Gilgamesh – Il toro del cielo

Il toro del cielo

Trascorse il tempo sereno e calmo fino al giorno in cui Ishtar, la crudele Regina dell’Amore, scorse, da Eanna, il Re Gilgamesh seduto sul trono regale, nell’abbigliamento del suo rango. Lo guardò e si innamorò di lui.

– Oh Gilgamesh – disse – se tu volessi sposarmi, io affiderei alla tempesta un carro di lapislazzuli e oro. Su ruote d’oro percorreresti le vie della terra e del cielo, tutti i re e i principi del mondo s’inchinerebbero davanti a te e ti loderebbero.

– Come potrei sposare la Regina del Cielo? Vorresti indossare abbigliamenti terrestri e nutrirti del nostro pane? Inoltre, Signora, tutti gli uomini sanno che sei traditrice. Per Tammuz, il tuo giovane marito, le donne si sono lamentate fino alla fine dell’anno. Perché lo hai fatto morire? Tu hai amato il piccione acrobata e gli hai spezzato l’ala e, ora, nascosto nei boschetti, lancia il suo grido.
Che cosa è accaduto al pastore del gregge che, ogni giorno, ha offerto tanti sacrifici in tuo onore? Lo hai maledetto e trasformato in lupo. I ragazzini, che custodivano il suo gregge, lo hanno inseguito e i suoi cani gli hanno lacerato i fianchi. Poi, che cosa è accaduto a Ishullanu?
Gli hai offerto il tuo amore che egli ha rifiutato. Perciò, per il tuo offeso orgoglio, lo hai abbattuto e hai tramutato il giardiniere di tuo padre in una talpa. Se ti sposassi, ti stancheresti presto di me e mi tratteresti come gli altri.

Un’ira feroce s’impadronì di Ishtar. Ascese in Cielo, si fermò, fremente, davanti a suo padre, e gli disse:

– Gilgamesh mi ha maledetta e rimproverata per le mie azioni. Ha osato rifiutarmi come moglie.

– E se lo ha fatto – ribatté Anu – non hai forse meritato i suoi rimproveri?

– Voglio vendicarmi – gridò la Regina, – Padre, crea per me un Toro del Cielo affinché possa distruggere Gilgamesh. Se tu non mi accontenti, abbatterò la Porta dell’Oltretomba e i morti risusciteranno e saranno più numerosi dei vivi sulla terra.

– Se io ti accontento, verrà la siccità e durerà sette anni. Possiedi tu foraggio per il bestiame e grano per nutrire l’umanità?

– Ne possiedo a sufficienza – rispose Ishtar.

– Allora, sia – mormorò Anu.

Discese il Toro del Cielo e, armato, mosse contro Gilgamesh. I suoi primi soffi uccisero seicento uomini, i secondi soffi ne uccisero in maggior quantità, al terzo sbuffo il Toro scorse Enkidu e lo caricò. Ma Enkidu si teneva in guardia e, ad alta voce, gridò:

– Gilgamesh, presto, cala un fendente della tua spada tra le corna.

Le fauci del Toro biancheggiarono di schiuma e l’animale, per la rabbia, lacerò la terra con gli zoccoli. Enkidu, però, si tenne saldo e Gilgamesh, rapidamente, trafisse il Toro che cadde morto. I fratelli gli tolsero il cuore, lo offrirono a Shamash, il Sole splendente, e presero il corpo.

Ma dalle mura di Uruk giunse, alto, il grido di Ishtar:

– Maledetto chi ha ucciso il Toro. Stia in guardia Gilgamesh, perché già per due volte mi ha schernita.

Enkidu si voltò verso la Regina, strappò la coscia del Toro e gliela scagliò sul volto.

– Così agirei se fossi soltanto capace di afferrarti – urlò.

Ishtar emise un gemito. Chiamò le custodi del tempio ed anche esse si lamentarono sulla coscia destra del Toro. Vicino al mostruoso cadavere si fermò il Re con tutti i suoi artigiani. Segarono le corna enormi e le appesero al muro del palazzo. Poi i fratelli si lavarono le mani nel fiume Eufrate e sfilarono in trionfoper le strade dove la folla si ammassava, nella speranza di scorgere gli eroi.

Gilgamesh ad alta voce gridò alla folla:

– Chi è il più famoso degli uomini?

– Il più famoso degli uomini è Gilgamesh e il secondo Enkidu.

Ma Enkidu era ancora sconvolto dal sogno di quella notte e, quando spuntò il giorno, si recò da Gilgamesh, il Re, e gli narrò tutto.

– Amico mio, ascolta il mio sogno della scorsa notte, quando ho visto il cielo. Tutti gli dei si erano riuniti in assemblea e ho udito il dio Anu che diceva: “I fratelli hanno offeso due volte. Prima hanno ucciso Humbaba, poi il Toro del Cielo. Perciò uno di essi deve morire”. Ed Enlil ha detto: “Gilgamesh non deve morire perché è il Re. Colpite Enkidu”. Shamash ha risposto: “Enkidu è innocente. Perché, dunque, dovrebbe morire?
Egli era ai miei ordini quando i due amici hanno abbattuto il gigante Humbaba. Sebbene questi sia il vostro schiavo, la terra dei Cedri mi appartiene”. Enlil si è arrabbiato con il divino Shamash e gli ha detto: “Tu scendi sulla terra ogni giorno e diventi uomo più che dio. Essi sono egualmente colpevoli, ma Gilgamesh è il Re, posto per mio decreto sul trono di Uruk. Inoltre, egli è per due parti un Dio. Perciò non pretendere lui ma chi è soltanto uomo”.

