Sigurd, l’ammazzadraghi – 1 di 2

Sigurd (noto anche in Germania come Sigfrido) è l’eroe nazionale della mitologia nordica; delle sue gesta esistono testimonianze già nell’Edda poetica, una delle opere più antiche della poesia scandinava, risalente all’Alto Medioevo.

La storia venne poi rielaborata nella Saga dei Volsunghi e nell’Edda di Snorri, componimenti in prosa di epoca più tarda ma sempre riconducibili alla cultura nordica.

Della leggenda si impadronì la cultura germanica e anglo-sassone; il Beowulf contiene un riferimento esplicito alla storia di Sigurd, nella quale l’impresa della lotta contro il drago è attribuita al padre Sigmund;

nel XIII sec. d.C. la materia venne rielaborata da un anonimo scrittore tedesco, autore del poema epico I Nibelunghi;

nonostante l’opera appartenga ad un periodo relativamente recente rispetto alla genesi del mito, essa mantiene un forte carattere arcaicizzante, soprattutto nella prima parte, e conserva intatta la genuinità del-l’eroe protagonista.

Le vicende che andremo a narrare non mancheranno di dare ispirazione anche in epoche più recenti, soprattutto con l’imporsi della sensibilità del Romanticismo: citiamo tra tutte la maestosa opera musicale di Richard Wagner (“L’anello del Nibelungo”).

Nel secolo scorso, anche un giovane JR.R. Tolkien dedicò un poemetto alle gesta di Sigurd, pubblicato solo di recente[1].

Nel mettere per iscritto questo mito intramontabile, si terrà conto prevalentemente della versione scandinava della leggenda, salvo poi citare alcuni passi di altri poemi, laddove contengano spunti narrativi più interessanti.

[1]     Per approfondimenti si rimanda alla lettura di: ISNARDI, I miti nordici, Milano, Longanesi, 1996, pp. 379-400; Anoni-mo, Beowulf, Torino, Einaudi, 1995, pp. 75-77, vv. 875-925; AA.VV., Antiche saghe nordiche, La saga dei Volsunghi, Milano, Mondadori, 1997, pp. 77-208; SNORRI, Edda in prosa, Milano, Rusconi, 1988, pp. 181-192; Anonimo, I Nibelunghi, Milano, TEA, 1988; TOLKIEN, La leggenda di Sigurd e Gudrun, Milano, Rusconi, 2009.

SIGURD

l’ammazzadraghi

Sigurd uccide il drago Fafnir

1.

Il Guidrigildo di Otter

 

Nelle epoche antiche, quando i numi si recavano presso le dimore dei mortali per conoscere il mondo, il padre di tutti gli dei Odino stava passeggiando nel Midgard[1] assieme al fratello Hoenir e al subdolo Loki, il signore degli inganni.

Essi stavano camminando lungo la riva di un fiume e giunsero sino ad una cascata presso la quale vi era una lontra che stava mangiando un salmone appena pescato.

I tre dei erano piuttosto affamati, ragion per cui Loki sollevò una pietra e la tirò colpendo in testa entrambi gli animali.

I numi portarono con sé le prede e si misero in cammino, giungendo presso una fattoria abitata dal potente Hreidhmarr, noto usufruitore di magia; qui, essi chiesero ospitalità per la notte e, affermando di avere provviste sufficienti a sfamare tutti, esibirono il salmone e la lontra.

Il fattore, alla vista dei due animali, chiamò i suoi due figli Fafnir e Reginn, i quali piombarono addosso ai tre dei e li legarono; i numi vennero accusati di omicidio, avendo essi ucciso Otter, il terzo figlio di Hreidhmarr; quest’ultimo, infatti, era dotato della capacità della metamorfosi e amava spesso mutare forma e andare a caccia presso la cascata.

Per avere salva la vita, gli dei dovettero pagare un guidirigildo[2]: la lontra venne scuoiata e Hreidhmarr affermò che ci sarebbe stata riconciliazione solo se i numi fossero stati in grado di ricoprirla tutta di oro rosso.

