Gilgamesh – L’uccisione di Humbaba

L’uccisione di Humbaba

Gilgamesh si trovava in Uruk e si sentiva triste, mentre rifletteva sulla vita e sulla morte degli uomini. Alla fine si addormentò e sognò della sua agonia, perché egli era per un terzo mortale e partecipava all’amaro destino degli uomini. Si svegliò lamentandosi, e narrò il sogno al caro amico Enkidu.

– Non rattristarti – disse Enkidu – non vivrai per sempre, anche se tua è ancora la regalità e tuo il potere di comandare. Tratta con giustizia il tuo popolo, guadagna il suo affetto e lascia, alla fine, un nome immortale.

– Il mio nome non potrà sopravvivere senza audaci gesta – ribatté Gilgamesh – perciò rechiamoci nella Foresta dei Cedri per diventare famosi.

Enkidu sospirò con amarezza:

– Perché volgi il tuo pensiero alla Foresta dei Cedri?

– In quella Foresta abita Humbaba, il grande gigante, posto da Enlil a proteggere gli alberi, ma ora è diventato troppo orgoglioso. Così, andiamo ad abbatterlo, a distruggerlo, a sradicare il male in quella terra.

– Quando ero una bestia e vagavo per le pianure – mormorò Enkidu – ho visto quella terra. La Foresta dei Cedri si estende per diecimila leghe da un punto all’altro e se una creatura si muove vicino alla sua profondità, Humbaba la ode anche a sessanta leghe di distanza. Quale uomo si avventurerebbe in quel tenebroso reame, quale uomo gradirebbe incontrare il custode degli alberi, il custode dal respiro ardente come il fuoco, dal ruggito potente come il pauroso tuono della tempesta? Nessun uomo sulla terra può eguagliarlo come forza, perché Enlil lo ha reso pericoloso per gli uomini. Chi osa entrare nel suo oscuro regno viene colpito da debolezza. Non ne ritorneremo.

– Quale uomo può vivere eternamente, Enkidu? I nostri giorni sono contati, il tempo fugge veloce e le nostre gesta sono soltanto un alito di vento -sospirò Gilgamesh – Nella città, già temi la morte. Dove è svanita la tua virile forza? Io ti precederò. Tu puoi chiamare e dire: “Avanti, Gilgamesh, non aver paura”, dal luogo dove stai al sicuro. Se io cado, il mio nome sopravviverà. Tutti diranno: “Gilgamesh è caduto combattendo contro il terribile Humbaba” e i figli non ancora nati pronunceranno il mio nome con orgoglio, nei tempi futuri. La tua apprensione mi tormenta e mi angoscia, ma io andrò avanti, mi accingerò a questa grande impresa e abbatterò il cedro. Ordinerò ai miei armieri di forgiare armature adatte a divinità. Quindi vieni con me.

Gilgamesh mette i suoi armieri all’opera, ed essi forgiano grandi spade dal fodero in oro, e un’ascia mostruosa, per la morte di un gigante. Quando tutto è pronto, ognuno di loro si arma di massicce spade del peso di dieci talenti. Gilgamesh chiama gli anziani di Uruk e dice:

– Oh, anziani, ascoltate il vostro Re. Desidero vedere colui del quale parla tutto il mondo. Colui il cui solo nome getta sulla terra il terrore. Lo vincerò nella Foresta dei Cedri e la terra sentirà parlare di Gilgamesh.

Gli anziani di Uruk dicono al loro Re:

– Tu sei giovane, o Gilgamesh. Il tuo cuore è temerario e ignori a quale impresa ti accingi. Humbaba non assomiglia ad alcun uomo. Chi può resistere alla sua forza? Il suo urlo è simile alla tempesta; le sue fauci lanciano fiamme, ed egli esala la morte per l’umanità. Perché vuoi tentare? Falliresti.

Gilgamesh getta uno sguardo a Enkidu e ride, dicendo:

– Quale parola risponderò? Una parola di paura? Volete che viviamo tutta la vita invecchiando nella paura e nell’ozio?

