Il Cimitero dei Sonnambuli

Il Cimitero dei SOnnambuli, racconto spin-off del romanzo Il Ponte oscuro dell'Anima di Marcello Aldo Iori

Freddo pungente, deve socchiudere gli occhi altrimenti gli fanno male. Muschio, licheni, la poca luce filtra dall’abisso di alberi che oscurano il cielo. In aiuto, solo la sua torcia. Il fascio buca l’oscurità, sinistra, ci sono strati di nebbia fina, si muovono come lupi, a branchi attanagliano le radici degli alberi e sfilano sul terreno come serpi. L’odore se l’è portato nei suoi innumerevoli viaggi, talvolta lo agitava nelle notti più insonni. Odore di semi abbrustoliti, di composti chimici in decomposizione. Come dimenticare? Odore della morte, di pelle che si squama al calore.

Un masso. Gli ricorda che suo zio ci era andato a sbattere.

Alla fine sono morti tutti.

Manterrà la promessa fatta.

I rami a terra scricchiolano. Sempre loro. Sono come segnali, campanelli d’allarme per risvegliare le cose del Bosco. Non c’è niente di peggio che essere lì al sorgere del male.

Passi cauti lo portano a superare un banco di nebbia. Ha resistito a cose peggiori, ha dovuto combattere per imparare a difendersi. Ha dovuto farlo per capire.

Il suo ultimo viaggio, ma non importa.

Avanti, Tim, non fermarti.

C’è qualcosa nel Bosco, respira, bocche di fumo nascono e muoiono nell’aria, come se ci fossero delle persone invisibili a produrle. Lontano, laggiù, ma ci arriverà, una questione di tempo.

Non per Lei.

I ragazzi gli hanno consigliato di aspettare, di non andarci da solo ma da quando ha messo piede a Nordkapp non ha resistito ad affrontare quella pazzia. Suo padre e Simons ci sono morti a Val, non è un posto qualunque.

Il movimento di un uccello lo destabilizza, carica il fucile e lo punta nella direzione del rumore. Lo sbattere d’ali si muove sopra gli alberi, spostando le fronde più alte. Il cielo è blu e viola, una notte impossibile da descrivere.

Ha sofferto orrori peggiori dei fantasmi che potrebbe incontrare, le sue stesse mani ne sanno qualcosa, ha dovuto farlo, non c’era altro modo, o lui si sarebbe mangiato il resto della famiglia.

Entra nella nebbia, un altro banco, questa volta è fitto ma con l’aiuto della torcia riesce a scorgere quelle sagome indistinte che fumano dalla bocca. Stanno in alto, penzolano, sono molti.

Il fucile è carico, può difendersi.

È da giorni che prova ad arrivare al castello, Arvid, uno dei figli dello scomparso Knut Jacobsen, lo ha avvisato che nell’ora del risveglio la via si rivela, lo ha sentito dire degli anziani. In effetti il Bosco si è fatto trovare solo oggi. Lui, il vero Bosco, non quei soliti quattro alberelli del promontorio Knivskjellodden.

Dannato freddo. Stringe i denti, avanza. Non ne può più. Di quel passo morirà assiderato, sente le dita dei piedi rigidi, se cerca di piegarle ci riesce a fatica e con dolore.

Dannata nebbia.

Quello è sicuramente il richiamo di un lupo. Marie lo vedeva. Occhi storti, denti aguzzi. Nei loro scritti, sia Theodore che Simons, raccomandavano di starci alla larga, che era una delle creature infernali di Hel. Simons, però, non sapeva di Hel, ha dovuto investigare e, alla fine, è stato nonno a confessare, a dire la verità.

È colpa sua.

Un tempo ammirava Giacomo, adesso lo odia. Si merita tutto il male che ha subito.

Stringe la canna del fucile, adirato. Non ci vede bene da un occhio ma fa lo stesso, l’altro è abbastanza. Si gira di scatto e punta l’arma nella direzione di un ramo che si spezza e cade a terra insieme a una specie di sacco nero in un tonfo secco.

Lui sta arrivando. Il lupo dagli occhi storti. Può sentire la puzza della sua pelle umida e impastata di fango, lo stesso odore degli animali selvatici, dei cavalli liberi sulle montagne o dei maiali nelle fattorie, con un pizzico di putrefazione di budella, perché lui viene dagli anfratti dell’inferno, da posti più profondi della Terra.

