Voglia di prendere un treno

prendere un treno

Piove. Sento il picchiettio della pioggia sul tetto. Sono tre giorni che non smette di piovere, un martellamento continuo, quel rotolare d’acqua sulle tegole, non mi da pace, mi ossessiona, impedisce ogni forma di pensiero, non riesco a dormire.

La mia camera è in una mansarda e da lì intuisco l’odissea della goccia che cade sulle tegole roventi di sole, sfrigola al contatto e poi, subito dopo, si riunisce ad altre per formare rivoli che si precipitano lungo le onde dei coppi, vanno sciabordando verso il vuoto, verso la madre terra.

Piove ed io sono prigioniera della mia pigrizia, indolente, con assoluta mancanza di volontà. Dovrei alzarmi da questo letto dove ormai dormo da sola da troppo tempo.

Non mi da fastidio il rombo del tuono improvviso che fa tremare i vetri, o la luce abbagliante del fulmine che inonda la finestra di bagliori, quello che odio è il rumore dell’acqua.

Quel suo percuotere incessante e monotono sul tetto, sulla mia testa. Mi sembra che voglia entrare da un momento all’altro, nella stanza, nel mio letto, portarmi via con quelle sue dita liquide, trascinandomi in un vortice di oblio. Odio quel cielo oscuro che impedisce di scorgere il cielo, perché in questo dannato paese piove così tanto, perché devo starmene in questo spazio così ristretto riparata solo da una sottile schiera di mattoni. Vorrei trovarmi, invece, dentro un buco al centro della terra, dove l’acqua non può arrivare e nemmeno il suo rumoreggiare.

Vorrei solo restare in silenzio e al caldo, come sono stata fino a, quando c’erano le sue braccia a proteggermi. Sono sola, sono a letto e non ho voglia di alzarmi.

Piove, perché dovrei affrontare la nemica scrosciante, per andare a scuola?

Se non ci vado è lo stesso, cosa posso imparare in un giorno, che già non sappia. Oggi c’è lezione d’inglese, stiamo studiando i verbi, se perdo una  lezione o due, non succede niente, alla fine non ne saprò più di adesso. Per imparare bene dovrei andare sul posto.

Sì, vorrei andare proprio dove si parla inglese, circondata da gente sconosciuta, che non mi conosce. Non sanno chi sono e, se mi vogliono devono  accettarmi così come mi vedono. Ho voglia di prendere un treno, partire, andare non so dove, solo seguendo la rotta del sole, per non ascoltare più questo borbottio di acque. Il ricordo è ancora vivo.

Non posso dimenticare lo sciabordio del mare sotto la chiglia della barca che scivolava, con la vela gonfia, il mare azzurro apriva le sue braccia al nostro passaggio. Io e lui eravamo felici e ridevamo, sì ridevamo e ci baciavamo.

Ci stavamo proprio baciando, quando la barca andò a sbattere contro degli scogli affioranti. Si era distratto per baciarmi e non li aveva visti. Le acque si chiusero su di lui nascondendolo alla mia vista ed io rimasi sola, sommersa, circondata da lievi e infide onde trasparenti, aggrappata ad una tavola.

Piove, ancora acqua, ancora quella sensazione di soffocamento, disperazione e terrore, sapendo di trovarsi, senza via d’uscita, in una trappola mortale dalla quale non riesco a uscire e che ancora me la porto dietro. Non voglio restare qua, voglio scappare.

Prendere uno di quei treni che percorrono la notte rumorosi. Li sento  nel buio delle notti che non dormo. Passano non lontano dal mio tetto, con quel singhiozzante rumore che somiglia al battito di un cuore tumultuoso. Li sento e il mio cuore si adegua al ritmo, lo segue fin che non passa.

Spesso vedo la scia luminosa che   s’insinua fra gli alberi, fra le case addormentate. A lui non importa se piove, corre verso la sua meta, almeno lui sa dove andare, ha un punto d’arrivo.

Io non so come fare, ho sempre voglia di  prendere quel treno, lui, quello delle tre e quarantacinque, quello che mi sveglia la notte. Non importa dove va, faremo il viaggio insieme, la sua meta sarà anche la mia, purché sia lontana dal mio tetto, lontano dai miei ricordi.

di Lorenzo Barbieri

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