Storia di un’estate lontana

La casa, avvolta dalla luce lunare, era vecchia e nascosta dietro a una cortina di alberi: un luogo solitario, silenzioso, costruito da qualcuno che evidentemente amava la solitudine.

Enrico Firmani si fermò a qualche metro dalla logora porta di ingresso.

La casa doveva essere abbandonata da anni, ormai.

Curioso, per un intenso senso di esplorazione che gli bruciava nelle vene, il trentenne superò i tre gradini e aprì la porta, che scricchiolò sul cardine.

Si trovò in una saletta angusta, dal pavimento di pietra coperto di polvere. Un grosso ratto saltò giù dalla cornice di una finestra per poi sgattaiolare in una stanza adiacente. Il soffitto era crollato, ed Enrico riuscì a vedere la stanza al piano di sopra, nella quale un camino di ferro era precariamente abbarbicato a una parete. Più in alto ancora c’erano travi massicce, decorate da un intrico di ragnatele: la nuda ossatura di una casa defunta.

Enrico stava per andarsene, perché nel luogo aleggiava un’atmosfera indefinibile e misteriosa, quando si accorse di una figura, immobile sul fondo della saletta.

Sembrava essere scivolata fuori dalle tenebre, senza fare il benché minimo rumore.

Enrico rimase fermo, il fiato strozzato in gola.

La figura si mosse lentamente verso di lui. Quando un barbiglio lunare le illuminò il volto, il trentenne spalancò la bocca in muta sorpresa.

Era una ragazza, dalla pelle bianca come l’avorio; i capelli, lunghi e corvini, le pendevano sulle spalle leggermente curve; gli occhi erano scuri, profondi come un abisso inesplorabile e incredibilmente tristi.

“Oh, scusa. Non mi ero accorto che ci fosse qualcuno. Io… io stavo solo dando un’occhiata”, riuscì a mormorare il trentenne.

La ragazza non si mosse.

“Va bene. Ma ti ho sentito entrare e mi sono chiesta chi fosse. Nessuno mi fa visita da anni. Questo posto è lontano dalla strada”, spiegò lei con una voce incredibilmente dolce.

“Tu vivi qui dentro?”

“Sì, laggiù. Le cantine sono ancora intatte. Non ho un altro posto dove andare.”

Enrico pensò che c’erano molti posti in cui avrebbe preferito vivere piuttosto che nell’umida cantina di una casa in rovina.

“Ma… com’è possibile?”

La ragazza fece spallucce.

“Basta abituarsi”, disse: “Ti va di parlare un po’?”

Enrico sorrise e annuì.

La ragazza lo guidò a un vecchio divano logoro, raccolse le gambe e prese posto nell’angolino. Enrico si sedette, avvertendo un brivido gelido dietro la nuca.

“Non è proprio il massimo come sistemazione”, ammise guardandosi attorno: “Come ti chiami?”

“Mi chiamo Xenia. E tu?”

Enrico si presentò, poi iniziarono a parlare del più e del meno. Xenia aveva sempre vissuto in quel minuto paese della Croazia, affacciato sul mare e circondato dalle campagne. Enrico, invece, proveniva dalla città ed era in vacanza con i suoi genitori, ospitato da alcuni lontani parenti.

Parlarono della loro adolescenza, dei loro piaceri. Entrambi erano cresciuti in famiglie tranquille, avevano ultimato gli studi. Xenia fu evasiva per quanto riguardava l’argomento lavoro, si limitò a scuotere lentamente il capo e ad abbassare lo sguardo. Enrico, invece, si disse ancora alla ricerca di un’occupazione.

Gli occhi di lei si illuminarono quando toccarono l’argomento passioni e hobby, specie quando lui le disse di amare profondamente la lettura e la scrittura creativa: aveva scritto diversi racconti, partecipando a numerosi concorsi letterari, ma senza ottenere alcun riscontro positivo.

Xenia si disse grande appassionata di scrittura: anche lei aveva scritto in passato diversi racconti, ma preferiva tenerseli per sé, non era ancora pronta al confronto in un concorso, o probabilmente non le interessava prendervi parte.

Così, tra una parola e l’altra, tra una risatina e l’altra, le ore scivolarono via. Fu Enrico a dover interrompere la conversazione, annunciando che doveva tornare dai suoi genitori, per non farli preoccupare troppo. Gli occhi della ragazza si spensero, abbassò lo sguardo.

“Pensi che tornerai a trovarmi prima di partire?”, gli chiese.

“Ma certo. Parto tra cinque giorni. Ci rivediamo domani. Promesso”, disse Enrico alzandosi dal divano.

“Buona notte”, mormorò lei.

“Grazie, anche a te; è stato un vero piacere conoscerti.”

Xenia sorrise debolmente. Ed Enrico lasciò la casa.

Sulla via del ritorno, lungo un sentiero che serpeggiava tra le campagne, Enrico si sentì di animo leggero. Nelle stelle, che costellavano la volta notturna, rivedeva gli occhi di Xenia. E quella sua voce, così dolce, simile a un alito di vento, lo accompagnò fino a casa dei suoi parenti.

Il giorno seguente trascorse in modo particolarmente lento.

Enrico, assieme ai suoi genitori, si recò al mare fin dal primo mattino. Mentre nuotava tra un’onda e l’altra, o mentre si crogiolava al sole, pensava alla ragazza della notte precedente.

Solo sua madre gli chiese dove avesse trascorso la serata, ed Enrico era stato evasivo, dicendole di essere andato in giro per il paese, a farsi una passeggiata.

