Gilgamesh – Il Fiore della Giovinezza

Il Fiore della Giovinezza

Utnapishtim, detto il «Remoto», siede, tranquillo, sulle pendici del Dilmun, nel Giardino degli Dei, quando scorge la barca che stava giungendo nella regione e riflette tra sé:

– Chi ha distrutto le Immagini di Pietra che, da sempre, custodivano l’Arca? E chi è l’uomo che si avvicina insieme col mio Barcaiolo? Non è uno dei miei compagni.

Mentre i due uomini si avvicinavano, il «Remoto» li interpella:

– Chi sei tu e che cosa vai cercando per aver attraversato simili acque nel tuo cammino?

– Non sai dunque che sono Gilgamesh, che ho ucciso Humbaba e abbattuto il cedro e catturato e trucidato il Toro venuto dal Cielo?

Utnapishtim risponde:

– Se tu sei Gilgamesh, che ha assassinato Humbaba, abbattuto il cedro, catturato e ucciso il Toro venuto dal Cielo, perché sei così scarno, e bruciato dal gelo e dal caldo e vai errando nel deserto e nelle pianure? Quale dolore ti turba e perché il tuo volto mostra i segni del viaggiatore senza speranza?

E Gilgamesh replica:

– Perché dovrebbe essere altrimenti? Il mio amico, il mio fratello minore che correva, un tempo, insieme coll’asino selvatico e con la pantera delle pianure, che ha scalato con me le montagne, ucciso il Toro e trucidato Humbaba, custode degli alberi; l’amico che mi era tanto caro e che mi ha seguito in tutte le vicissitudini, è morto. Il destino degli uomini lo ha afferrato, Ho pianto per sette notti e sette giorni senza volergli dar sepoltura, perché pensavo: «Il mio amico risorgerà al mio lamento». Ma gli Annunaki, i Giudici della Morte, lo hanno preso. Egli è andato via e la mia vita ora è solitaria, ed io erro nelle verdi pianure, nei lontani, sconfinati deserti. Come posso tacere se il mio amico, il fratello minore, a me tanto caro, è ritornato argilla? Ed io non potrò morire subito come lui, né mai risorgere? Ed ho paura!

– Gilgamesh – avverte il «Remoto» – dove corri? Mai troverai quanto vai cercando fino a quando dura il mondo, perché gli dei hanno decretato che le tenebre siano alla fine della vita mortale. Perché noi costruiamo una casa che duri in eterno, promulghiamo una legge che duri per sempre ma, dai tempi dei tempi, nulla dura. Il fiume scorre ma sfocia nel mare, il sole sorge poi si nasconde dietro una nube, gli dei distribuiscono la vita ma anche la morte. Quanto sono simili l’addormentato e il morto, l’uno e l’altro immagini della morte, una minore, una maggiore! Il sonno è il simbolo della tua mortalità.

Ma Gilgamesh ancora si lamenta:

– Ho attraversato mari e mai potrò saziarmi di un calmo sonno. Mi sono consumato camminando, il mio abito è caduto in brandelli prima che raggiungessi Siduri della Vite. Ho ucciso il leone e le creature della pianura per nutrirmi della loro carne, per coprirmi della loro pelle fino a quando sono partito per cercarti. Perché tu solo puoi insegnarmi come guadagnarmi la vita immortale, la vita eterna. Tu sei simile ad un uomo, non sei diverso da me, e pure vivi ancora. Penso che potresti sembrare un dio, un valoroso guerriero, ma siedi, ozioso, nel tuo seggio, al sole. Narrami dunque, come hai ottenuto il prezioso dono dell’eternità e perché sei stato accolto nel consesso degli dei.

E Utnapishtim risponde:

– Ti rivelerò i riposti segreti degli dei e ti racconterò come Ea mi ha salvato dal Diluvio.

Gli narra, dunque, come gli dei avessero inondato il mondo, ma per riguardo alla sua grande pietà religiosa, avessero salvato lui solo, Utnapishtim, perché vivesse in eterno nello splendido Dilmun.

– Per quanto ti riguarda – egli continua – che cosa possiamo fare per aiutarti a conquistare quella vita che vai cercando? Dapprima, dobbiamo constatare se puoi superare la prova nel dominare la piccola morte del sonno. Tu devi trascorrere sei notti e sette giorni senza mai dormire.

Ma Gilgamesh aveva camminato per l’immenso deserto ed era stanco. Perciò il sonno lo vince; il sonno, simile a una tempesta, soffia su di lui e Gilgamesh dorme.

Utnapishtim osserva:

– Ecco l’uomo che si illude di conquistare la vita eterna! Dorme come se una bufera lo avesse travolto; egli dorme e il sonno prova che egli è soltanto un uomo. Non avevo forse detto che il dormiente e il morto sono i due aspetti della morte? Moglie, osserva come giace sprofondato nel sonno. Se Gilgamesh non può nemmeno vincere la piccola morte del sonno, tanto meno saprà opporsi alla sua immagine, la vera morte, quando essa giungerà.

