STORIA DEL LIBRO – L’origine della scrittura

 

Gli esseri umani si sono sempre sforzati di comunicare tra loro. Il primo sistema di registrazione è stato, ovviamente, la memoria umana, fondamento della tradizione orale. Per ovviare ai limiti di tale strumento, i popoli antichi hanno inventato un alfabeto e un sistema di scrittura.

L’alfabeto, in breve, è composto da un insieme di segni che restituiscono in forma grafica i suoni articolati in parole e prende nome dai primi due segni o lettere.

Ma anche l’alfabeto costituisce un’evoluzione di altre forme grafiche precedenti: come le primitive scritture pittografiche o ideografiche che, partite dalla rappresentazione figurata di simboli e di oggetti, si sono trasformate in una direzione nei geroglifici egiziani e per altre vie negli ideogrammi cinesi e giapponesi.

Il segno grafico rappresentò dapprima il suono di un’intera parola, poi affinandosi soltanto di una sillaba e infine di un’unica lettera. Il criterio di far corrispondere segni e parole fu introdotto nell’area mediterranea dagli egiziani; una delle sue prime fasi di evoluzione fu la scrittura cuneiforme, usata nell’antica Mesopotamia, da Assiri e Persiani.

Scrittura cuneiforme

Fu poi sviluppato in forma alfabetica a opera dei fenici: dal loro alfabeto derivarono in forme diverse quello greco, gli italici, l’ebraico, il siriaco, l’arabo. Nonchè quello latino, il più chiaro e diffuso di tutti. Alla cultura greca dobbiamo finalmente la diffusione della scrittura come patrimonio universale delle civiltà.

I Greci pensarono anche a un alfabeto musicale, primo tentativo di mettere per iscritto una scala di suoni, dove le lettere A B C D E F G corrispondevano alle note la , si, do , re , mi , fa , sol. Esportarono anche questa idea, naturalmente: ma fino a Guido d’Arezzo (XI secolo) non si può parlare di un modo articolato e convincente di scrivere i suoni musicali.

Il primo a incidere su una tavoletta d’argilla i dati da ricordare non fu un poeta (a dispetto di ogni romanticismo), bensì un protoragioniere che iniziò a incidere il computo di armenti, formaggi, anfore d’olio, estensioni di terreno e così via. Soltanto in un momento successivo è apparsa la figura del protointellettuale – poeta, sacerdote o storico che sia – e ha cominciato a registrare su identiche tavolette quelle idee e quei fatti meritevoli d’essere tramandati a futura memoria.

Geroglifici

Il libro nasce con la scoperta che dal fusto o dalla corteccia di alcune piante, debitamente trattati, si poteva ricavare un supporto flessibile per conservare più comodamente i segni della scrittura.

La pianta più importante tra queste è stata il papiro, originaria d’Africa e abbondantissima lungo le coste del Nilo, coltivata presso gli Egizi circa un paio di millenni prima dell’èra cristiana. Utile quanto lussureggiante: il rizoma era commestibile, le fibre si potevano utilizzare per tessere, ma soprattutto dal fusto, tagliato in liste assai sottili poi riunite in larghi fogli, si ricavava il supporto per la scrittura, che dalla pianta prese anche il nome.

Uno degli usi tradizionali della cultura egiziana fu il Libro dei Morti, un rituale funerario, che veniva posto nella bara del defunto, in cui erano scritte le formule sacre che l’anima doveva conoscere per conquistare la felicità eterna.

Resti del Libro dei Morti, Museo Egizio di Torino

La praticità, per i tempi, del papiro fece tramontare l’uso di altri sistemi e materiali, come rotoli di cuoio ebraici, gli ostraca di terracotta usati dai Greci e dagli Egiziani, i rotoli di tela di lino degli Etruschi e dei primi Romani (linteus).

I papiri venivano scritti in colonne affiancate su un solo verso (le paginae), e quindi arrotolati intorno a un cilindro di legno o d’osso (umbilicus). Per poterli leggere, colonna dopo colonna, bisognava svolgerli e da questa semplice operazione nacque il nome latino volumen (dal verbo volvere, avvolgere).

