Il tempo degli umani

Il tempo degli umani

Antiche storie di Ansorac

L’eco della sirena echeggiò nella cava mineraria, il ritmico martellio dei minatori s’interruppe lentamente accompagnato da sbuffi di fatica.

«Anche oggi è finita. Andiamo figlio mio, tua madre sarà tornata, la tavola sarà già apparecchiata. Ti ricordi che giorno è oggi?» domandò il minatore mettendosi in spalla il piccone.

Il giovane al suo fianco issò il secchio dell’acqua e annuì, «Certo» rispose rammaricato.

«Non essere triste, tua sorella sposerà il Sovrintendente e avrà una vita decente, lontana dalla fatica delle industrie tessili» lo rassicurò.

Il giovane trattenne un commento inappropriato, l’occhio dello stregone fissava i cavatori in fila e le sfere di udienza brillavano incassate lungo le pareti rocciose della miniera d’oro.

Giunsero nella zona di controllo, i cani da guardia passarono tra la fila di lavoratori assicurandosi che nessuno portasse via neppure la più piccola pagliuzza del prezioso minerale.

Padre e figlio oltrepassarono senza problemi il controllo ed entrarono nell’elevatore. Nel chiuso del piccolo ascensore di ferro e legno l’odore di sudore inaspriva le narici con fastidiosa violenza, mischiandosi al puzzo di cane e al nauseante effluvio del grasso incrostato fra gli ingranaggi striduli.

La cabina cigolò risalendo verso la superficie, la pallida luce rossastra del tramonto avvampò l’ingresso della miniera solleticando gli sguardi opachi e i visi sporchi, i minatori uscirono dall’elevatore, depositarono gli attrezzi negli armadietti, tolsero le vesti lacere e indossati i loro abiti abbandonarono la cava salutandosi con pochi gesti e cenni del capo.

Il giovane rimase in silenzio per tutto il tragitto che lo separava da casa, una piccola costruzione in legno di quercia costruita dai falegnami ai piedi della montagna.

Si strinse nel giaccone di pelle d’orso, il mese di priminverno era giunto bruscamente portandosi via i venti caldi del sud, scialli gelidi e penetranti erano scesi dalle terre fredde del nord preannunciando giorni rigidi.

«Cerca di sorridere, non arrecare altro peso al cuore di tua madre» asserì il padre fermandosi davanti l’uscio di casa.

Il giovane annuì ed entrarono. L’odore di zuppa di verdure risollevò l’animo in conflitto, il caldo focolare e il sorriso della madre mitigarono il malumore. L’interno della casa era piccolo, il tavolo e il camino occupavano gran parte della stanza e una piccola scala dava accesso a un basso soppalco dove si trovavano i letti.

«Bentornati» disse la madre abbracciandoli, «Figlia! Figlia! Puoi scendere! Fatti vedere da tuo padre e tuo fratello!» chiamò, «Giratevi voi due!» sorrise ancora.

Il giovane sospirò udendo i passi della sorella sulle scale.

«Ecco… ora voltatevi» annuì la madre.

Gli occhi ammirarono l’esile figura vestita di un abito candido, i capelli rossicci legati da un nastro di stoffa scendevano lucidi sulla spalla accarezzandole il viso arrossato dall’emozione. Gli occhi verdi brillavano alla luce del fuoco, limpidi di gioia e lacrime trattenute.

«Sei bellissima, figlia mia» sorrise il padre con gli occhi umidi. S’avvicinò e l’abbracciò stando attento a non stropicciarle il vestito.

«Avanti, saluta tua sorella» disse la madre al giovane.

Il ragazzo si avvicinò sforzando un sorriso fiero, la gola trattenne parole impronunciabili e la miriade di emozioni rovesciò dagli occhi fiumi di sale.

«Piangi come una donnicciola!» scherzò la sorella scompigliandogli i capelli, «Sii serio o nessuna giovane del villaggio ti sceglierà quando sarà tempo!» lo ammonì.

Si udì bussare alla porta e il cuore del ragazzo accelerò.

Il padre s’avvicinò e aprì.

 «Buonasera minatore» salutò il tecnomago entrando in casa, «Sei pronta ragazza? Il Sovrintendente aspetta» annunciò ispezionando la stanza.

Il ragazzo strinse i denti e fissò la figura severa dell’uomo. Il tecnomago vestiva l’uniforme del suo rango, la grigio-argentea veste trattenuta da una semplice cintura di cuoio lavorato, i bracciali di ferroliquido e il pettorale di scaglia di drago, l’emblema del suo lignaggio, simbolo di un passato antico.

«Andiamo ragazza. Saluta tutti» la esortò il tecnomago.

La giovane abbracciò il padre e la madre, baciò il fratello sulla fronte e col sorriso splendente sul viso armonioso abbandonò la casa chiudendosi l’uscio alle spalle.

Il silenzio calò come lo scialle di notte sul giorno ormai passato, la donna riempì le scodelle di zuppa e la cena si consumò senza parole.

