Re Artù. I cavaleri della tavola rotonda – 1 di 3

I cavalieri della tavola rotonda

Re Artù, figlio di re Uther Pendragon, è una delle figure più importanti dell’immaginario medievale: egli appare spesso, nelle leggende e nei poemi di cui è protagonista, come l’emblema del monarca ideale sia in pace sia in guerra.

È il personaggio principale della cosiddetta “materia di Britannia” (si parla anche di “Ciclo bretone” o di “Ciclo arturiano”), che ispirò molti poeti dell’Età di Mezzo e delle epoche successive, mantenendo intatto il suo fascino sino ai giorni nostri[1].

 

1.

La spada nella roccia

La spada nella roccia

Vi fu un tempo, in Inghilterra, in cui secoli bui si succedettero perché i sudditi di quella terra non riuscivano ad avere un re che li proteggesse dai barbari che provenivano dal nord (i Pitti e gli Scoti) e dal mare (gli Angli, gli Juti e i Sassoni).

Le fonti riportano che, quando i Romani abbandonarono la Britannia per difendere le frontiere del Reno e del Danubio, tutta l’isola cadde in un periodo di anarchia; si racconta che fu il crudele Vortigern, un signore locale, a chiedere l’intervento dei Sassoni pur di garantirsi il dominio assoluto sull’Inghilterra.

Quando tuttavia egli volle sbarazzarsi di quegli alleati che stavano cominciando a diventare troppo scomodi, era ormai troppo tardi: i nuovi venuti avevano cominciato a chiedere rinforzi dalla madre patria e organizzavano scorrerie in tutte le isole Britanniche.

Per un certo periodo, le incursioni dei Sassoni vennero contrastate da alcuni coraggiosi condottieri, tra cui Aurelio Ambrosio (di stirpe romana) e Uther Pendragon, che giunse a fregiarsi del titolo di re.

Al tempo in cui Uther governava su tutta l’Inghil-terra, vi era in Cornovaglia un potente duca, signore di Tintagel, che gli faceva guerra da molti anni. Un giorno il re lo convocò a corte ma, quando il nobile giunse alla presenza del sovrano, questi si innamorò follemente della moglie del duca, la bella Igraine.

Poiché Uther Pendragon palesò in modo sfacciato la sua passione per la donna, il signore della Cornovaglia si allontanò sdegnato dalla corte del re inglese: tale oltraggio scatenò una guerra tra i due signori che sembrava non avere mai fine.

Poiché il desiderio di Uther non si sopiva, questi chiese aiuto al suo consigliere Merlino[2], famoso per le sue conoscenze delle arti magiche. Il mago si adoperò per soddisfare il suo sovrano, in cambio di una grazia: “Ecco cosa voglio, sire.

La prima notte che trascorrerete con Igraine concepirete in lei un figlio che mi farete consegnare appena sarà venuto alla luce. Io lo alleverò dove più mi piacerà, affinché a voi derivi onore e al bambino i vantaggi che gli spettano”. Il re accondiscese alla richiesta.

Merlino fece in modo che Uther riuscisse a prendere le sembianze del duca di Cornovaglia per una notte intera; così egli poté giungere al castello di Tintagel e giacere con la bella Igraine; quella notte, venne concepito un figlio cui venne poi dato il nome di Arthur Pendragon, ma che le generazioni successive conosceranno come Artù.

Allo spuntar del giorno, venne data la notizia che il duca di Cornovaglia era morto in battaglia: Igraine pianse la morte del marito e si chiese con grande stupore chi mai poteva essere l’uomo che si era coricato con lei con le sembianze del suo signore.

In seguito, venne conclusa la pace tra i nobili di Cornovaglia e il re d’Inghilterra, che venne sugellata con il matrimonio tra Uther e Igraine. Quando la nuova regina di Britannia mise alla luce un figlio, Uther la rassicurò raccontandole dell’inganno di Merlino e rivelandole così che era lui il vero padre di quel rampollo.

Come promesso, il bambino venne affidato alle cure di Merlino, il quale lo fece crescere presso il castello di un gentiluomo leale e fedele: sir Ector.