La moglie di Utnapishtim osserva:

–  Scuoti l’uomo perché si svegli, perché possa ritornare, pèer la strada dalla quale è giunto, alla sua terra natia.

– Come delusoria è l’umanità! – ribatte il «Remoto». Questo uomo cercherà di ingannarci, negando di aver dormito. Ma noi gli forniremo le prove. Perciò, cuoci al forno alcune pagnotte e, ogni giorno, mettine una fresca vicino al suo capo per segnare il trascorrer del tempo durante il suo sonno.

La moglie mette le pagnotte al forno e, ogni giorno, ne depone una vicino al Re, fin quando la prima pagnotta diventa dura come pietra, la terza resta umida, la sesta fresca, appena sfornata, e la settima ancora impastata. Allora Utnapishtim tocca l’uomo che dorme e lo sveglia.

– Ho dormito a fatica – mormora Gilgamesh.

– Conta le pagnotte e osserva quanti giorni hai dormito.

Allora Gilgamesh comincia a gemere:

–  Dove andrò, ora? Che cosa farò? Ovunque io posi piede, la morte mi segue! Se, infatti, non posso resistere al sonno, alla morte apparente, tanto meno sarò capace di resistere alla sua immagine, la morte!

Utnapishtim ordina al Barcaiolo di condurre il Re alla piscina, perché prenda un bagno e sciacqui i capelli arriffati. E aggiunge:

– Gli offrirò abiti che non mostrino segni di usura, finché egli non sia di ritorno ad Uruk. Tu devi accompagnarlo, poiché lo hai condotto qui attraverso i confini della vita e della morte ed hai infranto le leggi stabilite dagli dei. Non puoi star qui, non puoi più fare il mio Barcaiolo. Urshanabi, devi abbandonare questo luogo.

Urshanabi esegue gli ordini e, quando il Re si è lavato e vestito, varano la barca per riprendere la via del ritorno. Ma la moglie di Utnapishtim dice:

– Gilgamesh era stanco qui e stanco riparte. Che cosa gli offri per tutte le sue sofferenze, per il ritorno alla sua terra?

Allora Utnapishtim chiama i navigatori: il Re afferra un palo e riporta l’imbarcazione verso la secca.

– Gilgamesh – dice il «Remoto» – tu eri stanco quando sei giunto da noi e stanco riparti. Che cosa vorresti ricevere per le tue sofferenze, per il tuo ritorno alla terra? Ti rivelerò un recondito segreto degli dei. Ascoltami bene. In un luogo, sotto l’acqua, cresce una pianticella dalle spine più aguzze di quelle di qualsiasi rosa. Se tu riesci a strapparla, conquisterai il Fiore della Giovinezza che ti renderà ancora giovane.

Utnapishtim gli insegna dove cercarla e Gilgamesh parte con il Barcaiolo. Appena raggiunto il luogo indicato, Gilgamesh si lega ai piedi alcune pietre e balza nell’acqua. E comincia a scendere sempre più giù, nelle profondità del mare. Quando scorge la pianta ne afferra i gambi e, sebbene questi gli pungano le mani, la sradica, poi toglie le pietre legate ai piedi e si lascia riportare alla luce, dalle onde. Poi dice ad Urshanabi:

– Osserva questa pianta, è il Fiore della Giovinezza; ha il potere di ringiovanire un uomo anziano. Tornerò ad Uruk e offrirò la magica erba a tutti i vecchi perché ne mangino. E, quando anche io sarò invecchiato, ne mangerò a mia volta e ritroverò le mie forze.

Gilgamesh e Urshanabi salpano di nuovo verso Uruk e dopo 50 leghe, si fermano per riposare. Intanto è scesa la notte. Tirano la barca a riva dove Gilgamesh, il Re, ha trovato una pozza di chiara e fresca acqua. Vi si immerge, lasciando sul bordo il Fiore della Giovinezza. Ma, nelle profondità dell’acqua, giunge ad un serpente il profumo del Fiore. L’animale emerge, afferra la pianta, la ingoia e, subito, si squama, ritornando giovane.

– Per tale risultato, dunque, mi sono affaticato? Ho sprecato il fluido vitale del mio cuore per un serpente? Questa è la ricompensa? Sebbene non possa godere della vita eterna, pure ho stretto nella mano il Fiore della Giovinezza. Ed ora ho perso tutto e nulla resta. Vieni con me ad Uruk, Urshanabi; abbandoniamo la barca e camminiamo sulla terra. Ti mostrerò la mia grande città dove, almeno, la mia fatica non è stata vana. Ho innalzato le sue mura e i suoi bastioni che resteranno anche dopo la mia morte.

Così, Gilgamesh d’oro, Re dei Re, si rassegna alla morte, al destino degli uomini. Torna stanco dal suo errare e scrive sull’argilla questa storia di antichi tempi. Sebbene uomo mortale, traccia il suo nome dove già sono tracciati nomi di grandi uomini e dove non esistono nomi, innalza un altare agli dei.

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