In questo modo ci sono pervenuti molti degli antichi testi, greci, latini ed ebraici. Il volumen è la forma più antica del libro manoscritto, in uso presso gli Egiziani, i Greci, gli Ebrei, gli Etruschi, i Romani; mancando di legatura, era protetto di norma in un astuccio cilindrico (scrinium) o in un’apposita cassetta (capsa).

Anche in Oriente si industriarono per produrre materiali da scrittura: i Cinesi ricorsero anch’essi a tavolette di legno incise e poi scritte prima di passare a rotoli di seta, gli Indiani adoperarono foglie di palma, ancora i Cinesi nel 706 trattarono il cotone e la seta per ricavarne una specie di carta (charta bombycina) portata anche in Occidente e utilizzata su larga scala fino all’invenzione della carta di lino nel XII secolo, resistendo a fianco di questa ancora per un paio di secoli.

I Romani da canto loro, sempre per motivi contabili, s’erano inventati il codex, tavolette ricavate dalla corteccia degli alberi e lavorate lasciando un bordo rilevato: all’interno del bordo veniva versata cera fusa sulla quale, una volta solidificata, si potevano incidere lettere e numeri con uno stilo appuntito. Le tavolette venivano unite con cordicelle a formare una specie di libretti chiamati, dal numero delle tavolette, diptycha, triptycha, polypticha.

Non essendo questo un sistema molto pratico ai fini della conservazione, i Romani appena riuscirono a copiarla adottarono la tecnica egiziana (chiamando il papiro biblos); a partire dal II secolo d. C. questo sistema fu affiancato nell’uso dal liber, che soppiantò anche nel parlare i termini volumen e codex.

Esempio di codice (codice Laurenziano 1377)

Il liber (libro) indica anche oggi una pellicola che si trova immediatamente sotto la corteccia degli alberi (come il platano, l’olmo, il tiglio, i più adatti a questo scopo) e che fu anch’essa lavorata e disseccata per usarla come supporto di scrittura; anche in questo caso il nome passò dalla pianta al prodotto, cioè un qualunque insieme di foglio scritti; a partire dal III secolo, fu anche il nome dei libri fatti col papiro non più soltanto arrotolato ma anche tagliato in fogli.

Il codex rimase in funzione fino al IV secolo, quando fu via via soppiantato dai fogli di pergamena, più pratici e resistenti, nonchè di costo e dimensioni inferiori, tagliati in forma quadrata o rettangolare e poi legati insieme a formare un libro: un uso generalizzato sul finire dell’Impero, fino a fare nel Medioevo del codice in pergamena l’unica forma di libro.

Nelle antiche età i nostri termini moderni di libro e manoscritto erano necessariamente equivalenti. Non bisogna però credere che la mancanza della stampa fosse tutt’uno con l’assenza dell’editoria e della organizzazione di vendita. Possiamo anzi dire che il commercio del libro è nato assai prima della stampa. Pur non essendoci la tecnologia, era possibile la moltiplicazione.

Gli antichi infatti disponevano degli schiavi (una forma primitiva di lavoro a basso costo), che sovente erano più colti dei loro padroni e sapevano scrivere e far di conto, in particolare gli schiavi conseguenti a conquiste belliche o a bancarotta.

Nell’evo antico, solo gli Ebrei s’erano assunti l’obbligo di eliminare l’analfabetismo, senza alcuna distinzione di censo, per poter studiare le Scritture Sacre; tra i Greci la situazione scolare era un po’ più elastica, ma tra i romani studiava soltanto che aveva mezzi.

I primi editori furono, a quanto sembra, autori che, preparate più copie di una propria opera, le vendevano in una ristretta cerchia di clienti e ammiratori.

Le cose cambiarono quando fu compresa l’utilità degli schiavi colti: romani intraprendenti tolsero loro la zappa di mano e inventarono il commercio librario dei bibliopolae: una forma arcaica di librai/editori, che da un lato assoldavano scrittori e poeti di professione, dall’altro davano incarico a copisti – schiavi al loro servizio (scribae) oppure liberti (librarii), il più volte greci – di riprodurre in molte copie, sotto dettatura collettiva, i testi dei letterati: un rapido sistema di produzione in serie, per sua natura causa inevitabile di errori a profusione (e Cicerone non mancò di bollare quest’alba del refuso, chiamandoli libraioli, scribacchini, quelli che li commettevano).