Due anni dopo re Uther si ammalò gravemente; i loro nemici ne usurparono i diritti, sferrarono battaglia ai suoi uomini e uccisero numerosi sudditi. Il re d’Inghilterra affrontò i suoi avversari sul campo di battaglia e li sgominò, ma la sua malattia si aggravò per cui egli ben presto ne morì.

Dopo la morte di Uther Pendragon, il regno restò a lungo in pericolo perché ogni signore di potenti armate si rafforzava e in molti ambivano a diventare re.

Alla fine Merlino consigliò all’arcivescovo di Canterbury di convocare tutti i nobili ed i gentiluomini d’arme a Londra per il giorno di Natale; tutti i baroni dell’Inghilterra accolsero l’invito e si riunirono nella più grande chiesa della città per pregare.

Nel camposanto dietro l’altare maggiore fu vista una grande roccia quadrangolare simile ad un blocco di marmo, che sorreggeva nel mezzo un’incudine su cui era infitta una spada. Attorno all’arma era scritto: “Colui che estrarrà questa spada dalla roccia e dall’incudine è il legittimo re di tutta l’Inghilterra”.

Tutti i nobili tentarono di estrarre la spada nella speranza di diventare re; ma nessuno riuscì nemmeno a smuoverla. Venne pertanto indetta una giostra ed un torneo per il primo giorno dell’anno, cui furono invitati tutti i cavalieri del regno: erano tutti convinti che il trionfatore sarebbe stato il degno vincitore della spada.

Il giorno di Capodanno, tutti i coraggiosi e valenti uomini dell’Inghilterra giunsero a Londra per torneare: tra di loro anche sir Ector accompagnato dal figlio sir Kay e dal giovane Artù.

Sir Kay era stato da poco ordinato cavaliere ed era quindi intenzionato a partecipare alla giostra; accortosi quando era in cammino di avere dimenticato la spada nei suoi alloggi, prego Artù di andargliela a prendere.

Artù si diresse verso la locanda nella quale dimoravano, per scoprire che era chiusa: tutti si erano infatti recati ad assistere al torneo.

Addolorato, egli si recò nel cimitero della chiesa londinese; scese di sella, legò il cavallo e si avvicinò alla tenda che riparava la spada nella roccia: quindi, afferrò l’impugnatura e la estrasse con uno strappo deciso, ma senza sforzo; poi riprese il cavallo e raggiunse il fratello Kay per consegnargliela.

Quando sir Kay vide la spada, la riconobbe subito; allora, si avvicinò al padre e disse: “Signore, ecco la spada della roccia. Dunque devo essere io il re di questa terra”.

Sir Ector osservò l’arma; quindi tornò indietro con i due giovani, entrò nella chiesa e ordinò a Kay di ripetere, davanti al Libro Sacro, come era entrato in possesso di quella spada, al che il figlio rispose: “Me l’ha portata mio fratello Artù, padre”.

Ector capì allora che il rampollo che Merlino gli aveva affidato era destinato a diventare il legittimo re del paese ed esclamò: “Ora fammi vedere se sei capace di riporre la spada dov’era e di tirarla fuori di nuovo”.

Artù non ebbe difficoltà a rinfilare la spada nella roccia; più tardi, alla presenza di tutti i baroni, il giovane figlio di Uther Pendragon estrasse nuovamente la spada dalla roccia, mentre tutti gli altri uomini d’arme che provano a cimentarsi nella stessa impresa fallirono miseramente.

Arthur Pendragon venne così acclamato sovrano di tutta l’Inghilterra e divenne famoso tra tutti i suoi sudditi e baroni come re Artù.