Il giovane tirò via la coperta con lentezza, il russare profondo del padre e i lamenti notturni della madre lo tranquillizzarono mentre scendeva le scale sperando che le assi di legno non scricchiolassero. Si avvicinò alla finestra e spostò un lembo di tenda sbirciando nell’oscurità macchiata di raggi di luna.

Vide passare l’occhio dello stregone, l’orbita luminescente fluttuava ondeggiando lentamente lasciandosi dietro una scia effimera di polveri di magia. Attese che l’incantesimo proseguisse lungo la strada e scivolò fuori dalla finestra con estrema attenzione.

S’acquattò dietro il carro col legname per il camino e sgattaiolò nel buio fino all’ingresso della foresta.

Lì gli occhi dello stregone entravano raramente, i troppi movimenti di animali e piante ne avrebbero nullificato lo sguardo scrutatore. Il giovane si nascose di albero in albero fino a raggiungere il suo posto segreto, la sua finestra oltre il mondo di pietra e sudore in cui era nato e cresciuto.

Abbracciate da verdeggianti arti silvani le rovine di un luogo senza nome giacevano come cumuli di roccia selvaggia macchiata di barbe muschiate e drappi di edera rampicante.

Lì, fra quelle pietre di un tempo obliato riflesse nello stagno scuro macchiato da tifa e ninfee gialle, il giovane aveva trovato nella fanghiglia un dono inaspettato, un’offerta sepolta in attesa di elargire una conoscenza ormai perduta.

Il ragazzo si accomodò e strisciò via la melma da sopra la roccia ovale di un colore azzurro pallido, fredda al tatto, finemente levigata. Non pesava molto e stava comodamente nel palmo di una mano.

«Sono tornato» sussurrò il giovane.
La pietra vibrò di luce e il viso del ragazzo si colorò di cieli azzurri. Si udì uno sbuffo leggero, come un alito di respiro, poi un ronzio accompagnò la luminescenza nel creare un volto femminile.

«Io sono True. Vocalizzazione in corso… attendere… inizializzazione dei frammenti memoriali… attendere… pronunciare richiesta» parlò l’immagine.

Come fosse la prima volta il giovane rimase affascinato. Fissò quel viso privo di espressione, così delicato, bello.

«Sono giorni che tento di farti dire qualcosa… chiedi una richiesta, ma di cosa?» chiese sfiorando con la mano libera il viso luminescente.

«Richiesta errata. Prego riformulare richiesta».

Il giovane sbuffò e scosse il capo. Sempre la stessa risposta, qualsiasi cosa lui chiedesse, quell’enigmatica forma luminosa rispondeva sempre allo stesso modo.

«Parlami, chi o cosa sei? Io… io voglio saperlo!».

«Io sono True. Prego pronunciare richiesta» disse nuovamente. Il viso non assunse nessuna espressione, le labbra, piccole e sottili, tornarono serrate fra loro.

Il giovane sospirò. Le aveva provate tutte ma il risultato era il medesimo.

Forse quella pietra era stata creata da uno stregone e solo il suo creatore ne conosceva l’utilizzo.

Di certo non poteva chiederglielo, quelli come lui non potevano parlare con uno stregone.

L’idea lo colse illuminandogli gli occhi.

«Sei un incantesimo?» domandò sentendo il cuore accelerare.

«No. Sono un dispositivo di archiviazione memoriale. I cristalli dei miei tessuti contengono dati riguardanti nozioni specifiche. Prego formulare richiesta» rispose l’immagine.

Il giovane sorrise, finalmente era riuscito a ottenere una risposta diversa.

«Bene, non sei una magia quindi» si fermò, doveva formulare la giusta domanda, qualcosa di conciso, qualcosa di cui la strana pietra poteva dargli risposta, «Cos’è un dispositivo di archiviazione memoriale?» domandò poi.

«Pietra di cristalli liquidi mutabili contenenti nozioni di vario genere. Il mio ambito di ricerca riguarda la storia e il suo svolgimento nei tempi. Prego formulare richiesta».

Il giovane colorò il viso di stupore. Quelli come lui non avevano accesso alle strutture d’istruzione, il suo compito era di apprendere il lavoro del padre e seguirne le orme una volta che questi fosse stato troppo vecchio per alzare il piccone.

Ora aveva a disposizione un oggetto straordinario da cui trarre tutte le risposte addensate nei suoi pensieri così addestrati a vedere solo ciò che gli veniva mostrato eppure dannatamente affamati di tutto il resto.

Alzò gli occhi al vespro stellato, era tardi, il padre lo avrebbe svegliato prima del canto del gallo e doveva dormire.

«Devo andare» sospirò riponendo la pietra nel suo nascondiglio. L’immagine tremolò, poi la luce azzurrina pulsò un ultimo barlume effimero e il viso svanì.

