Savina

1

Sta percorrendo il corridoio, le luci sono fioche e il brusio dei detenuti è vacuamente surreale, altrettanto gli appaiono le sbarre di ferro che scivolano al suo passaggio; ma nonostante questo l’intraprendente Benjamin Stane si sente vivo, eccitato e carico di adrenalina.

Sta per conoscere Savina Ivanova, l’unica donna tra i detenuti di quella prigione di massima sicurezza, il “Brisogne Aosta”, seppure solo per l’imminente trasferimento in un altro carcere.

È curioso che, in qualità di sostituto, abbia preso momentaneamente il posto dello psicologo penitenziario proprio in quella circostanza.

Per quanto il direttore lo avesse già avvertito con chi si sarebbe dovuto misurare, non aveva esitato un istante ad accettare l’impiego: lui era pronto a catapultarsi seriamente in quella professione per cui aveva speso notti insonni di studio e sopportato innumerevoli progetti senza retribuzione.

Quando il secondino che lo sta accompagnando apre la porta dell’aula d’incontro, Savina è già seduta sul tavolo posizionato al centro di quell’umida stanza intonacata con lo sguardo perso nel vuoto.

Benjamin chiede al secondino di lasciarli soli e dopo essersi tolto il suo cappotto di lana scuro, che come sempre riesce a camuffare bene l’ evidente gracilità fisica e rendere meno evidente la magrezza del suo viso, le si siede davanti fotografando con molta cura il suo aspetto.

Capelli fulvi e tigliosi, una corporatura così esile da sembrare ancora una bambina sbarazzina, anche se il completo azzurrognolo da carcerato non mantiene integra l’innocente apparenza.

Quando lo sguardo triste e vacuo di Savina sbadatamente si muove per osservarlo, il ragazzo sa che può cominciare.

Dopo la dovuta presentazione gli rammenta per quale motivo si trova lì: è stata condannata per aver brutalmente ucciso il suo fidanzato; ma non le pone alcuna domanda.

La ragazza rimane in silenzio fino alla conclusione del monologo che il giovane psicologo sente respingere a ogni parola, anche soltanto con la sua forza d’espressione e con i delicati movimenti corporali. Lui, comunque, riesce ad analizzarli e a conoscere ogni dettaglio, come le tasche del suo fidato cappotto, anche se solo una cosa non poteva prevedere.

Alzandosi per andare un momento in bagno, Savina lo trattiene per un secondo sollevando le mani, dapprima nascoste sotto il tavolo, e poggiandovi una piccola forcina per capelli.

«È la cosa più importante che mi rimane» mormora piangente «Ti prego, non farmela portare via!».

2

Quando Benjamin torna, Savina riprende a parlare. Ha un accento nord orientale e, nel giro di pochi minuti, gli racconta di sua sorella, un agente di polizia in servizio nei pressi nella Kolima in Russia.

Quanto le manca! Ma oltre questo non proferisce alcuna parola sulla morte del suo ragazzo e, tanto meno, perché fosse importante quella sua piccola forcina.

«E tu, Benjamin» chiede poi Savina con melliflua disinvoltura  «ce l’hai una famiglia?»

Una domanda incoerente seppure prevedibile. «Non ne ho ancora una tutta mia» risponde con un sorriso scaltro toccandosi i capelli biondi «ci devo lavorare… ma per quanto ne so tu eri già a buon punto, invece: stavi di lì a poco per sposarti, se il profilo che ho letto nel tabulato non mi inganna, e avresti potuto crearti una famiglia se non avessi ammazzato il tuo uomo»

Silenzio.

L’attacco è efficace, ma non per molto: gli occhi del bel visino di Savina, dapprima mortificati, si allargano di collera. «Sono un po’ confusa, Ben» sibila con freddezza e chiamandolo con un confidenziale diminutivo «sei uno psicologo oppure un poliziotto del cazzo?»

«Scusami tanto» dice Benjamin beffardo e alzando i palmi delle mani. «Ma, di fatto, mi pagano per capire per quale motivo hai fatto ciò che hai fatto e cosa ti passa per la testa… Dimmi» continua, mentre lei dondola nervosamente sulla sedia «con l’istinto suicida che ti ammorba da quando sei stata lasciata la prima volta da un ragazzetto del liceo, credi che aver ucciso un uomo ti abbia in qualche modo… riappacificata? No, Savina: hai preso in giro tutti, i tuoi amici, il tuo compagno e te stessa. Perciò, se credi di poter prendere in giro anche me ti… »

«Quando sei uscito hai detto a qualcuno della mia forcina?» lo interrompe lei.