[1]     La letteratura dedicata alle gesta di re Artù è immensa; per i primi approfondimenti, si consiglia la lettura di: MALORY, Storia di re Artù e dei suoi cavalieri (2 voll.), Milano, Mondadori, 1988; BOULENGER (a cura di), I romanzi della tavola rotonda (3 voll.), Milano, Mondadori, 1988; CHRE-TIÈN de TROYES, I romanzi cortesi (5 voll.), Milano, Mon-dadori, 1992; ROLLESTON, I miti celtici, Milano, Longanesi, 1994, pp. 260-330.
[2]     Una delle figure più affascinanti ed enigmatiche di tutto il ciclo arturiano, Merlino è stato di volta in volta identificato con un erudito di lingua latina dei primi secoli dell’era cristiana ovvero con uno degli ultimi seguaci della cultura druidica. Negli Annales Cambriae viene citato un Myrddin Wyllt, un bardo che divenne folle a seguito dell’eccidio della battaglia di Arderydd e si ritirò in eremitaggio nella foresta di Brocelandia. Come spesso avviene nel mondo mitologico, è verosimile che la tradizione orale abbia fuso in un’unica figura più personaggi appartenenti a cicli diversi.

 

2.

La Tavola Rotonda

La Tavola Rotonda

Artù dovette, in primo luogo, consolidare il suo potere su tutta l’isola; per questo, egli si affidò ai nobili, ai baroni, ai cavalieri e ai valentuomini che gli avevano giurato subito fedeltà (tra i quali c’era suo fratello di latte sir Kay, destinato a diventare il suo siniscalco) e, con l’aiuto di Merlino, radunò un esercito per combattere i suoi oppositori.

Il re d’Inghilterra si procurò anche l’alleanza di re Ban di Benwick e di re Bors di Gallia; insieme a loro egli sconfisse duramente quanti non lo avevano riconosciuto come legittimo sovrano e consolidò il potere su tutta l’isola.

La guerra, risolta soprattutto grazie al valore di Artù e all’intervento delle magie di Merlino, raggiunse il suo culmine durante l’assedio del castello di re Leodegrance di Camelerd, che si era subito schierato a favore del Pendragon ed era stato per questo attaccato dai ribelli;

il giovane sovrano aveva rotto l’accerchiamento di soldati che si era formato attorno alle mura del suo alleato e aveva così salvato il re di Camelerd e la sua bellissima figlia Ginevra.

Dopo aver rinsaldato il suo potere, Artù prese in moglie proprio la figlia di Leodegrance, che gli portò in dote la famosa Tavola Rotonda, destinata a diventare celebre nei secoli a venire.

Attorno a quella tavola sedevano i migliori cavalieri del regno: la forma circolare stava a significare l’assenza di gerarchia tra i membri ammessi a quella congregazione; stretti da un patto di fedeltà con il sovrano, essi garantivano il rispetto dei valori della giustizia, della lealtà e della cortesia, ispirati anche da un forte attaccamento alla religione cristiana.

Con l’aiuto dei Cavalieri della Tavola Rotonda, re Artù riuscì a mantenere stabile e duraturo il suo regno, sconfiggendo a più riprese i Sassoni invasori.

Il figlio di Uther si rifiutò inoltre di versare il consueto tributo all’imperatore romano Lucio, che venne sconfitto in battaglia e costretto a prestargli omaggio nonché a dichiararsi suo vassallo.

Nel corso delle tante battaglie affrontate da Artù, la spada nella roccia andò in frantumi; per questo motivo, Merlino gli procurò una nuova arma dal nome leggendario: la famosa Excalibur, che Geoffrey di Monmouth chiamava Caliburn e che è probabilmente lontana parente della Caladbolg della mitologia irlandese[1].

Il mago riuscì a persuadere la Dama del Lago[2] a consegnargli una lama in grado di tagliare qualunque materiale; il suo fodero era in grado di rendere invincibile chiunque lo indossasse (nell’iconografia del mito, Artù ottiene la spada prendendola dalla mano della Dama, che uscì fuori da un lago per porgergli l’Excalibur).

Quando venne consolidata la pace in tutto il regno, Artù ed i suoi Cavalieri si adoperarono per mantenere giustizia ed armonia.

Essi si esercitavano in giostre e tornei e, periodicamente, giungevano al cospetto del sovrano, la cui corte si riuniva normalmente nella mitica reggia di Camelot; Artù ed i suoi vassalli erano soliti piantare le tende anche in mezzo alla brughiera, dove assi di legno venivano unite per ricreare la Tavola Rotonda.