Il giovane si alzò stiracchiando gli arti indolenziti, schiena e gambe volevano riposo, il lavoro nelle miniere era duro e passare la notte nella fredda e umida foresta non era un buon modo per lenire la fatica.

Lasciò il suo posto segreto e tornò al limitare del bosco, cauto e silenzioso. Attese il momento opportuno e tornato in casa, sistemò le coperte sul corpo infreddolito e s’addormentò sognando epoche lontane e sconosciute.

Il giovane ciondolò assonnato portando via la carriola, gli occhi gonfi di sonno e cerchiati di stanchezza fissavano il terreno roccioso.

Alla fine della giornata era talmente stanco da avere a malapena la forza di reggere il cucchiaio per la cena della sera, eppure dentro sé non aspettava altro che il sonno cogliesse i genitori fra le sue braccia così da poter sgattaiolare via e saziarsi di conoscenza.

I laconici brontolii del padre circa la nuova vena d’oro furono seguiti da pochi cenni del capo e persino i racconti materni della giornata non ebbero la benché minima possibilità di distrarlo dai suoi pensieri.

Eppure, fino a poco tempo prima, la cena era l’unico momento in cui si sentiva vivo, in cui poteva dar sfogo alle sue parole, nonostante queste fossero, e se ne accorse con un timido disagio, enormemente veicolate dalle circostanze in cui viveva;

discorsi sulla miniera, diatribe nell’industria tessile, battibecchi sul cibo poco saporito, commenti sugli ultimi pettegolezzi del villaggio e sporadiche profusioni di perle di una saggezza incolta, dissimulata, priva di profondità.

Quando giunse la notte scura e il respiro dei genitori si fece lento e rumoroso, con la solita cautela sgusciò fuori di casa e si tuffò nella foresta.

Giunse alle rovine ai piedi dello stagno e tenendo la pietra sul palmo della mano attese la luce azzurra del viso delicato salutando con una remora d’imbarazzo. C’erano così tante cose che desiderava sapere, tutte quelle di cui la sua situazione gli aveva impedito di conoscere.

Sapeva leggere la lingua degli stregoni, fondamentale per capire i cartelli nelle miniere, ma non sapeva scrivere. Sapeva contare, sapeva la storia del suo tempo e dei tempi prima del tempo, ma null’altro.

«Com’è nato il tempo? Cos’è?» domandò accigliandosi.

Il viso s’illuminò, parve come se nella testa luminescente s’addensasse un groviglio di lampi.

«Presumibilmente e secondo la conoscenza degli stregoni, il tempo è la dimensione nella quale si concepisce e si misura il trascorrere degli eventi. Induce la distinzione tra passato, presente e futuro.

La sua concezione e significato sociale risalgono, appunto, al Tempo dei Dragoni, un’era databile a circa 450’000 cicli di Ansorac addietro» le parole dell’immagine fecero sgranare gli occhi del giovane.

«Ma… i draghi sono stati sconfitti duemila anni fa!» asserì.

«Richiesta errata. Prego riformulare richiesta».
Il giovane sbuffò.

«Mm… come iniziò l’era dei draghi? E quando si concluse?» chiese.

«Il Tempo dei Dragoni ebbe inizio 450’000 cicli addietro, secondo la conoscenza degli stregoni. In quel periodo storico Ansorac era popolata dai Primevi, la prima stirpe di ansoriani, a cui tutte le specie che seguirono devono la loro esistenza.

I dragoni, promuovendosi come Dèi scesi dai cieli, soggiogarono i primevi schiavizzandoli per il proprio tornaconto. Per oltre 200’000 cicli il dominio dei dragoni rimase immutato. Furono i primi stregoni ad anteporsi alla signoria della stirpe draconica e grazie al loro sangue misto diedero inizio alla Grande Guerra fra Cielo e Terra, protrattasi per oltre 140’000 cicli.

Per evitare il collasso dell’intera Ansorac stregoni e dragoni raggiunsero un accordo, stipulato 2’000 cicli addietro. I dragoni lasciarono Ansorac al controllo degli stregoni e tornarono nei cieli promettendo, in ogni modo, un futuro ritorno» narrò mentre lo sguardo del giovane andava corrucciandosi verso una profonda perplessità.

La storia di Ansorac e dei suoi abitanti era materia d’insegnamento, ogni ansoriano conosceva la terribile epoca dei draghi e il sacrificio degli stregoni per liberare i popoli dalla schiavitù. Tuttavia era una storia di onore, immolazione, rinuncia e conquista.

Non si era mai parlato di un patto, né tanto meno di un ritorno. Gli stregoni, secondo quanto veniva raccontato, avevano annientato i dragoni e i loro pettorali di scaglie di drago ne erano la prova.

Era per quel martirio subito che gli stregoni venivano considerati Salvatori di Ansorac. Era per quell’epoca lontana e terrificante che gli ansoriani sudavano per mantenere l’egemonia degli stregoni.

