I “Nostoi” – La guerra di Troia – 3di6

3.

La sorte dei Troiani

Le fonti ci riferiscono che ben pochi furono i Teucri che riuscirono a sopravvivere all’eccidio degli Achei e che i pochi superstiti vennero fatti schiavi (nel capitolo 1 si è già narrato della sorte di Eleno e Andromaca, cui il Fato consentì di fondare una nuova Troia in Epiro).

 

Antenore

Il solo ad essere risparmiato fu Antenore, l’unico a trattare con rispetto gli Achei durante le loro ambascerie (v. Parte II, capitolo 5), per cui a lui e a alla sua famiglia fu concesso di lasciare il suolo troiano senza essere ridotto in schiavitù. Si narra che egli si recò nella penisola italica, dove fondò diverse città, tra cui Padova[1].

Ecuba, moglie del defunto re di Troia, venne fatta schiava dai Greci ed assegnata a Odisseo; gli Achei non le risparmiarono lo strazio della morte del marito e dei figli, del sacrificio di Polissena e della barbara uccisione del nipotino Astianatte.

Si racconta che la vedova di Priamo implorasse il duce degli Achei, Agamennone, di concedergli un’ultima grazia: potersi vendicare di Polinestore, che le aveva barbaramente ucciso il figlio Polidoro, nonostante il giovane fosse ospite nella reggia del re di Tracia; il re di Micene acconsentì.

Polinestore ed i suoi figli vennero convocati nella tenda di Ecuba, attratti da una falsa promessa: la vedova del re di Troia aveva infatti palesato di voler rivelare dove fosse nascosto il tesoro della famiglia reale.

Una volta entrati negli alloggi delle prigioniere troiane, il re di Tracia e i suoi rampolli vennero immobilizza-ti: Ecuba, resa furente dalla collera, uccise i due figli del re Polinestore ed accecò il sovrano.

Le fonti a questo riportano che la regina di Troia sarebbe stata trasformata in una cagna: l’Autore ritiene invece che ella sicuramente preferì il suicidio alla schiavitù e questo spiegherebbe come mai non si faccia più menzione di Ecuba nella epopea dei ‘Ritorni’.

Ben più rilevante appare la leggenda che racconta delle peripezie di Enea e dei suoi seguaci, che ispirarono a Virgilio il poema epico più celebrato della letteratura latina: l’Eneide.

Durante il sacco di Troia, il figlio di Afrodite provò ad organizzare una resistenza ma, essendosi reso conto della imminente fine della sua città, riuscì a fuggire portando sulle spalle il padre Anchise e tenendo per mano il figlio Julo; la moglie Creusa, invece, non riuscì a seguire i passi del marito e perì nel disastro generale del saccheggio acheo.

Il giorno dopo, Enea raccolse i pochi profughi sfuggiti al massacro e fece costruire sette navi, con le quali i Troiani superstiti partirono alla ricerca di una nuova patria.

Enea fugge da Troia

Cominciò così il viaggio dei Teucri nel Mediterraneo, che li condusse prima in Tracia, per incontrare il fantasma dello sventurato Polidoro (ucciso con l’inganno, come abbiamo visto, dal re di Tracia), e poi nell’isola di Delo, dove l’oracolo di Apollo sentenziò: “Cercate l’antica madre; qui la stirpe d’Enea dominerà su tutte le terre e su tutti i discendenti” (“Antiquam exquirite matrem. Hic domus Aeneae cunctis dominabitur oris et nati natorum et qui nascentur ab illis“).

Anchise, il padre di Enea, ritenne che la terra d’origine dei Troiani fosse Creta (la patria di Teucro); ma quando Enea ed i suoi compagni raggiunsero l’isola, i raccolti si seccarono e una pestilenza colpì tutti gli abitanti; gli dei apparvero in sogno ad Enea e gli rivelarono che la loro vera patria originaria era l’Italia (da cui proveniva Dardano: Parte I, capitolo 3).

Ancora una volta i Teucri ripresero il mare e approdarono su un isola dell’arcipelago delle Strofadi, dove furono assaliti dalle Arpie, mostri alati con viso di donna dal corpo di uccello: esse cacciarono i Troiani pronunciando anche sinistre maledizioni nei confronti di Enea e dei suoi compagni.

Il figlio di Anchise fece quindi rotta verso nord e giunse in Epiro, dove incontrò Eleno e Andromaca, che – come si è detto – avevano fondato una nuova Troia a Butroto; i compagni di Enea vennero accolti con gioia.