Era costume, da parte del sovrano, ascoltare i propri cavalieri e udire da loro quali avventure avessero incontrato durante la loro assenza; anche alla corte di Artù si sviluppò l’arte di raccontare le gesta e le imprese degne di essere ricordate, creando un materiale che venne poi rielaborato nei secoli a venire.

Nacque così la figura del cavaliere errante, che andava per lande solitarie alla ricerca dell’ignoto e del misterioso, per riparare torti ed assicurarsi gloria imperitura. Tale spirito viene rappresentato in modo emblematico nell’opera di Chretien de Troyes, che mette in bocca queste parole al cavaliere Ivano e al suo interlocutore:

“Come vedi, sono un cavaliere che cerca ciò che non può trovare: la mia ricerca è stata lunga, ma vana”.

“E cosa vorresti trovare?”.

“L’avventura, per misurare il mio valore e il mio coraggio. Ti prego dunque, e ti domando vivamente, di indicarmi, se sai, un’avventura o una meraviglia”[3].

I cavalieri della Tavola Rotonda erano famosi anche per i loro sentimenti; le ardenti passioni per una spesso irraggiungibile donna amata divennero materia per i più grandi poemi del Medioevo; anche in questo caso lasciamo la parola a Chretien de Troyes, che così descrive il sentimento nei confronti di una dama:

Ormai conviene che io sia per sempre in suo potere, poiché tale è il comando di Amore. Colui che non accoglie Amore di buon grado quando questi l’attira a sé, commette tradimento e fellonia. Dico, e l’intenda chi vuole, che costui non ha diritto ad alcuna gioia”[4].

In un epoca in cui gli sposalizi venivano decisi per interesse o per stringere alleanze tra famiglie potenti, l’amore vero sbocciava spesso tra due persone non unite in matrimonio; si trattava, nella maggior parte dei casi, di amori impossibili, di grandi passioni che nascevano già nella consapevolezza della loro tragica ed inevitabile fine.

I due amanti anelavano di stare vicini, consapevoli che i momenti di gioia sarebbero stati brevi e inframmezzati da lunghi periodi di infelicità; si trattava, quindi, di storie malinconiche che parlavano di lacrime, di sospiri e di struggente lontananza e che i posteri ci hanno tramandato coniando la felice formula di “amore cortese”[5].

Tra i cavalieri della Tavola Rotonda vanno citati almeno i nomi più celebri: innanzi tutto i già noti sir Ector e Sir Kay, re Leodegrance, sir Ivano; e poi sir Sagramor, Sir Tor, sir Pellinor, re Lot, re Uriens, sir Erec, sir Lionel, sir Bors, sir Moroldo, sir Pelleas, sir Lamorak il gallese, sir Palamede il Saraceno, sir La Cotta Maltagliata, sir Alessandro l’Orfano, Sir Agravano, sir Gareth, sir Gaheris, sir Bedivere, sir Lucano il Maggiordomo, sir Dinadan, sir Galahad, sir Percival e tanti altri ancora.

Il primo tra tutti i cavalieri, tuttavia, fu senz’altro sir Lancillotto del Lago, la cui fama era destinata ad eclissare quella dello stesso Artù.

Figlio di re Ban e rimasto orfano in tenera età, egli venne allevato dalla Dama del Lago e diventò cavaliere all’età di diciotto anni. Ben presto divenne il più coraggioso, valoroso e fedele di tutti quanti i componenti della Tavola Rotonda.

In seguito, Lancillotto si innamorò della regina Ginevra ed iniziò con lei una relazione destinata a portare la rovina di Camelot e di tutta la sua corte.

Fra le sue molte imprese, si ricorda il salvataggio della regina, prigioniera nel castello di Meleagant; si racconta anche che egli venne sedotto dalla figlia del Re Pescatore (v. par. 3), che alcune fonti chiamano Elaine: con lei concepì Galahad, destinato ad avere un ruolo da protagonista nella ricerca del Graal.

Notevole anche la figura di Gawain (Galvano), nipote di re Artù; considerato uno dei cavalieri più prodi e valorosi, egli era leale al sovrano, difensore dei poveri e delle dame.

