IL FIUME E IL DESERTO – Parte trentaduesima: Mare infuocato

Luglio. Anno del Signore 1530

 

La visione del cielo sereno sopra di lei e il mare, azzurro e calmo miglia sotto l’ammiraglia di Shimada era in contrasto con la tempesta di emozioni che si stava scatenando dentro l’animo di Lucrezia Borgia. Anche suo fratello Cesare veniva spesso preso da simili attacchi di collera, specialmente quando si sentiva sconfitto o tradito. Dopo un fallito tentativo di congiura ai suoi danni, Cesare aveva bersagliato con frecce dalla finestra del suo castello in Romagna tutti i traditori.

La rabbia crebbe. Il suo piano di invadere l’Italia era momentaneamente fallito a causa di voltafaccia di presunti alleati. Il suo animo chiedeva vendetta, anche contro chi non era direttamente coinvolto. Lucrezia voleva sangue, morte e distruzione.

Suo fratello aveva usato un arco; lei aveva in mano qualcosa di molto più micidiale e distruttivo. Gli ornitotteri sul ponte dell’ammiraglia erano pronti e i piloti ai loro posti: le sue frecce; la flotta il suo arco e Shimada l’arciere. Lucrezia sapeva che il suo fedele shogun avrebbe dato l’ordine di attacco solo perché era d’accordo che quella fosse la strategia giusta.

Freddo calcolatore mirava solo a schiacciare il nemico più vulnerabile. Attaccare le forze volanti italiane in pieno assetto di guerra avrebbe comportato perdite delle quali loro al momento, non potevano permettersi. Gli antimissili a testata magnetica, che, attirati del metallo di ordigni e ornitotteri, seguivano il bersaglio, colpendolo, erano la migliore difesa, e bastava.

Se avessero attaccato in forze avrebbero vinto, ma sarebbe stata una vittoria di Pirro. Andrea Doria era un abilissimo ammiraglio. Anche Barbarossa e Dragut lo erano ma le loro flotte non volavano. Uno sguardo silenzioso di Lucrezia e Shimada urlò dalla torre in fondo al ponte nel megafono.

«Nippon Banzai! Tora! Tora! Tora!»

L’urlo sembrò raggiugere l’alto dei cieli. La risposta all’unisono dei piloti e del personale del ponte sembrò il tuono di un temporale a ciel sereno. Un attimo dopo le catapulte lanciarono nel vuoto una ventina di ornitotteri. Dalle altre navi, altri sciami di velivoli si innalzarono in cielo. Le loro ombre oscurarono il sole per un attimo. Poi sparirono all’orizzonte, come aquile a caccia di prede.

                                                                              ***

Dragut era furente. Per giorni aveva assaporato il gusto dell’attesa di attaccare finalmente gli infedeli. Non più come corsaro ma come ammiraglio al servizio del Sultano. Ma prima che lui, che già voci chiamavano “la Spada vendicatrice dell’Islam”, potesse finalmente decapitare i nemici della Fede, Solimano aveva ristabilito l’alleanza con l’Italia e la sua sete di sangue cristiano non era stata saziata.

Sentì la nostalgia di quando era pirata, luogotenente di Barbarossa, libero di dar sfogo ai propri istinti assassini, come gli suggeriva l’angelo sterminatore che da anni lo consigliava, invisibile compagno, messaggero di Allah. Non appena gli era arrivato il dispaccio di attendere ordini era stato tentato di disubbidire e di far vela attaccando di sorpresa, come secondo il piano iniziale.

Solo la lealtà al suo vecchio superiore, Barbarossa, l’aveva fatto desistere dall’intento.  Aveva pregato Allah che un altro messo del grande corsaro, la cui flotta era ancorata poco lontano, alla rada presso le coste egiziane, gli proponesse di opporsi agli ordini di Solimano e seguisse al piano originale, in nome dell’Islam. E invece niente. Così voleva Dio. Inshallah.

L’orizzonte si riempì di uccelli. Un segno? No. Dragut si rese conto che quelli non erano figli di Madre Natura, ma maledettissimi ornitotteri. Italiani, e che altro? Solo il Grande Satana, la Serenissima Repubblica, disponeva di quelle macchine create dal Demonio. Solo pochi giorni addietro si sarebbe allarmato, pur senza provarne paura, ma ora che erano nuovamente alleati, provò soltanto ribrezzo nel sapere che gli infedeli lo guardavano dall’alto, atteggiandosi ad angeli.

Osservò  le forme delle ali, simili a quelle di pipistrelli. Non vi temo, demoni dell’Inferno, pensò, servi del Leone di… Non osò formulare in testa il concetto di San, prima di Marco. Gli infedeli erano politeisti mascherati da monoteisti. Quanti santi erano considerati capaci di far miracoli come l’Altissimo? Se non altro gli idolatri erano coerenti, ma i cristiani erano ipocriti. Osavano persino ritrarre il loro Dio nelle sembianze di un vecchio con la barba bianca.

Si preparò a inveire contro quel leone alato che gli italiani solevano dipingere sui loro velivoli, quando notò che il felino era assente e al suo posto gli ornitotteri avevano un sole rosso con uno scarabeo nel centro. Il simbolo della Regina d’Egitto.

