall’altro[17]. Odisseo spronò i suoi a superare quel tratto di mare, raccomandando di tenersi lontano dal vortice che proveniva dallo scoglio più basso.

In realtà, il figlio di Laerte era il solo a sapere che la nave si stava appressando alla dimora di Scilla e Cariddi; la maga Circe gli aveva detto che all’interno dello scoglio più alto, in un antro nebbioso rivolto verso l’Erebo, dimorava Scilla “che latra in modo pauroso”[18].

 

Dodici ha piedi, anteriori tutti,

sei lunghissimi colli e su ciascuno

spaventosa una testa, e nelle bocche

di spessi denti un triplice giro,

e la morte più amara di ogni dente.

Per metà si cela dentro la cava

spelonca profonda, ma fuori

sporge le teste, spiando bramosa

foche, delfini e mostri marini.

Di là nessun marinaio riesce

a scampare, illeso, con la sua nave:

con ognuna delle sue teste essa afferra un uomo[19].

 

Sotto l’altro scoglio dimorava la divina Cariddi “che inghiotte l’acqua scura. Tre volte, durante il giorno, la inghiotte e la rigetta tre volte, orrendamente”[20]; neppure il dio Poseidon sarebbe stato in grado di sottrarre alla morte gli sventurati che si fossero avvicinati troppo al gorgo.

La maga Circe aveva quindi consigliato ad Odisseo di navigare tenendosi più accostato allo scoglio di Scilla.

Quando la nave degli Achei cominciò a percorrere lo stretto, i marinai osservavano con terrore il gorgo di Cariddi che ribolliva, mentre la roccia risuonava orrendamente e sotto appariva il fondo nero di sabbia.

Scilla

Un tremendo terrore colse Odisseo e i suoi compagni quando la spaventosa, selvaggia ed invincibile Scilla afferrò sei uomini con i suoi tentacoli e li divorò mentre ancora urlavano tendendo le braccia verso il figlio di Laerte, nella loro straziante quanto inutile lotta.

Alla fine gli Achei giunsero sull’isola di Trinacria, dove pascolavano gli armenti del titano Iperione, padre del dio Helios. Seguendo i consigli di Circe e dell’indovino Tiresia, Odisseo dette ordine di non sbarcare nell’isola e di proseguire la rotta.

Gli Achei, tuttavia, stremati dalla stanchezza, suppli-carono il re di Itaca di consentire l’approdo: il figlio di Laerte acconsentì, facendosi però promettere che nessuno avrebbe toccato gli armenti sacri al dio Iperione.

Giunto nell’isola, Odisseo si appartò in un luogo al riparo dei venti per pregare gli dei dell’Olimpo e cadde in un sonno profondo.

Quando il figlio di Laerte si destò e raggiunse la spiaggia, scoprì che i suoi compagni, guidati da Euriloco, avevano ucciso e mangiato le mucche sacre.

L’ira degli dei per il sacrilegio compiuto non si fece attendere: quando gli Achei si misero di nuovo al largo, Zeus scatenò una grande tempesta che ridusse l’imbarcazione in pezzi. Odisseo sfuggì al naufragio, aggrappandosi all’albero di fico sopra lo scoglio di Cariddi; i suoi compagni e la nave vennero invece inghiottiti dal gorgo.

Il figlio di Laerte riuscì a costruirsi una zattera e, dopo nove giorni di navigazione, giunse nell’isola di Ogigia[21], dove viveva la ninfa Calipso. Quest’ultima, essendosi invaghita dell’eroe acheo, l’aveva costretto a restare nell’isola come suo amante per sette lunghi anni, promettendogli l’immortalità qualora avesse deciso di unirsi in nozze divine con lei.

Invano: la nostalgia della patria impediva a Odisseo di accettare un qualsiasi dono (fosse anche quello dell’eterna giovinezza!) se il prezzo da pagare era quello di non rivedere più l’amata famiglia e la tanto rimpianta Itaca.

Dopo sette anni di esilio, la dea Atena (da sempre alleata di Odisseo), approfittando di un momento in cui il dio del mare Poseidon si era allontanato dall’Olimpo, chiese ed ottenne da Zeus la grazia per il suo protetto.