Secondo la leggenda, Galvano prendeva la sua forza direttamente dal sole: infatti, durante il giorno era pressochè impossibile sconfiggerlo, mentre la notte le energie lo abbandonavano.

Inizialmente estraneo alla materia di Bretagna, ma poi incorporato nel ciclo arturiano, era il personaggio di sir Tristano di Liones.

Nipote di re Marco di Cornovaglia, egli si innamorò (complice un filtro d’amore) della bella Isotta, destinata tuttavia a diventare la sposa di suo zio. I due vissero insieme una tormentata storia d’amore; quando vennero scoperti, Tristano e Isotta vennero condannati a morte, ma riescirono a fuggire.

Dopo tantissime vicissitudini, nel corso delle quali i due amanti furono costretti a separarsi, essi cercarono di ritrovarsi. A causa di un inganno ordito ai suoi danni, Tristano credette di essere stato abbandonato dalla donna che amava e si lasciò morire. Isotta, a sua volta, spirò per il dolore.

I cavalieri della Tavola Rotonda assicurarono per un lungo periodo pace e stabilità ma ben presto dovettero rinunciare ad un prezioso alleato.

Accadde infatti che Merlino si innamorò perdutamente di Nimue, una delle damigelle della Dama del Lago. Il mago la seguiva dappertutto, tentando più volte di sedurla con le sue arti sottili, ma la fanciulla si fece giurare che mai Merlino avrebbe fatto uso di incantesimi con lei, altrimenti non si sarebbe mai concessa.

Il mago e Nimue partirono assieme per la Cornovaglia e, nel corso del viaggio, egli le insegnò molte meraviglie. Avvenne quindi che un giorno Merlino mostrasse alla damigella una caverna che si sprofondava sotto una grande pietra

Nimue, mettendo in opera le arti che aveva apprese, indusse il mago ad entrarvi per mostrarle i prodigi che nascondeva; poi, fece in modo che egli non ne uscisse mai più e si allontanò lasciandolo prigioniero.

[1]    La parola Excalibur ha origini molto controverse, che possono farsi risalire a due ceppi linquistici ben differenti: quello latino e quello sassone. Dal latino abbiamo diversi significati, ma quello più plausibile deriva da un’antica popolazione di fabbri chiamati Calibi; Excalibur si può quindi scindere in due parole ex Calibi, quindi tradotto letteralmente il significato diventerebbe “forgiata dai Calibi”. Altre sfumature latine riportano alla capacità della spada e al suo aspetto come, per esempio, “ex calibro” che tradotto significa in perfetto equilibrio. Dal ramo celtico il nome deriverebbe da Caliburn, arcaico nome della leggendaria spada, che in antichità significava “acciaio lucente” o “acciaio indistruttibile”.
[2]     Figura enigmatica del ciclo arturiano, viene di volta in volta chiamata Viviana, Nimue, Niniane, Nyneve o Coventina e viene a volte identificata con la fata Morgana, sorella di Artù (tanto da far ritenere ad alcuni studiosi che le dame del lago fossero più di una, forse legate tra di loro da un rapporto di discendenza di tipo iniziatico); a questo personaggio vengono attribuite numerose gesta, dalla consegna della spada Excalibur sino all’adozione del cavaliere Lancillotto. Essa rappresenta l’eco di antiche culture celtiche o pre-celtiche, probabilmente contaminate con elementi greco-romani.
[3]     CHRETIEN, Ivano, Milano, Mondadori, 1992, p. 8.
[4]     CHRETIEN, Ivano, Milano, Mondadori, 1992, p. 23.
[5] La Chiesa Cattolica, inorridita da un tale concetto del sentimento, cercò di ricondurre l’amore cortese nell’ambito del sacro vincolo del matrimonio; il poeta CHRETIEN de TROYES, nelle sue opere “Erec e Enide” e “Cligès” si fece promotore di questo fine moraleggiante, ma il destino volle che gli amori più famosi del Medioevo (Lancillotto e Ginevra; Tristano e Isotta) fossero adulterini. La passione terrena prevalse infine sulla morale cristiana…

 

 

di Daniele Bello

 

 

 

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