Si avvicina al ramo spezzato a passi da gigante. Fa troppo freddo per stare a lungo in un posto simile. Se guarda l’orizzonte pieno di tronchi e rami bassi, non c’è una fine, se non la sua.

Ha fallito ma tornerà.

Il sacco è un uomo. È di schiena con un cappio stretto al collo, il viso piantato nel terreno sudicio, avvolto da uno spesso cappotto marrone. Scarafaggi e lumache camminano sul suo corpo, entrano nelle vesti, nelle orecchie che spuntano da un basso cappello nero premuto sulla testa. Con un calcio lo rivolta, ha il viso livido, senza occhi e né denti. Le mascelle sono scomposte e il naso è rotto. Chiunque lo abbia messo lì, gli ha asportato denti e occhi con la forza delle mani, tirando, strappando, lacerando la pelle e facendo sporgere le ossa.

Un altro rumore, sopra di lui. Con uno scatto punta il fucile in alto e quello che vede è un orrore infinito. Ce ne sono altri, molti di più di quanto pensasse, appesi come abiti da sera, penzolano dagli alberi avvolti nei loro cappotti o nei pigiami, le braccia distese sui fianchi, unghie lacerate e sporche di terra, vene così spesse che sembrano voler esplodere dalla pelle.

E dondolano piano, come talvolta il vento dondola le fronde degli alberi, ma non c’è vento lì. Anche se le loro espressioni di schermo e oscurità sono pietrificate nell’eterna morte, dalle bocche sventrate escono batuffoli di nebbia, a spirale salgono di pochi centimetri e si dissolvono. Il rumore delle corde che fanno pressione sui rami raggiunge i suoi sensi, una musica in crescendo.

Indietreggia voltandosi continuamente da una parte all’altra, ansante, spaventato. Quelli sono i sonnambuli che si sono persi a Val, che non hanno mai fatto ritorno alle proprie case, dalle proprie famiglie.

Sono tutti lì.

Qualcosa li ha presi, nutrono il Bosco, nutrono gli animali del Bosco. Zanzare, può giurare che quel ronzio è di zanzare. Qualcuna gli punge la guancia e si schiaffeggia per ucciderla. Sangue.

“Maledizione.”

Corre via, si abbassa per evitare i piedi di un impiccato, poi sbatte contro un tronco e per poco si spara a una gamba. Deve mantenere la calma. Il cigolio delle corde sui rami fruscia più forte, i corpi dondolano e qualche piede è preso da spasmi improvvisi.

…si stanno risvegliando.

Qualcosa striscia per terra e punta la torcia di fronte a sé. Poi lo vede. Il corpo dell’uomo a terra, è lui, cerca la posizione eretta, un orso al risveglio. Si muove con disordine, per reggersi si appoggia all’albero vicino e chiede aiuto con la voce di un ubriaco. Allunga una mano per trovare un altro sostegno, agguanta il vuoto, vacilla, Tim non lo sa però comprende che quella cosa non è una minaccia.

Deve scappare. Tornare indietro. Ha fallito.

Un altro ramo cede, un altro corpo che cade e si spezza le gambe al contatto con il suolo. Scricchiolio di ossa, e Dio lo sa che anche lui ha provato quel dolore.

“Santo cielo”, esclama a bassa voce.

Punta il fucile, prende la mira e fa fuoco sul primo impiccato. Il proiettile lo raggiunge alla schiena, facendolo stramazzare al suolo. L’altro è troppo lontano, c’è nebbia e non è così bravo a prendere la mira.

Corre. Non c’è speranza per quella notte.

E, poi, lui sta arrivando. L’odore della sua pelliccia è più forte, gli dà la nausea. Ha l’impressione che sia lì intorno, accucciato in uno di quei banchi di nebbia, in agguato. Non deve farsi prendere. Non deve lasciarsi ingannare. Marie ha seguito la farfalla e si è persa.

È lì per lei, che la ama più di ogni cosa a questo mondo e deve ritrovarla.

di Marcello Aldo Iori


Racconto spin-off del romanzo Il Ponte Oscuro dell’Anima dello stesso autore

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