Loki venne così liberato ed inviato a procurarsi l’oro: questi giunse presso un nano che si chiamava Andvari e che era famoso per essere il possessore di grandi ricchezze.

Il signore degli inganni riuscì a catturare il nano mentre si procurava il cibo in forma di luccio (il dono di cambiare forma era, evidentemente, piuttosto diffuso tra gli antichi…); come prezzo per la vita e la libertà, Andvari dovette consegnare tutto l’oro che possedeva.

Quando giunsero alla sua tana nella roccia, il nano consegnò i suoi tesori ma cercò di trattenere per sé un piccolo anello d’oro; Loki se ne avvide e gli ingiunse di consegnare anche quell’oggetto prezioso.

Andvari pregò il dio di lasciargli il monile perché grazie a quell’oggetto avrebbe di nuovo potuto accrescere le sue ricchezze, ma Loki intascò l’anello e rispose con asprezza che da quel momento in poi il nano non avrebbe dovuto possedere neppure una moneta.

Andvari allora maledisse il suo tesoro e proclamò che quel monile sarebbe stata la rovina di chiunque l’avesse posseduto.

Loki tornò quindi da Hreidhmarr e mostrò a Odino l’anello maledetto: questi lo trovò molto bello e lo tolse dal mucchio; quindi, i tre dei si apprestarono a ricoprire la pelle della lontra con l’oro trafugato.

Il fattore constatò che l’animale non era stato totalmente ricoperto perchè spuntava ancora un baffo, per cui Odino dovette tirar fuori il gioiello di Andvari per nascondere i peli; da quel giorno, presso i popoli del nord l’oro viene declamato dai poeti anche come “il guidrigildo della lontra”.

La maledizione del nano, intanto, cominciò a sortire i suoi primi effetti: i figli di Hreidhmarr, infatti, pretesero dal padre una parte delle ricchezze ma questi rifiutò decisamente; i due fratelli allora concepirono un piano malvagio e così uccisero senza pietà il loro genitore, per impadronirsi del tesoro di Andvari.

In seguito, la discordia si impadronì anche dei discendenti di Hreidhmarr, che vennero a lite non intendendo spartire l’oro in parti uguali. Alla fine, Fafnir minacciò il fratello, ingiungendogli di lasciare la terra natia se non voleva raggiungere il padre nel regno dei morti; Reginn, essendo il meno forte e il meno coraggioso della stirpe, preferì andare in esilio.

Fafnir, che condivideva con il fratello defunto il dono di cambiare forma, portò con sé l’oro nel Gnitaheidr (la “piana dei detriti”), dove si preparò una tana; quindi, si trasformò in un enorme drago e lì giacque a perenne guardia delle enormi ricchezze, che già gli antichi cominciavano a chiamare come “il Tesoro del Nibelungo”[3].

 

2.

I Volsunghi

 

La nostra storia si sposta ora in un altro remoto angolo della Scandinavia, dove visse il grande re Volsungr, figlio di Rerir e nipote di Sigi.

Questo sovrano venne allietato dalla nascita di ben dieci figli maschi e di una bellissima figlia, cui venne dato il nome di Signy.

Accadde dunque che a chiedere la figlia di Volsungr in sposa fosse un re di nome Siggeir, famoso per il suo potere e la sua ricchezza ma anche per la sua crudeltà; il matrimonio parve comunque buono alla famiglia dei Volsunghi, per cui esso venne celebrato con tutti gli onori.

Durante i festeggiamenti, giunse uno sconosciuto con un occhio solo, coperto da un mantello senza maniche, a piedi nudi e con calzoni di lino: sul capo aveva un cappello, che ne nascondeva a stento il viso[4];

costui teneva in mano una spada e avanzò fino ad un albero di melo che si trovava all’interno della reggia di Volsungr: quindi conficcò l’arma nel tronco ed esclamò: “Colui che sarà capace di estrarre questa spada l’avrà in dono da me ed egli stesso confermerà di non avere mai avuto tra le mani una lama migliore”.