Dopo aver raccontato il sogno, ad Enkidu venne la febbre, e ogni giorno si diffondeva dalla mano cancrenosa che aveva toccato il cancello della Foresta. Gilgamesh sedette vicino a lui, afflitto:

– Perché gli dei vogliono prenderti al posto mio? Sebbene io aspetti fuori della porta della morte, tu ed io mai ci incontreremo ancora.

Enkidu nell’ardore della febbre, maledisse il cancello della Foresta:

– Ti ho visto di lontano e mi sono stupito per la tua bellezza, perché abili artigiani ti hanno lavorato in Nippur. La tua grandezza è tale che non è possibile trovare altrove un cancello simile a te, perciò non volevo danneggiarti. Oh, cancello, se io avessi saputo che sarei morto per la tua bellezza non avrei lottato con te, non avrei mai colpito le tue travi con la mano nuda, ma, al contrario, avrei alzato l’ascia e ti avrei abbattuto.

Enkidu, in seguito, maledisse la donna del tempio, perché per prima lo aveva condotto ad Uruk, da Gilgamesh:

– Cacciatela, buttatela fuori dal tempio, si rifugi nell’ombra del muro e le strade diventino la sua dimora e tutti la schiaffeggino.

Nell’udire queste parole, Shamash lo chiamò dal Cielo:

– Perché maledici la donna? Essa ha vestito il tuo corpo con il suo abito, ti ha insegnato a parlare, a nutrirti di pane, bere vino. Ti ha consegnato Gilgamesh perché tu fossi suo amico e fratello. E Gilgamesh ti ha offerto un alto seggio nel suo palazzo, un seggio vicino al suo, perché i principi della terra possano baciarti i piedi. Per te il Re ha fatto gemere Uruk; per te, quando sarai sotterrato, egli piangerà. Lascerà crescere i capelli, indosserà una pelle di leone, andrà errando nel deserto per amor tuo.

La collera di Enkidu si placò nell’udire le parole di Shamash. Dimenticò la maledizione e mandò, invece, una benedizione. Intanto giaceva sempre più grave, ardeva per la febbre e i suoi sogni diventavano sempre più terribili della notte precedente.

Una notte, svegliatosi, chiamò l’amico ad alta voce:

– Gilgamesh, la scorsa notte i Cieli gemevano e la Terra echeggiava dell’eco del suono. Mi trovavo solo davanti ad una specie di volto spaventoso, cupo come un uccello della tempesta. Questo mi ha afferrato con robusti artigli, mi ha stretto con forza, mi ha soffocato con zampa di aquila. Poi mi ha trasformato le braccia in ali e mi ha condotto per il sentiero che nessuno percorre due volte, fino alla dimora di Ereshkigal, la Regina della Morte, la dimora che l’uomo, entrato, mai più può abbandonare.
La gente che vi abita porta ali come uccelli e siede nelle tenebre dell’eternità. Loro cibo è la polvere, loro sostentamento l’argilla. E, in quelle tenebre, ho scorto i principi della terra e i loro splendori ridotti a polvere e cenere. La Regina delle Tenebre sedeva sul trono e, davanti a lei, stava accovacciato Belitsheri, lo scriba che tiene i registri di tutti i morti. La Regina stava leggendo una tavoletta che teneva in mano, ma, alzato lo sguardo, mi ha visto. Si è mossa, ha steso la mano, mi ha allontanato. Dopo questa visione mi sono svegliato. E ho paura.

Gilgamesh mormorò:

– Caro amico, il tuo sogno prova che, alla fine della tua vita umana, stanno le tenebre.

La sofferenza di Enkidu aumentava ogni giorno. Al dodicesimo chiamò Gilgamesh e gli sussurrò:

– La collera di Ishtar mi obbliga, ora, a giacere sul letto della vergogna, non come uomo che cade ferito in battaglia ed è benedetto. Io muoio disonorato.

Poi fu silenzio.

Alle prime luci dell’alba, Gilgamesh gridò:

– Anziani di Uruk! Ora piango per il mio amico Enkidu, per lui verso lacrime amare. Egli era la mia ascia, l’arco nella mano destra, lo scudo che mi proteggeva. Ed era anche la mia gioia. Un malvagio avversario mi ha derubato del mio amico, del fratello minore che, un tempo, correva insieme con l’asino selvaggio e con la pantera delle pianure. Noi due insieme abbiamo scalato montagne, ucciso il Toro del Cielo, trucidato Humbaba, il custode degli alberi. Oh Enkidu, dove sei? Ti sei sperduto nelle tenebre? Quale sonno si è impadronito di te? Non odi la mia voce?

Gilgamesh ascoltò allora il cuore di Enkidu. Non batteva più.

Il Re pose sul fratello un velo come ad una sposa e su e giù camminò davanti al suo amico e urlò come un leone o come una leonessa privata dei suoi cuccioli. Si strappò i capelli, si tolse gli abiti regali e pianse.

– Ti ho offerto un seggio alla mia destra perché i principi della terra ti baciassero i piedi. Ora obbligherò il popolo di Uruk a piangere per te, a lamentarsi per te e sulla tua tomba gemerò. Mi lascerò crescere i capelli, indosserò una pelle di leone, vagherò nel deserto per amor tuo.

Sette giorni e sette notti pianse Gilgamesh prima di abbandonare suo fratello a terra. Poi lasciò Uruk e partì per vagare, angosciato, nel deserto.

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