Era per quella storia insegnata che i tecnomaghi vigilavano su ogni lembo di Ansorac assicurandosi il giusto svolgimento delle mansioni attribuite al popolo. L’estrazione dell’oro era parte fondamentale di quel processo, poiché il prezioso minerale sosteneva la barriera di Ansorac contro eventuali conquistatori esterni.

«Come sono nati gli stregoni?» domandò il giovane.

La pietra sciolse i nodi di luce del suo effimero cervello e ne forgiò altri tra sfrigolii di scintille.

«Gli stregoni sono la combinazione dell’essenza di primevi e dragoni. Il popolo primevo fu usato non solamente per i lavori di estrazione delle risorse ma anche in particolari esperimenti draconici. Furono Akros il Rosso e Llannar la Grande a ottenere il primo stregone, la fusione delle due specie.

Inizialmente, gli stregoni dovevano sopperire a quelle faccende che i grandi dragoni non potevano adempiere, tuttavia nel corso di molti cicli, l’intelletto degli stregoni crebbe al punto di carpire il segreto del dominio draconico. Utilizzando quel potere chiamato in futuro “magia”, gli stregoni si ribellarono dall’oppressione dei dragoni.

La cruenta Guerra fra Cielo e Terra vide la caduta degli imperi draconici e il disfacimento dei popoli ansoriani. I dragoni stipularono un accordo con gli stregoni, quest’ultimi deposero le armi e la guerra cessò. I dragoni ascesero ai cieli e gli stregoni iniziarono a ricostruire Ansorac».

Il giovane stentò nel credere alle parole della pietra.

«Menti! Non è così! Gli stregoni hanno salvato tutti noi!» gridò stizzito.

«Richiesta errata. Prego riformulare richiesta».

«Non voglio più ascoltarti!» sbottò lanciando la pietra nello stagno. L’immagine lanciò una scarica di luce, poi affondò nelle acque scure. Il giovane rimase fermo, innervosito e sconvolto.

Fissò l’opaca luminescenza scomparire nell’acquitrino, diresse il passo confuso verso casa e fino al canto del gallo la sua mente non pensò a nulla.

Il giovane guardò il padre alzare e abbassare il piccone sul muro, le scie di sudore disegnavano strisce sporche sul volto affannato. Gettò uno sguardo verso gli altri minatori, tutti incentrati nel beccare la roccia con le piccozze per estrarne l’oro grezzo, trasportato via dai figli in numerosi andirivieni di secchi e carriole.

«Figlio!» lo chiamò il padre distogliendolo dai suoi ragionamenti, «Che fai? Avanti, porta l’acqua e prendimi una pala, startene a braccia conserte non ti procura il cibo sulla tavola!» lo ammonì tergendosi il sudore dalla fronte.

«Si, padre, scusa» annuì porgendogli una brocca.

«Sei strano ultimamente, sconcentrato» asserì dissetandosi.

«Si dice distratto…» sorrise il figlio.​

Il padre lo fissò accigliato, «Il senso è lo stesso… cos’è questa storia adesso? Un figlio che riprende il padre? Vuoi insegnarmi anche come sbrecciare una parete?» domandò con severità.

Il figlio rimase in silenzio, annuì e porse la pala. Il battibecco non passò inosservato, gli altri minatori e i rispettivi figli fissarono il giovane scuotendo il capo.

L’occhio dello stregone fluttuò nella zona e gli sguardi tornarono a concentrarsi sul filone aureo.

Il ragazzo sospirò e, preso il secchio, si recò al pozzo e attinse altra acqua.

La sera giunse portandosi appresso un acquazzone furioso e rombante, il cielo cupo gracchiava fulmini impetuosi, il giovane se ne stava sospirante alla finestra ammirando il temporale.

«Figlio mio a cosa pensi? Ti chiedi di tua sorella? Sai come funziona, sposando un Sovrintendente si deva dire addio alla propria famiglia, si entra a far parte di un’altra cerchia, le casate nobili non mischiano i propri affetti» disse la madre cingendogli le spalle con il braccio.

«Certo, mischiano solo i loro istinti ma non i loro patrimoni».

«Figlio! Non dire queste cose! È un onore per la nostra famiglia essere stati scelti per dare una moglie al Sovrintendente! Senza di lui non avremmo nulla! Ci ha dato un posto dove vivere, un lavoro e un futuro! Non voglio più sentire queste sciocchezze!» lo sgridò togliendo la carezza e serrando le braccia al petto.

«Cos’è questo baccano?» domandò il padre affacciandosi dal soppalco.

«Niente caro, torna a riposare, ora veniamo anche noi. Forse è soltanto giunto il momento per nostro figlio di segnarsi come candidato marito» rispose la donna.

«No!» esclamò di scatto il giovane, «Non voglio diventare padre per mettere al mondo un altro schiavo!» asserì con gli occhi lucidi.​

Il viso della madre divenne rosso di rabbia, il padre scese rapidamente le scale e affiancò la moglie fissando il giovane con occhi colmi di collera.