Benjamin ammutolisce «No, non l’ho detto a nessuno» risponde poi con calma: non avrebbe di certo fatto male a nessuno con quella.

«Bene» dice lei, facendo un respiro profondo «ora ti farò vedere che c’è nella mia testa» prosegue fissando intensamente la forcina sul tavolo, e in meno di un secondo il giovane psicologo trasale terrorizzato nell’accorgersi che Savina si sta gradualmente colorando d’un aura tetra, nera come la morte, e che il piccolo oggetto si sta sollevando pigramente per rimanere sospeso a mezz’aria «… e perché ho fatto quel che ho fatto» conclude.

3

La porta è bloccata, Benjamin la prende a pugni gridando di voler uscire, è incredulo, spaventato… Poi, Savina esala un risolino che lo fa raggelare.

«Non ti sentono» dice leziosamente lei con la forcina ancora sospesa davanti ai suoi occhi «che ti prende, te la fai addosso stavolta?»

Savina scoppia in un folle e beffardo sghignazzo.

«Come può essere possibile?» gracchia Benjamin voltandosi su di lei «Che sta succedendo?»

«Effetti collaterali» recita Savina alzandosi. La sua sacca di morte sembra amplificarsi «Lo avrai sentito dire»

«Ma cosa sei…» dice lui con la voce che gli si strozza in gola nell’osservarla nuovamente: non le sembra più umana.

Savina si avvicina, il suo cambio d’umore è repentino, ma Benjamin non si smuove: oltre a quella della paura, avverte una strana sensazione di curiosità nel profondo dell’anima. «Non lo so più» risponde lei con tristezza, tornando improvvisamente a singhiozzare «per questo sono qui».

Del tutto inaspettato, la paura del ragazzo si trasforma in perplessità e nei suoi occhi appare una leggera scintilla di meraviglia «Come riesci a farlo?» le chiede cambiando discorso e indicando la forcina oscillante.

«La mia testa» risponde lei «può fare questo»

È incredibile: Benjamin è testimone di un fenomeno sovrannaturale, di un potere manifestato per conto della sua psicosi o, forse, della sua natura ostile e malata. «È per questo che hai ucciso il tuo ragazzo?» chiede febbrilmente «aveva scoperto quello che c’è nella… tua testa?»

«No» sibila cominciando a piangere e le sue lacrime sembrano strisce di rugiada insozzate. Sono annerite, le vede bene mentre le rigano di nero le guance. «l’ho scoperto solo quando l’ho fatto» continua digrignando i denti nel pianto sempre più rovinoso «quando gli ho spaccato quella patetica testa di cazzo! Lui non era niente, anzi meno di niente, era solo… un mezzo»

Il ragazzo comincia a girargli intorno e, suo malgrado, è affascinato. «Per quale fine?» mormora.

«Credi che sia un caso che tu sia qui, proprio al mio arrivo?» sibila lei «Non ti è chiaro, Ben? È perfetto: sono stata trasferita qui, nel posto giusto al momento giusto, per poter incontrare te!».

4

Savina e Benjamin si contemplano, comunicano con un linguaggio che va oltre il pensiero; si scambiano tante, troppe emozioni, come fossero aliti ramati dall’aria torbida che ha invaso la stanza, poi d’un tratto la forcina comincia a girare.

Le palpebre tremolanti della ragazza si abbassano come se stessero crollando dal sonno, poi Benjamin le prende il viso con entrambi le mani. «Perché?» sussurra  con gli occhi sgranati e perduti nella sua aura oscura.

«Anch’io sono niente, Ben» dice Savina come risposta, poggiando con leggerezza le piccole labbra sul suo mento  «Solo un tassello del puzzle… Ora capisco che, prima o poi, ci avrebbe fatto incontrare»

«Chi?» lo segue lui con le parole «Cosa ci avrebbe fatto incontrare?» aggiunge correggendosi.

Le mani di Benjamin si allontanano dal suo viso e le labbra di Savina scivolano fino al suo orecchio. A due metri da loro, la forcina sta mulinando a gran velocità.