Gli anziani riflettono:

– Se vuoi veramente tentare, chiedi allora al tuo patrono di proteggerti, di riportarti in salvo ad Uruk, di farti ritornare al molo della città.

Gilgamesh si inginocchia sulla terra, davanti al dio del Sole, Shamash, e così lo prega:

– Parto, Shamash, e alzo le mani per pregarti che la fortuna mi assista. Che io ritorni ad Uruk, sano e salvo.

Gilgamesh chiama il suo amico perché lo segua nel tempio a preparare gli auspici. Ne esce piangendo, il volto rigato dalle lacrime. Gli auspici annunciano calamità.

– Devo procedere solo, dunque, Shamash – grida Gilgamesh – senza la tua guida, per una strada mai percorsa.

I suoi armieri portano le armi, le pesanti spade, le massicce asce, e pongono nella sua mano un arco di Anshan. Gli anziani lo benedicono e gli forniscono consigli per il viaggio.

– Non fidarti della tua forza! Enkidu deve precederti, perché conosce il percorso, ha già battuto la strada che conduce al cancello. Se ti precede salverà il suo amico. Che Shamash ti accordi vittoria e ti conceda di vedere l’adempimento dei tuoi desideri. Apra per te i chiusi sentieri, procuri sogni propizi, e ottenga che tu uccida Humbaba come se fosse un bambino. Nel fiume della foresta, bagna il tuo piede. Scava una sorgente, ogni sera, perché l’acqua dell’otre sia sempre pura, in offerta a Shamash.

Enkidu dice:

– È tempo di andare, amico. Avviamoci per la nostra strada. Non temere, ma seguimi.

Gilgamesh osserva:

– Prima, desidero salutare Ninsun, la saggia mia madre. Andiamo al tempio Egalmah, la sua dimora.

Mano nella mano, gli amici giungono a Egalmah, il palazzo della dea.

– Ascoltami, Madre – dice il Re Gilgamesh – perché, da oggi, devo percorrere una strana via e da oggi affrontare imprevisti pericoli fino al giorno del mio ritorno. Devo abbattere il guardiano degli alberi per conquistarmi un’eterna fama. Prega, perciò, Shamash a mia intenzione, perché io possa sradicare il male di questa terra.

Ninsun, la Regina, indossa i suoi abiti sfarzosi, pone sul capo il diadema regale. Sale sul tetto di Egalmah, dove si trova l’altare del dio Sole, vicinissimo al Cielo e, gettando incenso sul fuoco sacro, innalza le sue preghiere nelle spire del fumo.

– Perché hai dato a mio figlio un cuore irrequieto? Ore che lo hai intenerito mentre si inoltra per una strana via, per affrontare imprevisti pericoli, proteggilo fino al giorno del suo ritorno. Quando avrai distolto il tuo sguardo dalla terra, affidalo alla Guardia della Notte, fino al tuo ritorno con Ava, sposa dell’Alba, fino a quando i tuoi radiosi raggi sorveglino di nuovo il mondo.

Ninsun spegne l’incenso e torna dove il figlio ancora l’aspetta con Enkidu. Poi si volge a questi e gli dice:

– Enkidu, da questo giorno, tu sei mio figlio. Ti ho adottato. Qui è il mio amuleto: è un voto fatto perché tu sia mio figlio. Affido alle tue cure Gilgamesh, tuo fratello. Riconducilo a me quando tutto sarà finito.

I due amici le dicono addio, si avviano e, appena fuori dai cancelli, gli anziani gridano loro:

– Durante l’assemblea, abbiamo ascoltato le tue parole: ora, in cambio, rifletti sulle nostre. Oh, Gilgamesh, lasciati proteggere dal fratello Enkidu che ti è affezionato.

– Non temete – replica Enkidu – tutto andrà bene.

Camminarono per venti leghe prima di nutrirsi e più di trenta leghe prima di fermarsi per dormire. Compirono un viaggio di sei settimane in tre giorni soltanto e, dopo aver attraversato la settima montagna incontrata lungo il loro percorso, scorsero davanti a loro il cancello che conduceva alla Foresta. Era chiuso e lo sorvegliava un custode, posto da Humbaba, il grande gigante. Notevole di statura, il custode presentava un aspetto così terribile da sembrare il gigante stesso. E Gilgamesh si ritirò.