«Ingrato! Ma come ti permetti! Schiavi! Gli schiavi nascevano e morivano per ingozzare i draghi! Senza libertà! Senza rispetto! I nostri padri hanno assaporato la frusta del passato! Dovrebbero uscire dalla terra dove risposano e schiaffeggiarti! Ma a questo posso pensarci io!» avvampò alzando la mano.​

Il giovane fu colpito al volto e finì sul pavimento.​

«Domani non verrai in miniera! Dirò che sei malato! Non voglio vedere il tuo viso fino a sera! E non avrai nulla da mangiare! Così capirai cosa significa guadagnarsi il pane!» sbraitò tirandolo su per il braccio e spingendolo sulle scale, «Non voglio sentirti fiatare! Se ti sento piangere ti darò un altro motivo per frignare!» vociò.

Il giovane salì le scale tenendosi la guancia dolorante e trattenendo le lacrime, s’infilò nel letto e tirò le coperte sul viso.

«Che mi tocca sentire!» udì dal padre, «Se l’avessero ascoltato le sfere di udienza sarebbe finito nei guai! Schiavi! Giovani d’oggi! Non sono grati di quello che hanno! Sai cosa mi ha detto un mio collega giù in miniera? Che suo figlio vorrebbe lasciare il villaggio!

Dice che è stanco di non avere altro oltre alla cava! Avere altro oltre la cava! Ti rendi conto? Che tempi! Tutto questo benestare lascia poco spazio alle memorie dei tempi passati!» commentò strusciando rumorosamente la sedia sul pavimento.

«Ti preparo una tisana? La vicina mi ha dato delle erbe calmanti» domandò la donna.

«Altro che infusi! Dovrei far bollire quella sua testaccia!».

Il giovane strinse forte gli occhi fino a scorgere farfalle di luce nello sguardo serrato, si tappò le orecchie e pianse in silenzio. Non era il dolore a riversare fuori emozioni dagli occhi, né l’afflizione per aver risposto in quel modo alla madre.

Era l’incomprensione dei suoi genitori a ferirlo. Perché non vedevano la verità oltre quel velo effimero e costrutto di vita che scivolava via giorno dopo giorno in una lenta e opprimente monotonia? Perché adirarsi contro di lui invece di rivoltarsi ai padroni vestiti da signori?

Quale paura… i suoi ragionamenti si fermarono proiettando il ricordo del suo gesto stizzito nel gettare via la pietra dopo il racconto dell’avvento degli stregoni.

Si stupì nel comprendere che la stessa paura dei suoi genitori lui l’aveva provata udendo quella scomoda verità scambiata per bugia.

Come si può chiedere la libertà e allo stesso tempo ribellarsi quando è la verità a concedere la libertà? (J.Milton- n.d.r.)

Il continuo vociare del padre dal piano sottostante veniva sopito dalle mani strette attorno alle orecchie, eppure non era la voce del genitore a urlargli in testa. Per quanto cercasse di allontanarlo, quel grido interiore non poteva essere ignorato.

Se lo avesse lasciato urlare in silenzio nel buio della notte e lo avesse sopito con l’inganno, quel clamore avrebbe mutato il suo significato, trasformandosi in rancore, avvelenando il suo animo fino ad avvizzire assieme alla sua vita, trascinata nei giorni senza una meta, destinata senza possibilità di obiezione allo scopo per il quale era stata messa al mondo.

No… non voleva questo. La sua mente, assaporando il frutto proibito della conoscenza, non poteva tornare a godere solamente di un’esistenza maldestra e incolpevole.

Attese il rumoroso russare dei suoi genitori poi, noncurante del temporale ancora fermo a scrollare le nubi con violenza, sgusciò fuori di casa e corse nella foresta.

La pioggia furente imperlava lo stagno, il giovane entrò nell’acquitrino e annaspò nella fanghiglia cercando la pietra. Scivolò più volte sui massi viscidi e più volte tossì sputando l’acqua melmosa, finché tra le mani graffiate cinse la pietra liscia e con uno strattone la sollevò dalla pozza.

Tornò a riva, zuppo e infreddolito, cercò un timido riparo sotto due grosse rocce e sperò che il suo gesto non avesse rotto l’oggetto.

«Avanti… avanti!» disse togliendo una viscida poltiglia dalla pietra liscia e levigata.

Udì un sfrigolio e la luce pulsò azzurrina.

«Io sono True. Vocalizzazione in corso… attendere… inizializzazione dei frammenti memoriali… attendere… pronunciare richiesta» parlò l’immagine rincuorandolo.

«Si!» sorrise tergendosi la fronte, «True… perdonami! So che non mi capisci e so che risponderai come al solito, ma perdonami!».

Il viso effimero pronunciò l’errata formulazione della richiesta, il giovane allargò il sorriso e sospirò.

«Come si può fermare uno stregone?» domandò. Nella sua mente un’idea pazza prese a forgiarsi nei pensieri.