I bibliopolae rivendevano a caro prezzo i volumina con le opere più in voga per mezzo di una vasta organizzazione commerciale che presto invase l’Impero. Erano nati i best-sellers e la distribuzione.

È anche grazie a questa rozza forma di editoria se si sono salvati frammenti non esigui della cultura classica. I più antichi tra i manoscritti superstiti sono i papiri ritrovati nelle tombe egizie; dopo vengono i rotoli romani ritrovati a Ercolano; seguono quelli dell’epoca imperiale romana, tra cui i codici vaticani di Terenzio e della Bibbia dei Settanta, nonchè i codici biblici del British Museum.

Risale agli anni ’90 il ritrovamento a Qumran, che ha destato molto scalpore, dei manoscritti ebraici  di eccezionale interesse databili ai secoli I-II a. C.

Manoscritti di Qumran

Tra i copisti, soprattutto nei primi secoli dell’era cristiana, era cospicua la presenza femminile. In particolare quando nel 231 Origene si impegnò nella revisione del testo dell’Antico Testamento, sant’Ambrogio gli inviò come collaboratori un certo numero di diaconi e di vergini abilissimi nella scrittura calligrafica. Anche da situazioni come questa si sviluppò poi l’esperienza monastica che fu particolarmente brillante con i benedettini.

Tra i primi a promuovere questa attività nei loro monasteri furono san Martino di Tours, sant’Onorato di Arles, il monaco Cassiodoro che ispirò a san Benedetto la fondazione di Montecassino, il massimo centro culturale dell’Italia di quel periodo.

In seguito alla decadenza della vita sociale e culturale conseguente alla calata dei barbari, nel Medioevo rimasero infatti soltanto i monaci a occuparsi della cura dei libri, dedicandosi per dovere di disciplina e per interesse degli studi all’arte della scrittura sui grandi fogli di pergamena che avevano sostituito i papiri, assumendo l’antico nome codex.

Nonostante il conclamato buio di questi secoli, l’attività editoriale non ebbe fine, dando incremento alla scuola degli amanuensi: furono allestiti nei conventi appositi locali detti scriptoria – officine o scuole di scrittura – di cui era responsabile un bibliotecario (armarius, da latino classico armarium, dove indicava l’armadio per conservare i libri). L’attività degli scriptoria raggiunse il massimo sviluppo tra il IX e il XII secolo.

Nei codici i monaci trascrissero per secoli antichi testi, ma per un lavoro tanto impegnativo è sbagliato immaginarsi un fraticello ignorante che copia qualcosa che non capisce: su un codice troviamo un’intera squadra. C’era lo scriptor, incaricato di vergare il testo in bella scrittura sotto dettatura del dictator; quindi interveniva il corrector a controllare la rispondenza tra la copia e gli originali. Poi il codice passava al miniator, che vi aggiungeva decorazioni e illustrazioni miniate.

Non esiste una misura uniforma nel formato dei codici, che dipendeva dalle dimensioni dei fogli ottenibili dalla lavorazione delle pelli di capra o di pecora (da cui l’altro nome cartapecora dato al prodotto finale), conciate e disseccate, poi trattate con calce. Ogni singolo foglio piegato in due consiste di due carte, ogni carta di due pagine chiamate recto e verso.

Anche la cosiddetta segnatura o quaderno – costituita da un sedicesimo, cioè un blocco di quattro fogli piegati in due e riuniti per una cucitura ottimale – ha origine con i codici.

Pergamena

I fogli di pergamena che andavano a costituire i codici venivano scritti su due o quattro colonne, senza numerazione e con semplici richiami, e la loro raccolta era priva di frontespizio.

Dal XII secolo, come chiave di orientamento, sotto l’ultima riga di ogni pagina venne riportata con frequenza, per intero o abbreviata, la prima parola della pagina successiva: un sistema che sarà ripreso nel primo periodo delle edizioni a stampa e che soltanto dopo molto tempo lascerà posto al sistema della numerazione delle pagine.

Nei codici più antichi, fino all’introduzione del frontespizio, il testo aveva inizio con la formula Incipit… seguita da titolo dell’opera e dal nome dell’autore,questi potevano essere ripetuti ancora in fine nell’explicit, con i nomi del copista e del miniatore e l’indicazione della data in cui il lavoro era stato concluso.