– Ricorda le tue promesse – gridò Enkidu – resisti e uccidi quel custorde!

A quelle parole il Re prese coraggio e disse:

– Dobbiamo agire in fretta. Egli, per abitudine, indossa sette cotte di maglia quando si prepara a combattere. Ne porta già una. Se indugiamo sarà armato da capo a piedi, e allora come potremo ucciderlo?

Simile ad un furioso, selvaggio toro, il guardiano muggiva e gridava:

– Andate via! Non entrerete qui. Questa è la Foresta dei Cedri, il reame di Humbaba, il gigante. Nessun mortale può passare da questi cancelli.

– Noi passeremo – ribatté Gilgamesh, il Re.

I due uomini avanzarono e abbatterono con un colpo il guardiano.

Sebbene fosse lo schiavo del gigante, e poderoso e di alta statura, gli fu tolta la vita, perché aveva indossato soltanto una cotta di maglia.

Enkidu, appena visto il guardiano steso a terra, morto, si avvicinò al cancello, ma questo gli parve di tale mirabile esecuzione da non avere il coraggio di colpirlo con l’ascia. Così Enkidu lo spinse, per aprirlo, con la mano tesa; e subito balzò indietro con un urlo, perché nel cancello stava nascosto un segreto.

Enkidu cominciò a gridare:

– Ascolta, non entriamo nella Foresta! Guarda la mia mano. Quando ho toccato il cancello, ha perso forza ed ora pende inerte al mio fianco. Qualche segreto incantesimo è racchiuso nel cancello. Non proseguiamo!

– Dovremo forse tornare indietro, ora che siamo giunti così lontano? – chiese Gilgamesh – vorresti rimanere indietro? No, resta con me. La debolezza passerà presto. Noi entreremo insieme in questa profonda, immensa foresta e compiremo l’impresa per la quale siamo venuti fin qui. Dimentica i tuoi pensieri di morte.

Allora entrarono nel cancello e trattennero il respiro. Le loro parole si placarono nel silenzio. Immobili, fissavano la Foresta e la verde montagna. Osservarono le altezze dei cedri e l’esteso sentiero nel quale in gigante amava passeggiare nella fresca, piacevole ombra. Ma le ombre della Montagna del Cedro erano più verdi di qualsiasi altro monte e Gilgamesh, al tramonto, scavò una sorgente per offrire a Shamash le acque scaturite dalla terra. Poi, versò farina e innalzò una preghiera:

– Montagna del Cedro, inviami un segno per rivelarmi se il mio destino sia buono o cattivo.

Infine i due amici si sdraiarono per dormire. Scocca la mezzanotte. Gilgamesh si sveglia e chiama l’amico:

– Enkidu, ho sognato che ci trovavamo vicino ad una profonda gola, quando una montagna è crollata. Vicino a lei sembravamo fragili come farfalle. Ho sognato ancora una volta; ancora una volta la montagna è crollata. Mi ha gettato a terra, mi ha calpestato un piede. Allora ha sfavillato la luce nella quale si intravedeva un’immagine più bella di qualsiasi altra sulla terra. Mi ha liberato dal peso della montagna, mi ha allontanato dal pericolo offrendomi acqua, si è seduta sul mio piede.

Enkidu risponde: – Questo sogno è propizio. La montagna rappresenta Humbaba. Certo significa che noi, allo stesso modo e con l’aiuto di Shamash, Dio del Sole, otterremo la disfatta del gigante.

Il giorno seguente i viaggiatori si rimettono in cammino e Gilgamesh, ancora una volta, al tramonto, scava una sorgente in onore del Dio Sole e di nuovo sparge farina sulla terra. E intanto prega:

– Montagna, manda un sogno a Enkidu per rivelargli se il suo destino sia buono o cattivo.