Il messaggero degli dei, Hermes, si recò quindi ad Ogigia per annunciare la volontà degli dei; la bella Calipso, pur essendo innamorata di Odisseo, si vide costretta a cedere di fronte ad un ordine proveniente dai numi dell’Olimpo; ella diede quindi al figlio di Laerte i mezzi per costruire una zattera e viveri per affrontare il viaggio.

Ancora una volta, il nobile di Itaca prese la via del mare, ma l’ira del dio Poseidon continuava a perseguitarlo; l’ennesima tempesta, infatti, lo scagliò sulle coste dell’isola di Scheria[22], dimora del pacifico popolo dei Feaci; nudo ed esausto, Odisseo cadde addormentato presso la foce di un piccolo fiume.

Il mattino dopo, la principessa Nausicaa, la graziosa figlia del re Alcinoo, scese verso la spiaggia con le sue ancelle; il rumore dei loro passi svegliò Odisseo, il quale pensò di trovarsi di fronte ad un gruppo di ninfe[23].

Alla vista del naufrago, tutte le fanciulle fuggirono tranne Nausicaa, che, dopo aver sentito la storia dello straniero, ne ebbe pietà  richiamò le ancelle. Queste gli diedero da mangiare e gli trovarono una tunica ed un mantello per vestirsi.

Odisseo giunse quindi al palazzo del re dei Feaci, Alcinoo, e della sua sposa, la regina Arete; qui, venne ricevuto con cortesia e con generosità dai suoi ospiti, ai quali però il figlio di Laerte non disse il proprio nome.

Giunta la sera, al palazzo il rapsodo[24] cieco Demodoco cantò le gesta della guerra di Troia; Odisseo non riuscì a frenare la propria commozione e il proprio dolore. Vedendo lo stato di angoscia dell’ospite, Alcinoo lo pregò di raccontare tutte le sue avventure: il nobile di Itaca si decise quindi a rivelare la propria identità e a narrare del suo avventuroso viaggio[25].

Dopo aver ascoltato con grande interesse e curiosità la sua lunga storia, i Feaci decisero di aiutare Odisseo a tornare a casa. Venne messa a disposizione dell’eroe acheo una nave con un equipaggio di volontari, che raggiunse Itaca poco prima dell’aurora; i Feaci sbarcarono così l’eroe acheo in una baia riparata e lo adagiarono sulla spiaggia, colmo di doni e ancora addormentato.

Il viaggio di Odisseo

Al suo risveglio, la dea Atena trasformò Odisseo in un vecchio mendicante, per evitare di essere riconosciuto e difendersi così dalle insidie che lo attendevano (come profetizzato da Tiresia). Egli si incamminò verso la capanna di Eumeo, il guardiano dei porci, per scoprire che questi gli era rimasto fedele anche dopo così tanti anni. Il porcaro lo fece accomodare, ospitandolo presso la sua umile dimora[26].

Nel frattempo Telemaco, il figlio di Odisseo, si stava recando proprio in quel momento presso la capanna di Eumeo; egli era reduce da un lungo viaggio che aveva intrapreso per avere notizie del padre e che lo aveva condotto a Pilo, presso il vecchio re Nestore, e a Sparta, dove aveva ricevuto notizie rassicuranti sul ritorno in patria del genitore da parte di Elena e Menelao (i quali avevano appreso tali conoscenze direttamente dal saggio Proteo).

Dai racconti di Telemaco e di Eumeo, Odisseo apprese cosa era accaduto in quei vent’anni nella sua isoletta di Itaca, “dove invecchiava fino alla decrepitezza suo padre Laerte, dove cresceva a gagliarda gioventù il figlio Telemaco; dove l’attendeva, intrepida nella sua proverbiale fedeltà, la moglie Penelope, assediata dall’orda famelica e oltraggiosa dei Proci, i giovinastri prepotenti di Itaca e delle isole vicine, che avevano occupato la reggia dell’eroe, che essi davano per morto, e pretendevano di usurpargli anche la sposa. Ed ella li deludeva promettendo che avrebbe scelto un nuovo marito tra loro quando avesse finito di tessere una sua grande tela – la famosa tela di Penelope! La tesseva di giorno, in loro presenza, e nel silenzio della notte disfaceva tutto il lavoro compiuto nel giorno, così che quella tela non sarebbe mai finita”[27].