Il trentenne non vedeva l’ora che calasse la sera, per tornare alla casa abbandonata e rivedere la ragazza.

E quando, dopo cena, il sole si spense, e la luna fece capolino nella volta celeste, il suo cuore iniziò a battere in modo incontrollato.

Annunciò ai suoi genitori di uscire per farsi quattro passi. Nessuno obiettò.

Lungo il sentiero tra le campagne, si trovò ad aumentare il passo. Voleva passare quanto più tempo possibile in compagnia della ragazza, dei suoi occhi profondi e della sua voce dolce.

Dopo svariati minuti di marcia, intravide la casa tra gli alberi, immersa in un silenzio abissale.

Entrò senza pensarci due volte e si fermò al centro della stanza.

“Ehi! Xenia! Sono tornato!”, annunciò contento.

Una sagoma si staccò dalle ombre, in fondo. Ed eccola riapparire in tutto il suo splendore.

Un flebile sorriso le rischiarava il volto.

“Credevo che non ti avrei più rivisto.”

“Impossibile. Te l’avevo promesso.”

La risata cristallina della ragazza echeggiò tra le pareti sfatte, riscaldando il cuore di lui.

“Ti andrebbe di fare quattro passi?”, propose Enrico.

Xenia annuì, sorridendo.

L’aria della notte era frizzante. La campagna attorno a loro sembrava un mare di pece. Seguirono il sentiero serpeggiante dietro la casa abbandonata e si inoltrarono in un boschetto di arbusti.

Una miriade di lucciole volteggiava nell’aria, tra gli alberi. E i due si fermarono a lungo ad ammirare i giochi di luce emessi dai piccoli insetti.

Xenia rideva divertita. Enrico ammirava il volteggiare di quei corpicini lampeggianti e sorrideva.

Quando ripresero a camminare, lei lo prese sottobraccio e gli posò la testa contro la spalla.

Avanzarono in silenzio per svariati minuti. E quando si ritrovarono immersi in un mare di tenebre, ben lontani dal paese, decisero di tornare indietro.

Si lasciarono con la promessa di rivedersi la sera successiva.

Le loro mani si separarono e ognuno tornò alla sua dimora.

Quattro giorni passarono in fretta. Enrico alternava le mattine e i pomeriggi passati con la famiglia alle notti trascorse assieme a Xenia. Parlavano e ridevano assieme. Enrico non vedeva l’ora che scendessero le tenebre per incontrarla di nuovo e godere della sua compagnia.

Il mattino dell’ultimo giorno, si immerse nelle acque cristalline e raccolse quante più conchiglie possibili. Con un filo le unì tutte insieme a creare una collana.

La notte stessa, si presentò a Xenia con il regalo.

Lei parve commossa, i suoi occhi profondi si fecero lucidi.

“Così ti ricorderai di me”, mormorò Enrico.

Lei gli girò le spalle, e lui le si avvicinò allungando la collana verso il suo collo esile. La allacciò, ma questa cadde al suolo.

Xenia si girò verso di lui, gli occhi lucidi.

Enrico indietreggiò di un passo. Era sicuro, al cento per cento, di averle allacciato la collana al collo. E questa, staccandosi, aveva attraversato il corpo di lei finendo a terra.

Era come… era come se la figura di Xenia non avesse nulla di materiale.

“Chi… cosa? Cosa sei?”, balbettò il trentenne, con gli occhi quasi fuori dalle orbite.

“Un sogno, Enrico. Forse, sono solo un sogno.”

Enrico la guardò basito. Occhi negli occhi, labbra tremanti. Lei gli si fece vicino e gli stampò un bacio sulla guancia. Poi, con sguardo lucido, si ritirò tra le ombre.

Prima di svanire del tutto, disse: “Se mi ami davvero, amati.”

E il suono dolce, soave, della sua voce si spense, sovrastata da un silenzio abissale.

Enrico rimase immobile per svariati minuti, incredulo.

Poi, come se fosse scattata una molla dentro di sé, si lanciò nella direzione presa dalla ragazza. Scese nelle cantine della casa. Voleva parlarle ancora, rivederla un’ultima volta.

Ma le cantine risultarono vuote. E di Xenia non c’era traccia.

Preso da un terribile capogiro, Enrico uscì di corsa dalla casa fatiscente. Imboccò il sentiero serpeggiante tra le campagne. Lungo la strada, pianse lacrime amare, mentre l’eco della voce di lei gli martellava nella testa:

“Se mi ami davvero, amati.”

Tornato in casa, non riuscì nemmeno a salutare suo padre; si chiuse in camera e crollò sul letto, ripensando a Xenia, dolce e stupenda figura che aveva colorato le sue notti altrimenti solitarie, e che era svanita così, veloce com’era apparsa.

EPILOGO:

Enrico Firmani tornò l’anno successivo, sempre d’estate, nella casa dei suoi parenti in quel piccolo paese della Croazia. La prima cosa che fece, fu di recarsi nella casa abbandonata tra le campagne.

Chiamò a gran voce Xenia. La chiamò con quanto fiato aveva in gola. Si ritrovò sull’orlo delle lacrime, ma lei non apparve.

Abbassando lo sguardo a terra, vide la collana di conchiglie sul pavimento.

La raccolse e, lentamente, se la mise al collo.

Poi, a testa bassa, con un macigno nel cuore, uscì dalla casa e si avviò verso il paese.

di Davide Stocovaz

Lascia un commento