Non ebbe tempo di formulare ipotesi, ma la logica gli urlò che se gli italiani avevano fornito le macchine a quella pagana, nemica di Solimano, allora un complotto di proporzioni diaboliche era in atto. E come per confermarlo, l’angelo che stringeva la scimitarra, visibile solo a lui, si trasformò in un demone, dalle ali simili a quelle degli ornitotteri.

L’essere rise, come se ora parteggiasse per altri demoni, quelli che ora stavano aizzando i pagani fedeli a quell’orrendo Scarabeo. Chiese perdono a Dio per essere stato ingannato, mentre l’essere volava via.

E quando i primi missili e bombe cominciarono a piovere sulle sue navi, capì che l’ora del martirio era giunta. Sfoderò la scimitarra e urlò: «Allah achbar!»

                                                                            ***

Dall’iperscopio del submarem, Selim il Corsaro assisteva all’inferno scatenatosi a pochi piedi sopra il suo natante. La flotta dell’ammiraglio Barbarossa era ridotta a un ammasso di torce galleggianti che coloravano di rosso il mare, bersagliate da uno stormo di ornitotteri.

Per attimi eterni non capì perché l’aviazione avesse attaccato di sorpresa l’ex pirata che dopo il ripensamento di Solimano era in pratica un alleato della Serenissima. Ma quando vide di sfuggita lo Scarabeo egiziano dipinto sulle ali degli attaccanti, capì che il nemico era molto più potente di quanto lui avesse pensato e che era per giunta suo dovere portare soccorso ai naufraghi.

                                                                            ***

L’ornitottero sganciò una bomba che colpì la prua dell’ammiraglia ottomana. L’esplosione provocò uno spostamento d’aria che ghermì Barbarossa. Fu come se una mano invisibile e gigantesca lo avesse sollevato. Si sentì volare per alcuni piedi. Forse stava andando diretto in Paradiso.

Settantadue vergini lo attendevano. I nemici sarebbero finiti all’inferno prima o poi.

Il tuffo nell’acqua lo riportò alla realtà. Sia fatta la volontà di Allah, pensò, anche se avrebbe preferito la morte, piuttosto che l’impotenza di poter rispondere a quell’attacco proditorio e neppure di sapere come mai l’Egitto ribelle disponesse di aviazione.

Solimano aveva scagionato gli italiani dal sospetto di complicità con la regina pagana. Nuotò mentre assisteva allo sfacelo della sua flotta, la cui gloria era in fiamme o in procinto di essere inghiottita dalle acque salate. I velivoli nemici sparirono all’orizzonte lasciandosi dietro un mare rosso dove naufraghi invocavano aiuto e pregavano Dio.

La massa scarlatta increspata di onde create da navi che venivano inghiottite piano piano ribollì e, come per compensare i navigli ingurgitati, un pesce metallico ne emerse. Il submarem aveva dipinto sulla fiancata l’araldica del Leone d’Italia. Il portello si aprì e alcuni naufraghi vennero aiutati dall’equipaggio a imbarcarsi. Nuotò in direzione del natante mentre già pensava alla riscossa ringraziando di essere vivo.

La mano che lo issò a bordo era olivastra e lo era anche il volto sotto il cappello da capitano della Marina Italiana. Il Leone del Santo cristiano contrastava l’intercalare di ringraziamenti ad Allah con cadenza araba. Ringraziò l’Altissimo per il privilegio di venir salvato da un credente alla Vera Fede.

                                                                    ***

«Tutto è perduto fuorché l’onore» dichiarò Francesco I all’ammiraglio Andrea Doria mentre dall’alto assistevano allo sfacelo delle navi ottomane.

«Avete ragione, Maestà» rispose Doria «La prudenza non è un’onta. Non posso mandare allo sbaraglio gli ornitotteri; potrebbero fare la fine dei missili.Vostra Maestà ha visto cosa è accaduto. I miei artiglieri sono precisi, ma gli antimissili sembrano seguirne la traiettoria. Fortunatamente, nel deserto avevamo l’elemento sorpresa all’inizio. Ci basti per il momento.»

                                                                       ***

Gian Giacomo Caprotti e Lucrezia Borgia osservavano gli ornitotteri di ritorno dalla missione che planavano sul ponte dell’ammiraglia. Il fumo che saliva all’orizzonte e la scarlatta aurora boreale testimoniavano il successo, che Salai cominciò a vantare.

«I miei angeli sterminatori di metallo hanno appena spedito a Nettuno quei pirati. Ma la tua gratitudine latita come sempre. Non ti sei mai interessata di scienza, sempre infervorata con magia e miracoli. Il tuo ammiraglio, al contrario, mi ammira più di te, pur amandoti» proferì

La stizza la prese.

«Non osare mai più interferire nei sentimenti tra me e l’ammiraglio! Fatti i fatti tuoi e giaci con la tua Duchessa.»

«D’accordo, Madonna Borgia. Ma non dimenticare che senza i miei antimissili magnetici a quest’ora non saremmo qui a volare e litigare. E neppure godremmo della disfatta ottomana. Sappi che, anche senza magia, entro un mese sarò in grado di ricostruire la flotta, in Giapangu. E allora torneremo alla riscossa.»

CONTINUA…

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di Paolo Ninzatti

Racconto breve ambientato nell’universo del romanzo “Le ali del serpente” dello stesso autore.

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