Eleno profetizzò ad Enea che avrebbe dovuto fondare la sua città sulle rive di un fiume della costa più remota d’Italia; egli diede al suo conterraneo dei preziosi consigli su come evitare i pericolosi scogli di Scilla e di Cariddi, raccomandandogli di consultare la Sibilla Cumana, una sacerdotessa di Apollo che viveva in una grotta.

Dopo essersi rimessi in mare, la flotta dei Troiani giunse in Sicilia, dove i compagni di Enea scamparono a stento ad un attacco del ciclope Polifemo ma riuscirono a salvare Achemenide (un compagno di Odisseo, abbandonato per errore dai suoi compagni), che venne accolto dai Teucri come un fratello. Una volta sbarcato nell’isola, Enea dovette soffrire l’ennesimo lutto: anche se serenamente, si spense infatti il vecchio Anchise.

Ripreso il mare, i Troiani erano intenzionati a circumnavigare la Sicilia per giungere nella penisola italica, quando una tempesta fatta scatenare da Hera (la dea che perseverava nel suo odio contro la città di Ilio) li sospinse verso il continente africano; qui Enea e i suoi compagni vennero accolti benevolmente da una comunità di Fenici, intenti a fondare una nuova città: Cartagine.

Ricostruzione di Cartagine

A questo punto l’Autore, pur consapevole dello sforzo del lettore a districarsi tra tanti eventi e personaggi, non può fare a meno di raccontare qualcosa in più sugli abitanti di questa città e sulla loro regina: la famosa Didone.

Primogenita di Belo, re di Tiro, la bella Didone era la felice sposa di Sicheo; destinata a succedere al trono paterno, ella venne tuttavia osteggiata dal crudele fratello Pigmalione; questi le uccise il marito in un complotto e conquistò il potere assoluto sulla città.

Didone, a questo punto, lasciò la patria natia con un gruppo di seguaci e prese il largo, giungendo infine sulle coste dell’attuale Tunisia; qui la bella vedova di Sicheo ottenne da Iarba, il re del luogo, il permesso di fondare una città, prendendo tanto terreno “quanto ne poteva contenere una pelle di bue“.

Astutamente, Didone tagliò una pelle di bue in tante striscioline sottili e le mise in fila, in modo da delimitare quello che sarebbe stato il territorio della città di Cartagine.

Tra Enea e la regina della nuova città nacque subito un sentimento profondo, che si trasformò ben presto in amore; il figlio di Anchise, rasserenato da quei momenti di felicità dopo anni di sofferenze (tra guerre e peregrinazioni), meditava di stabilirsi a Cartagine dove Fenici e Troiani avrebbero potuto fondare un nuovo popolo.

Gli dei avevano tuttavia in serbo per lui un altro destino: il padre dei numi dell’Olimpo inviò così Hermes, il suo messaggero, per ricordargli i suoi doveri; Enea, rassegnato, si apprestò quindi a partire con il suo seguito verso l’Italia.

La regina Didone, quando scoprì che la flotta dei Troiani aveva preso il largo, preparò una pira funebre; invocando gli dei, ella maledisse Enea e i suoi discendenti, presagendo odio eterno tra la sua stirpe e quella dei Troiani; quindi, si trafisse con la spada, ponendo così fine ad una vita funestata da tanti dolori.

Voltandosi indietro dal ponte della sua nave, Enea vide il fumo della pira e ne comprese il significato: pur con la morte nel cuore, egli aveva deciso comunque di seguire il richiamo del destino.

I Troiani, quindi, sbarcarono nuovamente in Sicilia, dove Enea organizzò dei giochi funebri in memoria del padre Anchise.

Quindi, la flotta fece rotta verso la penisola italica, lasciando in terra sicula quei compagni che, stanchi di tante peregrinazioni, avevano deciso di stabilirsi nell’isola.

Durante la navigazione, il timoniere Palinuro vinto dal sonno precipitò in mare presso il Capo che prenderà il suo nome; avvicinatosi agli scogli delle sirene, Enea prese il controllo dell’imbarcazione e condusse la nave sino alla Città di Cuma.

Il figlio di Anchise, memore dei consigli di Eleno, si recò quindi presso la sacerdotessa di Apollo, la Sibilla Cumana, che gli profetizzò la nascita di una nuova patria nonostante l’inimicizia della dea Hera nei confronti della sua stirpe.

La Sibilla accompagnò quindi Enea nel regno dei morti: dal lago di Averno, essi giunsero sulle rive del fiume Stige, dove incontrarono Palinuro, cui non era stato consentito di fare ingresso nell’aldilà perché non gli erano stati resi gli onori della sepoltura: Enea gli promise che al suo ritorno avrebbe provveduto a celebrare il rito funebre.