«Il potere degli stregoni risiede nelle parole utilizzate durante gli incantesimi, derivante dal loro sangue misto. Nonostante ciò i cicli di Ansorac indeboliscono l’essenza draconica nel sangue, rendendoli sempre più deboli. Per fermare uno stregone è necessario non prestare attenzione alle loro parole.

Nonostante discusse e accese diatribe circa l’origine della magia, le parole rimangono tutt’ora l’unico vero potere. I tecnomaghi sopperiscono a tale perdita non utilizzando l’essenza dei dragoni come espediente per gli incantesimi ma la tecnologia fornitagli dagli stregoni» spiegò la voce.

Il giovane si corrucciò.

«Parlami dei tecnomaghi» chiese.

«I tecnomaghi nascono per compensare la perdita naturale del potere degli stregoni. Istruiti nelle accademie, questi maghi della tecnologia usufruiscono delle scoperte innovative avvenute nel corso della storia.

Di loro concezione, per l’appunto, gli occhi dello stregone, le sfere di udienza, oltre alle fruste elettriche e le onde di malessere. Tuttavia, questi poteri ancora definiti incantesimi non sono altro che oggetti e, come tali, possono essere distrutti».

«Come?».

«L’acqua interferisce in maniera notevole con ogni incantesimo dei tecnomaghi. Un occhio dello stregone perde il potere di trasmettere immagini, una sfera di udienza cessa di funzionare, le onde di malessere vengono dissipate e le fruste elettriche entrano in cortocircuito».

Il giovane si stupì nel ricordare che, durante i temporali, gli occhi dello stregone non compivano le ronde di controllo.

«Se i loro poteri s’indeboliscono e i tecnomaghi soppiantano gli stregoni, come possono quest’ultimi essere ancora in grado di governare su tutta la popolazione?».

«Cessazione dell’esistenza e sostituzione collettiva. Durante il Tempo dei Dragoni ai primevi fu impedito di avere un nome proprio. Molte cose, da allora, furono dimenticate. Gli stregoni continuarono questa usanza. Non avere un nome, una concezione di se stessi e di cosa si è, rende più semplice il controllo. L’uniformità impedisce la distinzione».

Il giovane rimase in silenzio, pensando alle parole della pietra. Lui era un ansoriano. Era stato un neonato, un bambino e presto sarebbe diventato un marito. Ma non aveva quello che il viso aveva chiamato “nome”.

«Come si ottiene un nome?» domandò.

«Al tempo dei Primevi, il nome era solitamente associato a una particolarità del nascituro. Dati mancanti non conferiscono ulteriori spiegazioni» riferì.

Il giovane ci pensò su. Se il nome era associato a una caratteristica, quale poteva essere il suo? Per diverso tempo rimase in silenzio cercando nella sua mente qualcosa che potesse rappresentarlo, tuttavia, come la pietra aveva spiegato, molte cose erano andate perdute e con esse, molti nomi erano ormai sepolti in un passato striato di menzogne.

Un brivido gelido attraversò il corpo. La pioggia cadente scemava il tamburellio sullo stagno e le nubi andavano diradandosi rivelando il chiarore gemmato del manto notturno.

La stanchezza e il freddo iniziarono a premere sulle membra intorpidite del giovane, l’oscillazione dei suoi pensieri andò calmandosi verso una soporifera tranquillità.

Ora sapeva cosa fare, doveva farlo. Non poteva rimanere ancora in silenzio e accettare quella parvenza di vita come l’unica possibilità, né scrollarsi di dosso la responsabilità e voltare le spalle alla verità. Non sarebbe stato un altro ingranaggio della macchina degli stregoni, era giunta l’ora di dare inizio al piano di sabotaggio.

Il sistema presentava errori di fondo ed era tempo di chiudere il conto, prima di diventare una misera virgola nella storia di Ansorac.

Il sonno fu interrotto da una voce indistinta e lontana.

«Alzati!» gridava ovattata nei rimasugli del sogno.

Il giovane mugugnò aprendo stancamente gli occhi, nella visuale traslucida delineò la figura della madre, ferma ai piedi del suo giaciglio.

«Figlio! Alzati! Non andrai in miniera ma non penserai di poltrire tutto il giorno? C’è da spaccare la legna, quindi vestiti, mangia qualcosa e prendi l’ascia! Voglio il carretto pieno di ciocchi di legno per quando torno dall’industria» precisò la donna tirandogli via le coperte.

Il freddo punzecchiò il corpo legato al calore del letto, il giovane sbadigliò e si sedette sul bordo stropicciandosi gli occhi.

«Madre devo dirti una cosa» esordì con voce impastata.

«Ora non ho tempo devo andare a lavorare. Taglia la legna!» asserì la donna afferrando il soprabito. Salutò il figlio e uscì di casa.

Il giovane sospirò cacciando via l’intorpidimento dal corpo, controllò sotto il letto e tirò fuori il suo giaccone di pelle d’orso, ancora zuppo e avvolto attorno alla pietra parlante. La poggiò sul letto, si vestì e scese per mangiare qualcosa.