La montagna manda a Enkidu un sogno nel quale egli vede cadere una fredda pioggia, ma, spaventato, tace. In quel momento Gilgamesh si sveglia:

– Amico mio – dice – mi hai forse chiamato? Mi hai forse toccato, o forse un dio è passato da questa strada? Ho sognato un terzo sogno. Un lampo sfolgorava nell’aria. Il cielo tuonava, la terra echeggiava, la luce svaniva, calavano le tenebre. La luminosità si perdeva e il fuoco scompariva. Allora è giunta la morte a ridurre il mondo in cenere e polvere.

– Non spaventarti, amico – osserva Enkidu – anche questo sogno potrebbe significare che noi uccideremo Humbaba e la sua morte può essere spaventosa come la tempesta che hai visto in sogno. – Sebbene Enkidu parli con serenità il suo cuore è di ghiaccio.

Gli amici decidono di proseguire l’impresa. Gilgamesh prende l’ascia e abbatte un cedro. Il gigante Humbaba ode, di lontano, il rumore e si infuria:

– Chi è venuto fra i miei alberi? Chi ha abbattuto uno dei miei cedri?

Allora, dal Cielo scende la voce di Shamash, dio del Sole:

– Non temere, Gilgamesh. Procedi senza paura, con il mio aiuto.

Gli uomini procedono ma, presto, tremano dalla paura, quando il gigante Humbaba giunge, urlando, dalla sua casa, perché è più immenso e terribile di quanto lo descrivessero le leggende. E fissa il Re con lo sguardo della morte. Gilgamesh comincia a perdere le forze, né può sperare che Enkidu lo difenda con una sola mano valida. Chiama allora ad alta voce il divino Shamash:

– Aiutami, Signore; ti ho onorato, ho seguito la strada del mio destino che mi ha condotto in questo luogo per uccidere Humbaba. Egli rappresenta il male e bisogna estirpare tutto il male dalla terra.

Il Dio del Sole ode la voce del Re e, subito, chiama dalle lontane caverne il Gran Vento e il Turbine, la Tempesta e la Bufera, il Vento del Nord e quello del Sud, il Vento Polare e il Vento Rovente. Tutti si scagliano contro l’occhio malvagio del Gigante che si trova nell’impossibilità di avanzare o di indietreggiare. Impotente, implora:

– Lasciamo andare, Gilgamesh. Sarai il mio padrone ed io sarò il tuo schiavo, se mi farai grazia della vita. Abbatterò i cedri che ho coltivato sulla Montagna o costruirò per te un palazzo. Abbi pietà, Gilgamesh!

Il suo doloroso appello commuove Gilgamesh che dice:

– Non è forse giusto da parte nostra lasciar libero il prigioniero, rimandare a casa della madre il prigioniero, lasciar tornare al nido l’uccello catturato?

Allora Enkidu protesta:

– Non è giusto lasciar libero questo prigioniero, rimandare a casa della madre questo prigioniero, far tornare al nido questo uccello, se tu vuoi rivedere ancora una volta tua madre. Dove è il tuo discernimento? A che cosa serve la forza se la saggezza non la dirige? Se non lo uccidiamo, si rivolterà contro di noi. Non ascoltare la sua implorazione. Egli è lo spirito del male e deve morire.

– Accadrà come nel sogno – ribatté Gilgamesh – se lo uccidiamo, lo splendore della nostra fama si oscurerà e le nostre gesta diventeranno polvere.

– Non è vero – replica Enkidu – la nostra fama si accrescerà. Deve morire il gigante, o dobbiamo morire noi. Scegli.

Allora Gilgamesh colpisce per primo, poi Enkidu e al terzo colpo, subito Humbaba giace. Ma egli era il custode dei cedri; il suo potere faceva tremare le foreste. Ora, la sua morte provoca un terremoto, le montagne si muovono, colline e pianure si spostano. Ma Gilgamesh abbatte ancora i cedri, Enkidu ne strappa le radici attorcigliate per un lungo tratto fino all’Eufrate. Poi essi voltano le spalle alla Foresta e tornano a casa.

 

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