IL FIUME E IL DESERTO – Parte diciassettesima: Vulcani e macchine

Giugno. Anno del Signore 1530

Le forme a due braccia e due gambe erano immobili, piazzate in fila davanti ai carrelli metallici in fila lungo il corridoio dell’enorme nave. Silenziosi e pazienti come solo automini potevano esserlo.

Pochi piedi sotto, uomini a torso nudo marciavano lungo il sottocoperta. Solo la disciplina li distingueva come soldati. In quell’ambiente caldo, nonostante i ventilatori che donavano zaffate di refrigerio, era permesso girare senza uniforme.

Gli italiani si sentivano alquanto in imbarazzo, ma gli alleati americani, abituati alla nudità sembravano perfettamente a loro agio. Quello che li accomunava era non soltanto la bramosia di menare le mani ma anche la curiosità di nuove esperienze.  Li attendeva un viaggio lunghissimo, al termine del quale sarebbero sbarcati in terre mai viste prima.  Avrebbero combattuto contro guerrieri valorosi.

Per dare vita alle enormi portaornitotteri era necessario trasportare a bordo lava bollente direttamente dal vulcano. Per le loro tre navi bastavano a malapena gli automini sul ponte superiore. Non si poteva costringere uomini a compiere un lavoro simile. Ma tra le fila correvano voci che il nemico fosse ormai in grado di fabbricare macchine simili e che probabilmente usassero schiavi per quell’opera disumana.

La loro missione sarebbe stata anche quella di liberare quelle genti dalla servitù. Il Giapangu era una terra in preda alla guerra civile e all’anarchia. Avrebbero loro, forse, riportato pace e ordine?

Satanico sudava, bestemmiava e imprecava. Piccola Venezia, chiamavano quelle terre gli spagnoli. Niente di meno appropriato. Niente canali, gente festosa. Quella era l’anticamera dell’Inferno. Fumi e vulcani. Piccola Stromboli o piccola Etna sarebbe stato il vero nome da affibbiare a quelle terre.

La Duchessa era ancora più furente e lui ne fece le spese.

«Messer Satanico, ci avete condotto nel regno che più si confà al vostro soprannome. Allora, dove sono queste navi? Non si vede anima viva per miglia.»

La donna aveva ragione. L’ipotesi di Lukia faceva acqua, anzi fango, da tutte le parti. E più il corpo di spedizione andava avanti e più si doveva accettare che loro si trovassero nel luogo sbagliato. Maledetta mummia e le sue parole sibilline. Avevano rimandato l’attacco sprecando una decina di giorni per quell’impresa inutile.

I venti spagnoli al comando della Duchessa stringevano i lanciamissili lanciandogli sguardi furenti. La voglia di puntarglieli contro aleggiava nell’aria ammorbata da esalazioni sulfuree. C’era una sola cosa da fare: annullare la missione e ammansire la nobildonna prima che il suo temperamento focoso le facesse venire voglia di dare ordini che sarebbero risultati a lui fatali.

Se lui fosse stato ucciso lei e gli altri sarebbero dovuti tornare in Spagna a bordo delle bagnarole di quel paese. Oltre a tutto, addio vicereame. Ma al momento sembrava che il raziocinio stesse abbandonando la sua alleata e i suoi scagnozzi. Con consumata dialettica prese la decisione migliore condendola come se stesse parlando di vittoria.

«Nobile Duchessa. Davanti ai nostri occhi abbiamo la prova lampante che il nemico non dispone di alcuna portaornitotteri. La nostra missione esplorativa è stata un successo, oltre alla dimostrazione che non bisogna dar credito a profezie di morti che ogni tanto si fanno vivi. Missione compiuta. Lasciamo questo inferno e voliamo nuovamente a oriente. Dopo avere riportato voi e i vostri prodi in Spagna ritornerò in Egitto, a iniziare finalmente la guerra.»

Forse si trattava di sollievo. Gli occhi della Duchessa lo guardarono senza più aggressività. Oppure, in quello sguardo c’era qualcos’altro. Da quanto tempo non stava con una donna? Una donna che non fosse una calcolatrice come Lucrezia o una che si credeva Cleopatra, o peggio, una morta che ogni tanto tornava in vita. Due belle, una un po’ consumata dal tempo ma sempre attraente e la seconda stupenda. Ma non certo carne da letto.

L’ultima, forse un tempo bella, ma fortunatamente coperta da fasce per nascondere chissà quale volto orrendo consumato dai millenni. La Duchessa, nonostante l’età, era ancora appetibile. Anche lui stesso non era più il giovane bellissimo che aveva fatto battere cuori di uno stuolo di donzelle.

Durante il cammino della cosiddetta ritirata strategica, per ore, Satanico orchestrò piani di conquista. Ma tutt’altro che bellici.