Tutti provarono ad impadronirsi dell’arma, ma solamente il primogenito di Volsungr riuscì ad estrarla: questi era Sigmundr, un guerriero destinato ad un futuro glorioso.

Dopo i festeggiamenti, Siggeir portò con sé la sposa nei suoi possedimenti, ma invitò i Volsunghi a raggiungere la sua corte in capo a tre mesi.

Al tempo stabilito, Volsungr e i suoi raggiunsero le terre del genero; essi vennero attaccati durante una imboscata ordita da malvagio Siggeir: il re venne ucciso e i suoi figli vennero incatenati nella foresta per essere divorati dai lupi.

Il destino, tuttavia, volle che a salvarsi da questo terribile supplizio fosse Sigmundr, il quale visse a lungo nella foresta, rifocillato dall’infelice sorella, sempre in attesa di realizzare la sua vendetta. Quando riprese del tutto le forze, egli giunse alla corte di Siggeir e vi appiccò il fuoco, causando la morte dell’odiato cognato e di tutto il suo seguito; anche Signy, tuttavia, perì nel rogo che aveva provocato.

In seguito, Sigmundr tornò nelle sue terre e si riprese il trono del padre, che era stato usurpato da un traditore; egli rimase a governare il suo regno per molti anni e venne a lungo considerato il miglior guerriero e il miglior sovrano.

Sigmundr si recò quindi nella terra dei Franchi per prendere in sposa Hjördís, figlia del re Eylimi, con la quale concepì un figlio maschio.

Si narra che Sigmundr morì in battaglia da valoroso prima che la moglie partorisse e che, sul punto di spirare, egli preannunciò alla consorte che avrebbero avuto un erede; il grande sovrano e guerriero affidò a Hjördís i frammenti della sua spada andata in pezzi, perché da essi sarebbe stata forgiata una nuova lama.

La vedova riparò quindi presso la corte di re Alfr, che sposò in seconde nozze, e partorì un figlio cui venne dato il nome di Sigurdr (ma che, per comodità, noi chiameremo Sigurd, che risulta più facile a pronunciarsi; ci basti inoltre sapere che nelle terre di lingua germanica egli divenne famoso come Sigfrido).

 

[1]     Antico nome nordico per designare il mondo degli uomini; il significato letterale è “Recinto nel mezzo”, o anche “Terra di mezzo”.
[2]     Nel diritto delle popolazioni nordiche e germaniche, il guidrigildo era un modo per espiare un delitto (in genere, un omicidio) e consisteva nel pagamento di una somma di denaro o di altri beni di valore; in tal modo, il reo si riconciliava con la parte offesa o con i suoi eredi, evitando lunghe e sanguinose faide.
[3]     Letteralmente, il termine Nibelunghi significa “abitanti dell’oscurità” ovvero “esseri della nebbia” e si riferisce proba-bilmente agli Elfi Oscuri (i Nani), i primi custodi del tesoro; in seguito, tale appellativo venne esteso a tutti i possessori del’oro di Andvari sino a divenire un epiteto del popolo dei Burgundi.
[4]     I cantori riferiscono che questo era uno dei modi in cui era solito presentarsi ai mortali il signore di tutti gli dei, il grande Odino.

Sigurd

3.

Sigurd e il drago

Il giovane Sigurd venne adottato dal suo patrigno e crebbe forte e coraggioso: i suoi occhi acuti ne rivelavano la profondità d’animo ed egli era superiore ai suoi coetanei in ogni cosa. Il caso volle che il padrino del giovane rampollo dei Volsunghi fosse proprio Reginn, figlio di Hreidhmarr, che ancora si struggeva per riprendere possesso di quell’immenso tesoro che suo fratello gli aveva sottratto.

Reginn rivelò a Sigurd il segreto del tesoro custodito da Fafnir, che era così posseduto dalla brama dell’oro al punto da impazzire: mai, infatti, egli si era allontanato dal tesoro, che continuava a custodire in forma di drago.