Finalmente, Odisseo si rivelò a Telemaco (ma non ancora ad Eumeo); dopo essersi abbracciati con commozione ed affetto, insieme i due decisero di uccidere i Proci.

Il figlio di Laerte, accompagnato da Eumeo, fece ritorno nella sua casa; incontrò per primo il suo cane Argo (l’unico a riconoscerlo!), che dopo un ultimo sussulto di gioia morì felice per aver rivisto il padrone.

Gli immortali versi di Omero rendono il giusto onore ad uno degli episodi più commoventi del poema:

Così dicevano tra loro, quando Argo, il cane,

che ivi giaceva […] la testa sollevò

ed ambedue le orecchie.

[…]

Com’egli vide il suo signor più presso,

benché tra quei cenci, lo riconobbe

e squassò la coda festeggiando.

[…]

Ulisse, riguardatolo, si asciugò

con mano furtiva dalla guancia il pianto[28].

Entrato nella reggia sempre travestito da mendicante, Odisseo fu spesso vittima degli scherni e delle risa dei Proci arroganti, ma preferì non reagire , limitandosi ad osservarne il comportamento violento e tracotante e ad elaborare un piano per ucciderli.

Nessuno riconobbe il figlio di Laerte (neppure la moglie Penelope!), tranne la vecchia nutrice Euriclea, che comprese la vera identità del mendicante quando egli si spogliò per fare un bagno, mostrando una cicatrice sulla coscia che l’eroe acheo si era procurato da bambino; Odisseo, però, la costrinse a giurare di mantenere il segreto.

Il giorno dopo, su suggerimento di Atena, Penelope sfidò i Proci a cimentarsi in una gara: la saggia moglie di Odisseo spiegò che avrebbe sposato solamente il giovane in grado di tendere l’arco appartenuto al marito, scagliando quindi una freccia all’interno dell’occhiello dell’impugnatura di dodici scuri.

Nessuno dei pretendenti riuscì a superare la prova e a quel punto, tra l’ilarità generale, il vecchio mendicante chiese di partecipare: Odisseo riuscì a tendere l’arma e a colpire il bersaglio, lasciando tutti stupefatti.

Egli si spogliò quindi dei cenci che indossava e balzò sulla grande soglia della sala tenendo in mano l’arco e la faretra piena di frecce: ne tirò fuori i veloci dardi proprio davanti ai piedi, e disse ai pretendenti di Penelope: “Questa gara è finita. Ora voglio vedere se raggiungo un altro bersaglio che mai nessun uomo colpì, se Apollo mi concede questo vanto”.

La strage dei Proci

Quindi rivolse quindi l’arco contro Antinoo, il più arrogante dei nobili di Itaca, e lo uccise trafiggendolo alla gola; gli altri Proci, indignati, per vendicare l’affronto si misero alla ricerca delle loro armi, ma Telemaco aveva già provveduto a farle sparire.

Odisseo si rivelò allora per chi era veramente e gridò indignato: “Ah, cani! Pensavate che non sarei più tornato a casa, dunque…”. Poi, con l’aiuto di Telemaco e dei servi fedeli (Eumeo e Filezio, il guardiano dei buoi), fece strage di tutti i Proci.

Odisseo si rivelò finalmente a Penelope: la donna dapprima esitò (non riusciva a credere che il marito fosse tornato, dopo tanto tempo); ella si convinse solo dopo che il marito descrisse alla perfezione il letto nuziale che lui stesso aveva costruito in occasione del loro matrimonio[29]. I due sposi poterono finalmente riabbracciarsi dopo tanto tempo.

Il giorno dopo, insieme a Telemaco, Odisseo andò ad incontrare suo padre Laerte, che si era ritirato in campagna: anche il vecchio sovrano non riusciva a credere al ritorno del figlio e si convinse quando l’eroe gli descrisse il frutteto che un tempo il padre gli aveva donato.

