Il sogno di Kaddour

Su un piccolo promontorio che si protende nello stretto di Gibilterra, all’estremo nord del continente africano, c’è un lussuoso ristorante, il Dakhla.

Una costruzione compatta, dipinta di bianco e azzurro con una torre circolare composta di finestre in vetro oscurato, un luogo molto spettacolare, con un particolare fascino.

Dai suoi terrazzi è ben visibile la costa continentale, due continenti divisi solo da quello stretto braccio di mare che, da sempre, ha significato la fine del mondo conosciuto per i popoli del Mediterraneo.

Due mondi diametralmente opposti: da una parte l’Europa con la sua storia, la cultura e il potere; un insieme di nazioni spesso in guerra fra loro, ma unite nella ricerca di nuovi territori da conquistare e sfruttare.

Dall’altra le prime propaggini di un continente rimasto a lungo inesplorato, selvaggio e dal territorio ostile, facile preda dei conquistatori dell’altra sponda; un mondo dove era difficile vivere e dove il giovane Kaddour era nato, circa venti anni prima.

Adesso lavorava come sguattero nelle cucine del grande albergo ristorante. La sua esistenza era segnata da orari impossibili e da un duro lavoro che gli impediva di godere delle bellezze, tipiche della sua terra.

Entrava nelle cucine alle prime ore del mattino, per ripulire ciò che restava della prima colazione degli ospiti e usciva, quando già la notte aveva acceso le sue eterne luci nel cielo. Kaddour era stanco di quella vita, sognava ben altro.

Dalle storie che gli raccontavano, dalle immagini che vedeva in televisione si stava formando nella sua testa un sogno che diventava ogni giorno sempre più assillante, ossessivo e impellente. Voleva farla finita con quella vita fatta di piatti sporchi e d’avanzi.

Voleva godere di maggiore libertà, ricevere carezze di ragazze giovani come lui. Perché, si chiedeva, non poter avere un’esistenza pari ai ragazzi dell’altra sponda!

A chi gli rispondeva di trovarsi un altro lavoro, lui obiettava che non era facile trovarne altri soddisfacenti. Le uniche possibilità erano mettersi al servizio degli allevatori di cammelli o andare fra coloro che coltivavano le palme da dattero, una delle prime risorse del paese.

Le modeste condizioni della famiglia non gli avevano permesso di continuare gli studi, ma non era il lavoro il suo problema più grande, lui sognava l’Europa e quello che rappresentava. Vedeva intorno a se, un mondo diverso, cose che nel suo paese erano vietate, spesso sconosciute e molte volte desiderate.

Il Marocco per quanto evoluto e teso verso il progresso, restava fedele alle tradizioni, alla religione. Secoli di storia avevano creato un ambiente dove era complicato muoversi senza incorrere nei molteplici divieti che la religione imponeva.

Kaddour era fermamente deciso a partire verso quella costa che si vedeva all’orizzonte, stava cercando di risparmiare i soldi necessari per ottenere un passaggio su uno di quei barconi che facevano la spola verso la terra dei sogni.

La madre aveva capito le intenzioni del ragazzo e cercava, in tutti i modi, di dissuaderlo dal compiere un gesto irrazionale.

“Ti rendi conto”, gli diceva “di cosa vuoi fare? Non c’è motivo che tu vada laggiù, sarai un estraneo, non parli la loro lingua, sarai emarginato e non ti faranno certo lavorare, starai peggio di qua.

Posso capire che il lavoro che fai non ti piace, possiamo trovarne altro; sei a casa, nella tua terra, non c’è niente che ti minacci. Quelli che vedi andare via, scappano da qualcosa di veramente terribile, dalle guerre, dalla fame, per fortuna qui non c’è niente di tutto questo, hai una vita serena e tranquilla”.

“Troppo tranquilla, madre, io sono giovane e vorrei avere una vita che valga la pena vivere. Se ci sarà da soffrire sono pronto, il lavoro non potrà essere più duro di quello che faccio adesso. Io voglio essere libero di poter fare quello che desidero.