Per compiere l’impresa, Reginn forgiò due spade ma Sigurd le rifiutò perché esse si erano infrante quando il giovane guerriero le aveva provate contro la pietra; Sigurd affidò allora al fabbro i frammenti dell’arma che era stata di suo padre: questa volta, Reginn riuscì a trarre dalla fucina una spada cui venne dato il nome di Gramr;

il figlio di Sigmundr capì che quella lama l’avrebbe aiutato a compiere grandi imprese quando riuscì a tagliare di netto in due un ciuffo di lana e quando fendette l’incudine del fabbro sino al ceppo.

Sigurd e Reginn si recarono quindi nella piana dei detriti per uccidere Fafnir; il valoroso eroe aveva il privilegio di montare il mitico cavallo Grani, che si dice discendesse addirittura da Sleipnir, la cavalcatura di Odino; egli scavò una buca lungo la via percorsa dal drago mentre usciva dalla tana per raggiungere l’acqua.

Sopraggiunse allora un vecchio da un occhio solo per chiedergli cosa stesse facendo; questi ascoltò la risposta di Sigurd ed esclamò: “Questo è un cattivo consiglio. Scava diverse buche e lascia che il sangue vi scorra dentro; tu mettiti in una e colpisci la serpe all’altezza del cuore”.

Quando Fafnir venne strisciando verso l’acqua sputando veleno, egli passò sopra la buca in cui si era nascosto Sigurd; questi vibrò un colpo micidiale con la spada e gli inferse una ferita mortale. Il drago si scosse muovendo la testa e la coda e, prima di spirare, ammonì il suo assassino: mai avrebbe dovuto prendere possesso del tesoro, per non essere vittima della maledizione di Andvari.

Seguendo il consiglio dell’uomo con un occhio solo, Sigurd si immerse nel sangue del mostro ucciso, diventando così invulnerabile; a rimanere indifesa, fu solo una parte della schiena in mezzo alle scapole, che non venne sfiorata dal liquido vitale del drago perché una foglia si era posata sulla pelle dell’eroe durante l’abluzione.

Giunse nel frattempo Reginn, che si era tenuto in disparte durante lo scontro, il quale chiese a Sigurd di arrostire sul fuoco il cuore del drago; quindi, il fabbro bevve del sangue del fratello e si pose a dormire.

Il figlio di Sigmundr estrasse il cuore dal mostro e si mise a cuocerlo sullo spiedo; quando ritenne che fosse ormai cotto, egli lo toccò con un dito ma il sangue gli colò sulla pelle e lo scottò: istintivamente, l’eroe si mise il dito in bocca ma, quando il liquido vitale del drago toccò la lingua di Sigurd, questi divenne capace di comprendere il linguaggio degli uccelli e intese cosa stavano dicendo i volatili appollaiati sugli alberi:

            “Là siede Sigurd

            macchiato di sangue,

            il cuore di Fafnir

            sulla fiamma arrostisce;

            saggio mi parrebbe

            donatore di anello

            se il muscolo della vita

            splendente mangiasse”.

 

            “Là sta Reginn

            e rimugina fra sé,

            vuole ingannare il giovane

            che ha fiducia in lui;

            medita nell’ira

            false parole,

            vuole, quel fabbro di mali,

            vendicare il fratello”[1].

 

Il giovane, avendo ascoltato ciò che avevano detto gli uccelli, riuscì a voltarsi appena in tempo per scorgere Reginn che tentava di ucciderlo; in un attimo, Sigurd brandì la spada e mozzò il capo del subdolo fabbro.

Il figlio di Sigmundr si recò quindi nella tana di Fafnir e afferrò a piene mani l’oro di Andvari; quindi, egli saltò in groppa a Grani e si allontanò.

[1]     SNORRI, op. cit., p. 185.

 

 

 

di Daniele Bello

Luglio 18, 2017

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