Odisseo dovette anche fronteggiare un’insurrezione degli abitanti di Itaca, intenzionati a vendicare le uccisioni dei Proci loro figli. Solamente l’intervento della dea Atena riuscì a sedare la disputa e a riportare finalmente la serenità e la pace a Itaca.

Sulla morte di Odisseo le fonti greche sono ambigue e discordanti, quasi che agli Elleni ripugnasse descrivere la fine del loro eroe più rappresentativo: secondo alcune versioni, alcuni anni dopo le vicende narrate sbarcò ad Itaca Telegono, il figlio che l’eroe acheo ebbe dalla maga Circe.

Poiché i visitatori vennero scambiati per predoni ne nacque una rissa, in cui Odisseo morì, ucciso proprio dal figlio non riconosciuto.

Secondo la versione del poeta medievale Dante Alighieri (che, non conoscendo il greco, non aveva letto i poemi di Omero), dopo aver lasciato la maga Circe, Odisseo volle partire verso il mare aperto, oltre lo stretto di Gibilterra dove Eracle aveva segnato i confini “a ciò che l’uom più oltre non si metta”[30].

Memorabili le parole che il condottiero acheo usò per spronare i propri compagni:

non vogliate negar l’esperienza

di retro al sol, del mondo sanza gente.

Considerate la vostra semenza:

fatti non foste per viver come bruti

ma per seguir virtute e conoscenza[31].

Cominciò così il “folle volo” sull’infinito del mare che nessun mortale aveva osato sfidare prima: l’imbarcazione di Odisseo, dopo cinque mesi, giunse in prossimità di una montagna, che l’immaginario medievale identificò con il colle del Purgatorio.

Una terribile tempesta, tuttavia, si scatenò all’improvviso facendo naufragare la nave degli Itacesi, “infin che ‘l mar fu sopra noi richiuso”[32].

Una leggenda, questa, che ha ben poco a che fare con l’universo dei miti greci ma che non si può non citare per la suggestione che essa ebbe per poeti antichi e moderni.

I primi versi dell’Odissea in greco

 