Tu li vedi in televisione i giovani dall’altra parte; vanno a scuola, studiano, vivono in case moderne, si riuniscono fra loro, si divertono, frequentano le ragazze e, soprattutto, gli anziani non intervengono sui loro comportamenti, non sono legati alla religione come noi”.

“Cosa dici figlio, non riconosci il nostro credo! Tu sei musulmano e la tua religione è questa, loro sono degli infedeli, non prendono sul serio niente, nemmeno il loro Dio”.

“Lo so madre, la nostra religione però è troppo rigida, è ferma a secoli fa, non si è mossa di un passo verso l’era moderna. Riesce difficile, quando il lavoro non te lo permette, mettersi a pregare alle ore stabilite e nel modo tradizionale.

Gli imam perchè non possono apportare un minimo di cambiamento, quel tanto che basta per adeguarsi ai tempi, non siamo più nel periodo che c’era solo il deserto con i cammelli e le palme, anche da noi la modernità è arrivata, e noi ci portiamo dietro ancora il tappetino per la preghiera, se preghiamo in piedi non è lo stesso?”

“Figlio! Non bestemmiare in mia presenza, come osi parlare in questa maniera? Se tuo padre lo viene a sapere è capace anche di ucciderti, lo sai vero? Non ti è permesso parlare così”.

“Vedi! Cosa ti dicevo, non ti è permesso è per questo che voglio andar via, non posso restare a vivere in un mondo che non condivido, che è lontano da me e dalle mie aspettative. Aiutami a raccogliere i soldi necessari, appena possibile partirò”.

La madre tacque, non disse altro, capì che il figlio era ormai perso. Se era convinto e con quelle idee era meglio che partiva. Il padre non avrebbe accettato una sola parola di quanto aveva detto, era capace davvero di ucciderlo, non si poteva mettere in discussione la religione.

Aiutato dai risparmi della madre e dalla sua complicità, due settimane dopo il giovane Kaddour era su una spiaggia libica, aspettando il barcone che doveva prendere il largo verso il continente, con lui c’erano centinaia di altre persone che, nel buio della notte, attendevano trepidanti il momento del distacco dalla propria terra.

Erano tre giorni che erano in navigazione nel Mediterraneo, erano diretti verso le coste italiane. La barca era sovraccarica, molti soffrivano il mal di mare. La puzza stava diventando insopportabile, vomito ed escrementi riempivano lo scafo.

Il quarto giorno qualcuno gridò di aver visto, all’orizzonte, una macchia scura, la terra era vicina.! L’eccitazione fece risollevare gli animi dei profughi. Kaddour stava abbastanza bene, era giovane e il mare non gli dava fastidio.

L’avvistamento gli aveva tirato su il morale, fra non molto avrebbe messo piede sul quel mondo tanto desiderato. D’improvviso però all’orizzonte si profilò la sagoma di un’imbarcazione militare, stavano per essere intercettati e questo, pensò, avrebbe facilitato le cose.

Le donne e i bambini presenti, sarebbero saliti a bordo della nave lasciando gli altri più liberi. Non appena la nave militare accostò il barcone, tutti si riversarono su quel lato, per chiedere acqua e per salire a bordo.

Fu l’onda di ritorno della scia che fece urtare i due natanti.

La barca con i profughi ondeggiò, s’inclinò in modo impressionante, coloro che erano rivolti verso la nave caddero in mare trascinando gli altri nella caduta. Una volta in acqua nel tentativo di risalire fecero capovolgere del tutto il natante che si ribaltò cadendo su di loro, sommergendoli e impedendo una qualsiasi risalita.

I marinai riuscirono a tirar su qualche decina di persone, ma tutti gli altri ormai erano stati inghiottiti dalle acque del Mediterraneo.

Kaddour, mentre il suo corpo svaniva nel buio degli abissi, lanciò un ultimo sguardo verso l’alto con la mano tesa verso il suo sogno, confuso nella luce tremolante della superficie che diventava sempre più debole, sempre più lontana.

di Lorenzo Barbieri

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