Il nocchiere dei morti, Caronte, inizialmente si rifiutò di traghettare sulla sua barca il figlio di Anchise in quanto ancora appartenente al mondo dei vivi; si rassegnò a trasportarli solo quando la Sibilla mostrò un ramo d’oro, il simbolo chiave degli inferi.

Dopo aver superato l’ostacolo di Cerbero, il cane a tre teste custode del regno dei morti, Enea incontrò le anime dei suicidi (tra cui Didone, che al passaggio dell’eroe troiano si rifiutò di rivolgergli la parola) e si trovò quindi di fronte alla diramazione tra il Tartaro, dove vengono punite le anime dei malvagi, e i Campi Elisi, la dimora dei saggi e dei virtuosi dopo la morte.

Enea incontrò quindi l’anima del padre Anchise, che gli mostrò le ombre dei suoi discendenti, i Romani, destinati a dominare il mondo anche con la sapienza delle loro leggi; Enea e la Sibilla risalirono quindi nel mondo dei vivi, passando per la porta dei sogni ingannevoli.

Enea e la Sibilla nell’Ade

I Troiani, dopo aver seppellito Caieta, la nutrice di Enea, nella terra che prenderà il suo nome (Gaeta), giunsero infine alla foce del fiume Albula.

Il figlio di Anchise decise di inviare un araldo presso il re del luogo, Latino, che accolse con favore gli stranieri: suo padre, il dio italico Fauno, gli aveva infatti preannunciato che l’unione di uno straniero con sua figlia Lavinia avrebbe generato una stirpe eroica e gloriosa: per questo motivo il re aveva in precedenza rifiutato di concedere Lavinia in moglie al giovane sovrano dei Rutuli, il bellicoso Turno.

La prospettiva di un matrimonio tra Enea e Lavina non piacque alla dea Hera (che persisteva nel suo feroce odio nei confronti di Troia e dei suoi discendenti), la quale riuscì a fomentare l’odio delle popolazioni locali nei confronti degli stranieri.

Il sovrano dei Rutuli, furioso per essersi visto negare la mano della figlia del re Latino, riuscì a portare dalla sua parte una coalizione che comprendeva tutti gli Italici, con l’eccezione delle città governate da Diomede (l’eroe acheo che, dopo aver raggiunto la sua Argo, aveva fondato un regno nell’Italia Meridionale), che preferirono mantenersi neutrali;

Enea riuscì invece ad allearsi con il popolo degli Etruschi e con Evandro, un vecchio sovrano proveniente dalla regione dell’Arcadia che si era stanziato con i suoi sudditi sul colle del Palatino.

Lo scontro tra Rutuli e Troiani è argomento dei Libri VII-XII dell’Eneide virgiliana; non è certamente possibile raccontare, in questo libro, tutte le gesta e le battaglie che ebbero luogo durante la guerra: lasciamo al lettore più curioso la gioia di leggere della morte eroica di Eurialo e Niso, due giovani guerrieri Troiani che fecero incursione nel campo nemico;

delle imprese di Camilla, la vergine regina dei Volsci, alleata dei Rutuli; del duello tra Turno e Pallante, il giovane figlio di Evandro, conclusosi con la tragica morte di quest’ultimo.

 A noi basterà sapere che la guerra, in pieno stile epico, venne risolta con un duello finale tra Enea e Turno, i due contendenti principali; quando i due eroi si trovarono faccia a faccia, gli dei decisero di non intervenire: Zeus ancora una volta pesò sulla sua bilancia d’oro il destino dei due eroi e le Moire decretarono la sconfitta per il re dei Rutuli.

Anche la dea Hera si rassegnò ad interrompere le sue trame e chiese al consorte un’ultima grazia: che, d’ora in poi, la stirpe dei Troiani non venisse più nominata nelle fonti e i discendenti di Enea fossero conosciuti dalla storia solamente con l’appellativo di Romani.

Zeus acconsentì e, un istante dopo, Enea riuscì a ferire mortalmente Turno: sguainata la spada per sferrare il colpo fatale, egli stava quasi per risparmiare il nemico vinto, quando si avvide che il re dei Rutuli indossava ancora il cinturone strappato a Pallante dopo il duello fatale;

nel ricordo dell’amicizia che l’aveva legato al figlio di Evandro, Enea non esitò più e affondò la spada nel petto di Turno, ponendo così fine alla guerra e conquistando definitivamente la mano di Lavinia.

 

[1]    Secondo un’altra tradizione più tarda, Antenore ebbe salva la vita perché tradì i suoi compatrioti; per tale motivo Dante Alighieri chiama “Antenora” il cerchio infernale dove vengono puniti i traditori della patria.

 

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di Daniele Bello

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