I testi considerati più importanti erano impreziositi da ornati e miniature, opera di pregevoli artisti. Testo e decorazioni venivano tracciati sulla pergamena con penne di vario genere e forma (la preferita dal VII secolo fu la penna d’oca), adoperando inchiostro nero, con uso di altri colori ausiliari, in particolare con minio e inchiostro rosso nelle iniziali e nei titoli (da cui derivò la definizione di manoscritti miniati o rubricati).

Codice con caratteri dorati

In alcune rare occasioni, in codici di alto pregio commissionati da autorevoli personaggi i testi furono trascritti per intero in oro o argento, dando alla pergamena una tintura di fondo (in genere purpurea) per far meglio risaltare i caratteri. I tipi più arcaici di inchiostro nero erano composti di fuliggine, nerofumo, avorio bruciato, carbone in polvere; venivano usati, per quanto più raramente, inchiostri blu, verdi, gialli.

A parte il valore culturale e storico, i codici possono avere una notevole importanza artistica per la presenza di mirabili miniature che riflettono con raffinatezza e sensibilità i caratteri della pittura coeva, in particolare nelle Bibbie, nei Libri d’Ore, nei Salteri, negli Evangelari.

Miniatura che raffigura San Benedetto

Poi la miniatura del XIII secolo uscì dai chiostri, trovando soluzioni nuove per mano di artisti laici capaci di una più geniale varietà espressiva e maggior senso estetico, con inserimento di ritratti e scene di natura e d’ambiente. Una fioritura di preziosa bellezza che si conclude nel XVI secolo per lasciare posto a una diversa espressione d’arte e di cultura. il libro a stampa.

I codici erano quasi sempre protetti da una legatura, formata da tavole di legno rivestite di metalli e ornate anche di pietre preziose in rapporto alla qualità del testo (come nel prezioso Evangelario del vescovo milanese Ariberto). Non era uso scrivere sul dorso delle legature i titoli, nel senso della lunghezza, in quanto le dimensioni e il peso di molti codici costringevano a tenerli adagiati sopra robusti leggii a colonna, ai quali venivano legati con catene per impedirne il furto.

Anche la costosissima pergamena fu soppiantata da una nuova invenzione, la carta, la cui tecnica di fabbricazione fu importata in Europa nel XI secolo dagli arabi, che l’avevano ideata perfezionando l’antica idea egiziana attraverso l’uso degli steli dell’alfa, una graminacea comune nell’Africa settentrionale già impiegata nella fabbricazione di funi, stuoie e canestri.

Un supporto da scrittura ancor più economico della pergamena, e di lavorazione più semplice e rapida (soprattutto quando la carta fu ricavata non più dagli steli dell’alfa ma dagli stracci); fu questa caratteristica a permettere al libro manoscritto di uscire dai monasteri, rendendone popolare la produzione e la lettura, che ben presto diventò patrimonio dei nuovi ceti borghesi.

Nel XIII e XIV secolo, il rifiorire degli studi e lo sviluppo delle università portano a un incremento della produzione libraria: rinasce anche il lavoro degli amanuensi laici retribuiti, i quali sono però spinti dalla domanda e dalla concorrenza a lavorare in fretta e a costi bassi, con scarsa cura per la fedeltà dei testi.

Vespasiano da Bisticci

Restano tuttavia ricercatissimi dai librai, e dagli aristocratici commissionari, i più abili e raffinati tra i copisti e miniatori (Vespasiano da Bisticci è il più stimato dell’epoca) che con perseveranza riproducono e correggono per loro un gran numero di manoscritti: saranno questi, anche dopo l’invenzione della stampa, a proseguire per decenni una scuola di alto virtuosismo a beneficio dei prìncipi, che per simili “capricci” non lesinavano.

A fianco di quegli amanuensi si pone l’opera di umanisti che per amore dei grandi autori si fanno essi stessi copisti e curatori a titolo personale, onde ottenere versioni più corrette.

Leggi anche Storia del libro: l’invenzione della stampa – 1 di 2→

Tratto da La meravigliosa storia del libro di Valentino De Carlo
Dicembre 28, 2019

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