IL FIUME E IL DESERTO – Parte ottava: Civiltà in guerra

Aprile. Anno del Signore 1530

Il Doge, l’agente Musico, Capitan Angelo e il Condottiero Tagliaferri ascoltarono il rapporto dell’agente Ahmed.

«Si considerano ormai un triumvirato, possiedono macchine più potenti delle nostre, fabbricate in Giapangu. Stanno soltanto aspettando che la Repubblica e L’Impero Ottomano si guerreggino, indebolendosi, per trionfare loro. Nonostante abbiano soltanto usato fumi soporiferi per l’attacco a Baghdad, hanno ottenuto l’effetto desiderato: che la colpa ricada su di noi. E adesso Solimano è furente e ci sta muovendo guerra.»

Volti dall’espressione preoccupata ascoltavano in silenzio. L’agente proseguì.

«Le spie dei triumviri sono a conoscenza dei piani di guerra ottomani.»

Tacque un attimo e con un sorriso furbo, aggiunse: «Ma io ho carpito le informazioni e adesso so dove colpiranno, Eccellenza.»

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Barbarossa ammirava la sua flotta pronta a salpare dal porto di Algeri, il suo dominio. Non c’era voluto molto a preparare le navi, perché queste erano sempre pronte a ogni spedizione.

Prima dell’arrivo del messaggero del Sultano, lui e i suoi valorosi marinai erano soltanto dei pirati, dediti ad assalti alle città costiere spagnole, con il beneplacito dell’Impero Ottomano, ma con ordini tassativi di non azzardarsi ad attaccare le coste italiane.

Barbarossa non temeva le macchine volanti degli infedeli, ma la Repubblica non doveva essere toccata, in quanto alleata dei turchi. Ma giorni prima il messaggero di Solimano gli aveva consegnato il dispaccio e un grande sogno era divenuto realtà: era stato nominato ammiraglio, non soltanto, ma gli era stata affidata la missione di attaccare con tutte le sue forze la Sicilia e Malta, da quando l’Italia aveva tradito l’alleanza e il Doge impazzito aveva voltato faccia attaccando proditoriamente Baghdad.

La Repubblica si era servita di automini e mercenari reclutati nell’Estremo Oriente. Segno che gli italiani si stavano rammollendo e mandavano stranieri a rischiare la pelle. E anche questa volta avevano fallito. Solimano era protetto da Allah: la sua guardia del corpo aveva fatto strage degli asiatici e ora, incolume ma ben nascosto al sicuro, il Sultano chiedeva giustamente vendetta. E lui era uno degli uomini destinati a colpire: il pirata Barbarossa, ora promosso ammiraglio.

I suoi prodi avrebbero finto un attacco all’Egitto ma non appena passata Tunisi avrebbero cambiato rotta e sarebbero sbarcati sulle coste delle due isole. Non appena conquistate le città costiere, avrebbero preso la popolazione in ostaggio usandola come scudo da eventuali attacchi dal cielo. E dall’altra parte del Mediterraneo, una seconda flotta, sempre fingendo un attacco all’Egitto ribelle, avrebbe fatto vela verso Cipro attaccandola di sorpresa.

Con orgoglio pensò che l’uomo che avrebbe preso in ostaggio la popolazione greca dell’isola era stato il suo luogotenente: il feroce Dragut, chiamato La Spada Vendicatrice dell’Islam, anch’gli promosso ad ammiraglio da Solimano.

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Sotto le sabbie del deserto, lontano dai mari, i registi della guerra prossima ventura sedevano a consiglio. L’artefice della strategia era Freja, che la illustrò ai suoi alleati.

«Il nostro doppio agente ha già fornito al Doge le informazioni distorte e quel vecchio bastardo è cascato nell’inganno. Non appena le flotte di Barbarossa e Dragut faranno vela verso la Sicilia, Malta e Cipro, l’intera armata dell’aria della Repubblica Italiana attaccherà e le distruggerà. Sarà allora che colpiremo.
Gli ornitotteri si alzeranno dai ponti delle nostre navi volanti e i kamikaze a bordo degli ornitotteri si getteranno sulle aerogalee e i loro velivoli. Gli italiani avranno le armi scariche dopo aver usato le munizioni contro gli ottomani. Sarà una strage, e nel giro di un giorno avremo spazzato via sia la marina turca che l’aviazione italiana.»

Fece una pausa osservando i volti seri dei suoi alleati. Con consumata diplomazia si prodigò a nutrirli col pane dell’adulazione.

«I possenti giganti del cielo progettati dalla geniale mente di Gabriele faranno sbarcare in Italia e nell’intero Impero Ottomano i prodi beduini del Grande Egitto risorto sotto il regno della dea regina Iside, supportati dai samurai del Sol Levante e dagli automini. Ormai unici padroni dei cieli attaccheremo Cina, India e America. Come Solimano, anche i sovrani di quei paesi verranno soggiogati alla magia di Iside e sarà l’inizio del Nuovo Ordine, dove le forze dell’Ombra sotto i vessilli dello Scarabeo e del Sole Nascente fonderanno l’Impero più grande che mano umana abbia mai fondato.»