«La Penombra» gli sussurra lei  «è padrona della mia anima, riesco ad avvertire ogni suo intento, tutta la sua potenza, il suo vasto universo pulsante; e si impadronirà ancora di altre anime».

Milioni di domande stanno ronzando nella mente di Benjamin, ma solo alcune si susseguono in continuazione: che cos’è la Penombra? Un delirio? Una  malattia? Una dannazione? Una possessione?

Forse è un incubo, solo un…

«Il tuo prossimo impiego sarà di estrema importanza» geme improvvisamente Savina guardandolo dritto negli occhi. Ora è debole, le palpebre sono quasi chiuse e il naso le sta sanguinando «sarà un adolescente, sarà lui che dovrai aiutare, non me. Dovrai proteggerlo, anche a costo di ingannarlo o tradirlo, ma dovrai fare in modo che non venga distrutto come sta capitando a me!» continua lei, boccheggiando «Dovrai affrontare il…»

Savina sviene, Benjamin cerca di sorreggerla ma il suo corpo è pesantissimo. Cadendo a terra, la ragazza mormora frasi incomprensibili, il sangue le esce da ogni orifizio del capo e il ragazzo, raccapricciato, capisce che qualcosa la sta uccidendo da dentro. Non può fare nulla per salvarla. «Che cosa!?» grida disperato con gli occhi densi di lacrime.

Nella più totale agonia e nei balbettii deliranti di Savina riesce a comprendere solo tre parole: «…Cuore… di… Dio». Poi, delicatamente spira e la forcina, rallentando la rotazione, ricade sul tavolo.

5

Ci vogliono tre uomini per strapparlo dal corpo senza vita di Savina mentre le urla di dolore echeggiano in tutto il penitenziario turbando la serenità anche del peggiore assassino.

Viene trascinato nel corridoio verso l’ingresso, le sbarre di ferro scorrono di nuovo, più velocemente, e stavolta sono decorate da braccia esagitate e volti spaventati.

Il dottore di prigione è costretto a somministrargli una dose massiccia di tranquillante e dopo cinque minuti Benjamin crolla sopra un giaciglio improvvisato nell’ufficio del direttore. Quando si sveglia ha la mascella indolenzita, gli occhi gonfi e l’anima a pezzi.

Il direttore arriva dopo un’ora, informato di quanto accaduto chiama immediatamente le autorità competenti. Con una coperta sulle spalle e una tazza di tè che non sorseggerà mai, rimane seduto di fronte l’ispettore di polizia rispondendo alle sue domande con tutta la lucidità che si può permettere: stava iniziando la terapia, la detenuta ha avuto un malore ed è morta prima che potesse chiamare aiuto.

La sua versione è credibile ed è una fortuna che in quella stanza non ci sia alcuna telecamera di sorveglianza. Conclusasi la conversazione, portano via il corpo di Savina, Benjamin segue con lo sguardo la barella in cui è stata adagiata e coperta da un telo bianco fin quando non scompare al di là dell’ingresso.

Prima di andarsene, l’ispettore lo ringrazia per il tempo che gli ha concesso  aggiungendogli di rimanere a disposizione nel caso emergesse qualcosa d’insolito dall’autopsia della ragazza, poi il direttore, rammaricato, gli stringe la mano dicendogli di farsi forza; ma cosa ne poteva sapere di quanta forza era stato testimone dentro quella stanza quando Savina gli aveva mostrato la propria terribile condanna e rivelato il suo destino.

Passa una settimana, il trauma subìto lo ha completamente alienato dal resto del mondo; ma qualcosa in lui è profondamente cambiato, c’è un punto di non ritorno nella sua coscienza: deve combattere ciò di cui è venuto a conoscenza, “Penombra” o “Cuore di Dio” che fosse, un potere arcano e nefasto celato nel profondo dell’inconscio umano.

E ora, come ogni giorno dopo la morte di Savina, attende di essere chiamato per il suo prossimo impiego, la sua  nuova opportunità.

Poco dopo, finalmente il telefono squilla e quando alza la cornetta lo fa con assoluta tranquillità: chiamata dai servizi sociali, gli viene proposto di occuparsi di un diciannovenne che ha perso tragicamente i suoi genitori, il suo nome è Martin Loris Dei.

La sua risposta è istantanea, la sua volontà assoluta.

 

di Ivano Petrucci

Ottobre 1, 2017

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