[1]    Oltre ad Omero (con i già citati poemi “Iliade” e “Odissea”), si possono menzionare l’anonimo autore della “Telegonia”, Pindaro (“Seconda Nemea”), Sofocle (“Aiace”, “Filottete”), Euripide (“Ifigenia in Aulide”, “Ciclope”), Platone (“Ippia Minore”), Cicerone (“Tuscolane”, “I doveri”), Virgilio (“Ene-ide”), Properzio (“Elegie”), Ovidio (“Metamorfosi”, “Lettere di eroine”), Seneca (“Troiane”), Stazio (“Achilleide”) e Lucia-no (“Storia Vera”).
[2]    Una regione della Tracia.
[3]    Gli studiosi si sono affannati per secoli nel cercare di identificare le tappe del viaggio di Odisseo, proponendo di volta in volta uno o più siti (il paese dei Lotofagi, ad esempio, viene collocato nel golfo della Sirte, nell’odierna Libia). Ci limitiamo ad osservare che le nozioni geografiche dell’epoca erano molto vaghe e affidate soprattutto ai racconti dei naviganti: le avventure di Odisseo erano quindi sentite da Omero e dai suoi contemporanei come un viaggio nell’ignoto e nel fantastico, senza avere necessariamente una precisa connotazione e collocazione geografica. Di seguito verranno comunque menzionate le interpretazioni più note, anche se non manca chi colloca il viaggio di Odisseo in siti alternativi, come il mare Adriatico o il mar Baltico.
[4]    La terra dei Ciclopi, pur tenendo conto di quanto scritto alla nota precedente, è tradizionalmente identificata con la Sicilia (non mancano interpretazioni diverse, che fanno riferimento alla Tunisia ovvero al basso Lazio).
[5]    In greco: Ουτίς (Outìs).
[6]    L’isola di Eolo viene normalmente identificata con l’arcipelago delle Eolie. Altri ritengono che essa coincida con l’isola di Malta.
[7]    Omero colloca quest’isola a nord: è stata di volta in volta identificata con una regione della penisola italica, con la Sicilia occidentale, con la Sardegna ovvero con la Corsica.
[8]    Omero si limita ad annotare che nell’isola sorge il sole, per cui è possibile desumere solamente che essa è posta ad Oriente. Successivamente, venne identificata con il promontorio del Circeo (nel Lazio) ovvero con un’isola del Tirreno.
[9]    Circe era anche la sorella di Pasifae, sposa di Minosse (re di Creta), e di Eete (re della Colchide), nonché zia di Medea, un’altra famosa e terribile maga.
[10]    Ancora una volta è praticamente impossibile identificare la terra dei Cimmeri; la tradizione tende a collocarlo nell’estremo nord.
[11]     “Là dove c’è una costa bassa e ci sono i boschi di Persefone, alti pioppi sterili salici, tu fai approdare la nave, proprio in riva all’Oceano e vai nella casa di Ade. Essa è squallida e piena di muffa e là, dentro l’Acheronte, scorrono il Flegetonte e il Cocito, che è un ramo dell’acqua dello Stige” (OMERO, Odissea, Libro X, vv. 508-514).
[12]     OMERO, Odissea, Libro XI, vv. 115-119.
[13]     OMERO, Odissea, Libro XI, vv. 487-491.
[14]    Famoso ladro; per aver tentato di imprigionare la dea della morte, venne condannato per l’eternità a spingere su per un colle un macigno, che giunto in cima rotolava sempre giù verso la pianura.
[15]    Gigante figlio della dea Terra; per aver tentato di violentare Leto, madre di Apollo, venne incatenato negli inferi, dove due avvoltoi gli rodevano continuamente il fegato.
[16]   L’iconografia classica, che raffigura le Sirene (“vergini simili a cigni”) come esseri metà donne e metà pesce, è posteriore ad Omero.
[17]    L’insidioso tratto di mare è tradizionalmente identificato con lo stretto di Messina.
[18]     OMERO, Odissea, Libro XII, vv. 85.
[19]     OMERO, Odissea, Libro XII, vv. 89-97.
[20]     OMERO, Odissea, Libro XII, vv. 104.105.
[21]    Ancora una volta gli studiosi si sono ingegnati, identificando il sito ora con Gozo (nell’arcipelago maltese), ora con un’isola delle Lipari; la tesi tradizionale la pone in prossimità dello stretto di Gibilterra.
[22]    Secondo la tesi tradizionale, l’isola di Scheria coincide con l’isola di Corfù; alcuni studiosi la collocano invece nell’Oceano Atlantico ovvero la fanno coincidere con la penisola della Calabria.
[23]     L’incontro tra Odisseo e Nausicaa è uno dei passi più celebrati e citati dell’Odissea.
[24]     Il rapsodo era un cantore professionista che nell’antico mondo greco recitava e cantava, di solito a memoria, poesie epiche.
[25]    Il lettore dell’Odissea, che ci presenta per la prima volta il figlio di Laerte quando è in procinto di lasciare l’isola di Ogigia, apprende del viaggio di ritorno di Odisseo proprio dalla storia che lui stesso narrò ai Feaci (Libri IX-XII).
[26]    L’ospitalità sobria ma dignitosa del porcaro Eumeo divenne proverbiale, tanto da essere citata anche nel romanzo “I dolori del giovane Werther” di GOETHE.
[27]     MORPURGO, Le favole antiche, Torino, Petrini, 1953, p. 168.
[28]   OMERO, Odissea, Libro XVII. vv. 348-367.
[29]     Penelope disse alla nutrice Euriclea: “Prepara un buon letto fuori dalla stanza nuziale: il letto, voglio dire, che fece lui”. E Odisseo rispose: “E chi mi collocò il letto da un’altra parte? Sarebbe difficile, penso, anche per uno molto esperto. C’è un gran segreto nel letto lì, ben lavorato. Lo feci io, non un altro. Ricordo bene: cresceva dentro il cortile una macchia d’ulivo dall’ampio fogliame. Era un ulivo in pieno rigoglio: aveva un tronco massiccio come una colonna. E appunto intorno a questo tronco ci misi la stanza nuziale”.
[30]    DANTE, Inferno, canto XXVI, v. 109.
[31]     DANTE, Inferno, canto XXVI, v. 116-120.
[32]     DANTE, Inferno, canto XXVI, v. 142.

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di Daniele Bello

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