L’entusiasmo la assalì e, terminata l’apologia data in pasto agli altri due vanagloriosi, declamò con convinzione.

«Un impero in cui, senza varcare confini alcuni, si potrà viaggiare ritornando al punto di partenza. Come un serpente che si morda la coda circondando l’intero mondo. Il Serpente della leggenda norrena, che dopo il Ragnarok, la caduta degli dei, ritornerà portare stabilità.»

Faticò a frenare il proprio entusiasmo ora che dopo anni la sua missione in nome degli dei stava entrando nella fase finale. Prese una tela e l’aprì posandola sul tavolo e mostrandola agli altri. Un sole rosso raggiante con al centro uno scarabeo nero. E sotto, una runa simile a un lampo.

«La bandiera del nostro Impero, destinato a durare mille anni.»

Iside osservò il sole e ne contò i raggi: quattordici. Quel simbolo era la versione doppia del talismano al collo della prigioniera dai capelli castani. Alla vista della futura bandiera del suo impero la frustrazione la prese. La bramosia di portare al collo il Sole all’Orizzonte era il supplizio di Tantalo.

Freja, dopo aver scoperto che lei aveva catturato le spie di sua iniziativa, dopo una sfuriata, aveva imposto che il talismano restasse al momento al collo della donna, che si trovava in una cella, addormentata in stato ipnotico come i suoi compagni. Anche l’alleata del Nord bramava al sole dorato.

Non era il momento per dispute, ora che la vittoria era vicina. Ma sapeva che se si fosse impadronita del talismano, il suo potere sarebbe divenuto molto più forte e allora sarebbe riuscita a ipnotizzare sia Freja che quell’indemoniato dal falso nome angelico.

Aveva tentato più volte di farlo, come era accaduto con le spie e di recente con Solimano. Ma la donna venuta dal freddo era protetta da un demone molto forte. E anche Gabriele. La differenza era che lei ne era consapevole e l’altro, che negava l’occulto, no.

Ma l’onnisciente mummia l’aveva informata che un’entità dell’Ombra lo possedeva. E nonostante lui scegliesse nomi finti da angeli, il suo primo vero soprannome era da demone. E lei non era da meno, sotto l’influenza della propria divinità delle Tenebre.

Purtroppo era una maledizione che i gemelli ombrosi dei Messaggeri tentassero i mortali stimolando il loro egoismo. Per questo le forze della Luce erano sempre riuscite ad allearsi tra loro trionfando nei secoli e millenni contro quelle dell’Ombra che, in nome soltanto di se stessi, tradivano amici e alleati, e alla fine soccombevano.

Era come una droga e anche lei sognava di regnare su quell’impero da sola. Ma anziché eliminare i suoi concorrenti, li avrebbe soggiogati alla sua volontà. Il Grande Regno dei Mille Anni sarebbe stato retto da un triumvirato con due  fantocci senza volontà alcuna. Come la mummia e Solimano e un giorno anche i sovrani d’Asia e America e il Doge anch’egli protetto da un Messaggero.

Combattè l’impazienza di impossessarsi del talismano che avrebbe permesso la realizzazione dei propri sogni. Una sfida grande quanto quella contro l’Impero Ottomano e la Serenissima Repubblica Italiana.

                                                                           ***

Nella base aerea di Trapani, l’ammiraglio Andrea Doria fremeva nell’imminenza dell’azione. Le venti aerogalee al suo comando avevano l’ordine di mettere fuori combattimento la flotta di Barbarossa che al momento costeggiava l’Africa diretta verso l’Egitto; quei pirati dovevano essere eliminati, anche se fino a ora erano stati solo gli spagnoli a farne le spese.

L’ordine del Doge di catturare vivo Barbarossa era di suo gradimento, perché ammirava il pirata barbaresco. Se fosse riuscito a portarlo dalla sua parte, ne avrebbe fatto un ottimo comandante dell’aria. Di diverso avviso era l’ammiraglio col compito di attaccare la flotta di Dragut. L’iracondo e aggressivo Sebastiano Veniero aveva giurato morte ai tutti i barbareschi e aveva accettato a denti stretti la direttiva dogale. Il veneziano non era da meglio del suo rivale barbaresco.

Doria aveva già trattato col collega per farselo consegnare, promettendogli che avrebbe umiliato l’irriducibile pirata che lui disprezzava tanto quanto ammirava Barbarossa.

CONTINUA…

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di Paolo Ninzatti

Racconto breve ambientato nell’universo del romanzo “Le ali del serpente” dello stesso autore.

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