Si assicurò che le imposte fossero chiuse, controllò il chiavistello della porta e tenendo la pietra sul palmo della mano, attese il volto effimero disegnarsi di luce azzurrina.

Seduto al tavolo per buona parte della giornata, il giovane saziò la sua fame di conoscenza traendo dalla pietra le nozioni di quel passato scomparso, celato da un pareo di storia tessuto da arti millantate, finemente falsato affinché fosse difficile scorgerne l’orlo camuffato.

Conobbe i segreti degli stregoni e acquisì una maggiore consapevolezza di sé, dei suoi pensieri e dei suoi ragionamenti. Non s’accorse del giorno che lentamente calava il sipario del tramonto, né si scompose udendo il suono delle chiavi nella toppa.

«Beh? Figlio? Cos’è, ti sei chiuso in casa? Apri!» disse la madre sentendo il chiavistello fermare la porta. Il giovane poggiò la pietra sul tavolo e aprì, la donna entrò sfregandosi le mani gelide e guardò il focolare.

«Neanche il camino hai acceso! E la legna? Dov’è la legna?» sbraitò scorgendo la nuvoletta del suo stesso respiro. Lo sguardo fu catturato dalla luce azzurrina della pietra.

«Cos’è!» arretrò cacciando un gridolino spaventato.

«Madre non spaventarti! È innocua!» sorrise il giovane.

«Oh, figlio! Che cosa hai fatto? Dov’è l’hai presa? Hai rubato nella casa del tecnomago?» si preoccupò disegnando il viso di un’espressione profondamente delusa.

«No! No! Non l’ho rubata! L’ho trovata nella foresta, alle vecchie rovine dello stagno? Ricordi, madre? Ricordi quando ci portavi lì da piccoli quando il padre lavorava?» asserì cingendole il viso con le mani e cercandole gli occhi distratti dalla pietra.

«Alle rovine?» domandò perplessa, «Quando sei andato lì? È pericoloso!».

«Sono stato attento e non c’è nulla da temere! Lì l’ho trovata, si chiama True. Il suo nome, è True» sorrise il giovane.

La madre s’accigliò, «Il suo cosa? Di che parli?» scosse il capo.

«La pietra, chiamala True. Siediti, per favore» invitò porgendole una sedia.

La donna si sedette, gli occhi del figlio erano diversi, qualcosa di lucido e deciso veleggiava nello sguardo scivolando fino alla gola e imprimendo nelle parole una ferrea determinazione.

«Questa pietra è stata creata centinaia di cicli addietro, il suo creatore era un tecnomago. Egli si ribellò alla volontà degli stregoni, racchiuse la verità nei cristalli e li fuse tra loro forgiando questa pietra. Il suo scopo era preservare il passato del nostro mondo per lasciarlo in eredità come punto di partenza per capire perché siamo.

So che questi discorsi ti sono difficili, lo capisco, non è colpa tua, la tua ignoranza è legata a una millenaria opera d’indottrinamento» spiegò il giovane osservando il viso sempre più perplesso e stupito della madre.

«Figlio… cosa dici?» sussurrò incapace di seguire il discorso, ignara del significato di molte delle parole.

La voce del figlio era precisa, scandita, cresciuta. Era come se il suo giovane ragazzo si fosse fatto uomo in una sola giornata, tuttavia con un qualcosa in più, una calda e consapevole armonia nei pensieri.

«Madre, noi siamo schiavi. Tutti noi. Abbiamo perso il reale significato di molte cose, soprattutto della vita e dell’amore. Ben presto non saremo neanche più schiavi, verremo sostituiti completamente dai golèm, i tecnomaghi sono già all’opera.

Automi di roccia e ferro prenderanno il posto di molti ansoriani, quei pochi saranno utilizzati nelle mansioni più infami, mentre le casate nobili al comando perseguiranno fino al dominio completo, assoluto e inscindibile. Noi ci troviamo nel punto di non ritorno.

Siamo stati addestrati a compiere le cose che facciamo, perché siamo stati istruiti a credere che la vita sia questo. Ogni conquista ottenuta dagli ansoriani non è altro che un paravento, un piccolo biscotto per l’ottima obbedienza, ma nulla più.

Siamo stati privati persino di essere. Io sono tuo figlio, tu sei mia madre. Ma come persone non ci conosciamo, perché non siamo. La nostra coscienza profonda sussurra timidamente di essere ascoltata ma i rumori di fondo sono troppi ed è più semplice indossare maschere che ascoltare se stessi» parlò il giovane sfiorando la pietra.

La luce dardeggiò tingendo d’azzurro la casa, la madre s’alzò dalla sedia balbettando frasi confuse e sbigottite.

«Non avere paura di ciò che non conosci. Abbi più timore di ciò che credi vero» asserì il giovane accarezzando il viso della madre, calmandola e facendola accomodare.