Dal ponte della portaornitotteri Okinawa l’ammiraglio Shimada scrutava il buio; soltanto la bussola gli indicava la strada verso la sua meta nella notte buia e soltanto le carte confermavano che sotto di lui c’era il mare. Era da poco passata la mezzanotte, quando un bagliore ruppe le tenebre. Il suo cuore esultò alla vista del cratere dello Stromboli. Dopo anni vissuti sopra il Fushijama gli sembrò di tornare a casa.

La consapevolezza che anche nei paesi del Sole Calante esistessero vulcani  non lo fece più sentire straniero in quelle terre che entro poco sarebbero divenute anche sue. In Italia ve ne erano altri tre: l’Etna, il Vesuvio e Vulcano, per antonomasia. Quella nazione era l’unica in tutta l’Europa Meridionale a possedere il magico nettare bollente per dare vita alle navi: la lava. E Stromboli era stato sottratto alla Repubblica senza che nessuno lo sapesse ancora.

In breve, la portaornitotteri si trovò allo zenit della montagna di fuoco. Shimada abbaiò ordini dal portavoce metallico e il gigante dell’aria scese lentamente di quota, trovandosi alla fine quasi perfettamente nel centro di quel cerchio in cima al cono del monte. Un altro ordine e le enormi zampe metalliche vennero estratte dalla fiancate. In breve la Okinawa si trovò sopra la lava, puntellata ai fianchi della parete interna del monte, troppo grande perché questo la inghiottisse e perfettamente parallela al terreno.

L’amore che Shimada provava per Lucrezia era pari soltanto all’ammirazione per l’alleato di lei. Dentro il corpo effeminato dell’uomo si nascondeva non soltanto un genio ma anche un ottimo maestro da cui lui aveva imparato in fretta. Non a costruire quelle fantastiche macchine, ma a manovrarle e dominarle.

Shimada le considerava quasi alla stregua di esseri viventi. L’enorme ammiraglia era come un’estensione del suo corpo, un animale addomesticato. E lo stesso valeva per gli automini e gli argani semoventi. Se non avesse avuto fretta, le macchine sarebbero state sufficienti per quel lavoro, ma i tempi stringevano e i venti schiavi portati da Nippon supportarono macchine antropomorfe o meno.

Quando l’alba sorse e la lava necessaria per il resto della flotta si trovò a bordo, non provò rimorso per i tre schiavi morti durante l’operazione, due uccisi dalle esalazioni e uno caduto nel cratere. Il sapere la nave stipata del nettare vulcanico gli diede energia, nonostante non avesse dormito. Avrebbe dovuto attendere la notte per ripartire. Nascosta nel cratere, la Okinawa non avrebbe corso il rischio di venire avvistata. Era ora di occupare  l’isola.

                                                                          ***

Suor Orsola sapeva di non essere sola sull’isola, anche se attorno a lei gli unici uomini erano ora cadaveri. Li aveva ammazzati, ma, in nome del Signore con cui era stata sposata, li aveva sepolti tutti, dando loro la benedizione cristiana, perdonandoli per aver servito l’odiata Repubblica.

Quando un ornitottero a volo verticale si innalzò dal cratere dello Stromboli, capì che entro poco qualche condottiero straniero e alleato si sarebbe presentato. Non era ancora la governatrice di Malta, ma al momento lo era di quell’isola che lei era riuscita a conquistare, da sola.

E quando il velivolo atterrò davanti alla caserma dove una ventina di croci di caduti avversari erano in fila, nonostante l’abito talare scolorito, si sentì una condottiera degna di consegnare le sue conquiste a un altro di pari rango.

Un giapanghese uscì dal portello. Per la prima volta in tanti anni un uomo d’arme si inchinava davanti a lei.  Altri armigeri seguirono, armati di rivoltoni e lanciamissili. Una ventina circa.

Il condottiero giapanghese parlò in un italiano quasi senza inflessioni.

«Onorevole governatrice, la mia possente nave avrebbe posto per molte centinaia di uomini, ma ho dovuto fare spazio alla riserva di lava, indispensabile per dare vita alle altre portaornitotteri in Egitto. Stanotte salperò, ma questi prodi samurai rimarranno qui in qualità di truppe d’occupazione del  primo lembo d’Italia appena conquistato grazie alla vostra azione. Ma ben presto arriveranno i rinforzi per difendere a oltranza l’isola e il suo indispensabile vulcano.»

Il condottiero diede ordini nella sua lingua e un attimo dopo i guerrieri entrarono nella caserma. Il vessillo del Leone di San Marco venne ammainato e al suo posto alzata una bandiera con un sole rosso, due lampi e uno scarabeo. Una nuova bandiera da servire, che un giorno avrebbe garrito sui pennoni delle fortezze di Malta.

CONTINUA…

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di Paolo Ninzatti

Racconto breve ambientato nell’universo del romanzo “Le ali del serpente” dello stesso autore.

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