«Tu ascolta. Io devo fare una cosa» disse il giovane, «True… richiedo la storia degli ansoriani» formulò il giovane.

La madre fissò il viso luminoso schiudere le labbra azzurrine e parlare con voce lenta e rassicurante.

Il giovane lasciò la madre ad ascoltare la storia del mondo, afferrò un secchio d’acqua e uscì dalla casa.

Il tramonto colorava d’arancio la piazza del villaggio, le donne tornavano nelle case preparando le cene per mariti e figli che presto avrebbero fatto ritorno da fabbriche e miniere.

Gli occhi dello stregone fluttuavano nella zona, alti pali di ferro con tettoie antipioggia ospitavano le sfere di udienza fornendo al contempo riparo per gli occhi scrutatori quando il cielo scrollava scialli d’acqua.

Le case erano tutte eguali, tutte di semplice e robusto legno costruite lungo i piedi della montagna, a ridosso d’una grande foresta in una valle florida e fruttuosa.

Il giovane scese i gradini della sua casa e s’avviò in piazza. Gli occhi dello stregone lo videro e s’avvicinarono lentamente, la palla di vetro galleggiante vestita di polveri magiche danzò nell’aria scrutando il giovane.

Proiettata nell’etere fino alla dimora del tecnomago, lungo una parete di cristallo che fungeva da schermo panoramico, l’immagine rivelò un giovane fermo e sorridente.

Il tecnomago al controllo delle proiezioni visive s’incuriosì quando vide il giovane alzare un secchio d’acqua, poi una grana grigiastra calò sul cristallo e l’immagine svanì.

«Ma cosa?» si corrucciò trasalendo sulla sedia. Attivò un secondo occhio, l’immagine tremolò un istante, dopodiché proiettò l’immagine della piazza. Fermo col secchio in mano il giovane stava attirando l’attenzione indicando l’occhio dello stregone danneggiato.

Il tecnomago mosse il secondo cristallo scrutatore avvicinandolo al giovane e ancora il viso del ragazzo gli sorrise prima che l’immagine svanisse nel grigio.

Afferrò la frusta elettrica e il raggio del malessere, poi scostò bruscamente la sedia e lasciò la stanza.

Il giovane raccolse l’occhio dal terreno, le sottili polveri magiche erano svanite, rimaneva una sfera di cristallo incrinata, vuota. La gettò ai suoi piedi e l’occhio andò in frantumi. Le donne s’erano fermate, impietrite dal gesto sconsiderato. Alcune lo indicarono, ne conoscevano la madre.

«Ragazzo! Cos’hai fatto! Il tecnomago ti punirà! Scappa! Scappa!» gridò una donna.

«No, non fuggirò. Come non si può fuggire dalle proprie paure, non si possono voltare le spalle all’ingiustizia, accettandone l’arroganza ne si è complici e conseguenza» parlò il giovane a voce alta, «Il Tempo dei Dragoni ha solo camuffato il suo nome, scellerati gli stregoni hanno stretto accordi coi carnefici e issandosi sopra i destini degli ansoriani ne hanno trainato le redini per i propri piani.

Siamo tutti complici indistinti di questo, poiché senza di noi i loro propositi e le loro inflitte sofferenze non avrebbero motivo di esistere» continuò scorgendo il tecnomago avvicinarsi rapidamente.

«Tu! Cosa ti è saltato in mente? Verrai punito severamente! È contro la legge danneggiare le postazioni di controllo!» sbraitò il tecnomago stringendo la bacchetta del raggio del malessere.

Il giovane si riversò il secchio sulla testa e gettò la restante acqua addosso al tecnomago.

Questi attivò il raggio del malessere, la silenziosa onda venne dissipata dalla patina d’acqua, il tecnomago avvampò e sciabolò la frusta di lampi.

Quando il dispositivo fregiò il cuoio metallizzato di scintille azzurre, uno sfrigolio crepitò nell’aria, il corpo del tecnomago s’irrigidì e cadde sul terreno avvolto da spire elettriche.

Il giovane guardò i volti sbigottiti delle donne, taluni avevano così timore che le mani nascondevano la paura.

«C’è stato il Tempo dei Dragoni ed eravamo divisi e soggiogati. Vennero gli stregoni e fummo ancora divisi e soggiogati, ma addolciti da un benessere malato. Verrà il tempo dei tecnomaghi e noi piccoli ingranaggi verremo sostituiti, lentamente, senza accorgercene. Io credo che non sia giusto. E se voi crederete insieme a me verrà un tempo diverso. Ci riprenderemo i nomi e verrò il Tempo degli Umani, poiché è l’unica parola che accomuna tutti noi» parlò il giovane.

Il tecnomago smise di tremare, fissò il ragazzo e balbettò poche parole.

«Chi… sei?» sfiatò appena.

Il giovane sorrise, «Io sono True» asserì.

 

di Marko D’Abbruzzi

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