IL FIUME E IL DESERTO – Parte ventottesima: Eldorado

Anno del Signore 1530

Dalla grande terrazza del palazzo si potevano vedere le sagome dei due vulcani gemelli. Il Re Cuatemoc non poteva fare a meno di sognare il viaggio sulla Luna, anche se soltanto nel guardare da lontano il luogo dove questo, un giorno, sarebbe stato possibile.

Lasciò un attimo il sogno che soltanto i suoi successori avrebbero veduto realizzarsi e pose gli occhi sugli stupendi giardini ai piedi del palazzo.

Quel quartiere di Tenochtitlan era stato battezzato Eldorado. Una parola spagnola che significava ”l’uomo d’oro”. Un mito nato fin dai primi anni in cui quei bianchi avevano messo piede sull’Unico Mondo.

Sorrise sul fatto che sia quel nome che il mito erano infondati. Il suo mondo non era affatto l’unico e la leggenda a cui i bianchi avevano creduto non aveva avuto conferma. L’incontro tra le due culture aveva scosso ambo le genti. Ma il Grande Padre Bianco di Venezia, il Doge, aveva contribuito a creare il vero Eldorado: dietro la finta facciata della ricerca della Pietra Filosofale capace di trasformare il piombo in oro aveva contribuito a riunire uomini di medicina mexica, maya e del regno Inca a sud e farli collaborare con quelli della Cina e dell’Europa.

E in quell’ambiente idilliaco, in quegli splendidi palazzi, nel giro di pochi anni il contributo della sapienza di tante culture aveva dato i suoi frutti. Il vero oro era la salute. Ancora più importante dei viaggi sulla Luna.

Gli europei e gli asiatici avevano importato arnesi di metallo che i cerusici maya inca e mexica avevano imparato a usare. Molte persone le cui gambe e braccia erano state danneggiate per via di incidenti, o guerre, potevano ora godere di arti nuovi, asportati da morti e operati ai vivi. In un reparto nella costruzione a ovest, si collaborava addirittura con ingegneri per sperimentare il trapianto di mani e gambe di metallo.

Quel paradiso in terra era protetto notte e giorno da soldati armati fuori dal muro che circondava il complesso. Le aeronavi italiane vegliavano dai cieli. Fortunatamente, ogni medico di qualsiasi etnia viveva nell’Eldorado e durante le libere uscite era legato da un giuramento che l’obbligava a mantenere il segreto.

Le misure di sicurezza erano state, all’inizio, per evitare che si spargesse la voce sulle ricerche mediche, in un mondo non ancora pronto a discernere scienza da stregoneria. Niente di meglio che far credere di far guardia ad alchimisti che volevano produrre ricchezza materiale. All’inizio era stato fumo negli occhi, ma ora che l’Ombra minacciava il mondo, era necessario proteggere chi voleva salvaguardare la vita e il benessere.

I demoni potevano tentare i mortali a restaurare le superstizioni e la foga di uccidere i saggi. Un male che aveva contagiato le genti d’America ma anche quelle d’Europa. Quanti gueritori e guaritrici erano stati bruciati come stregoni e streghe nell’Altro Mondo? Quale cerusico e medico avrebbe finalmente estirpato la follia dalle teste delle genti?

                                                                            ***

Il laboratorio scavato nella roccia del vulcano Fushijama. Le luci elettriche illuminavano abbagliando, rendendo visibile ogni dettaglio, anche le espressioni rassegnate dei cerusici, una squadra mista di uomini e donne dai lineamenti asiatici, indiani e mediorientali.

Sdraiato di schiena su un tavolo operatorio, un uomo di metallo era immobile. Su un altro tavolo accanto a quello su in cui giaceva l’automo, una scimmia, sdraiata e narcotizzata, aveva il cranio aperto e dal cervello si diramava una serie di fili collegati alla testa dell’uomo di metallo.

Un individuo con un turbante fece un segno e un altro tirò una leva. Una serie di fulmini scaturì dalla testa metallica e l’automo si animò. All’inizio furono soltanto spasmi, come di una persona in preda alla follia, ma poi il braccio destro si alzò e la mano cominciò ad agitare le dita. Poi fu la volta della gamba sinistra che calciò al vento ricadendo con fragore sul tavolo.

Seguì il movimento del braccio sinistro e della sincronia diagonale con la gamba destra. Infine, l’uomo di metallo si eresse seduto e girò la testa da destra a sinistra. Mosse gli arti come in una danza. Subito dopo, tra una serie di lampi, ricadde sdraiato rimanendo immobile.

Il cerusico col turbante fece segno agli altri con un gesto che sembrava voler significare successo. Il cadavere della scimmia venne portato via.

                                                                           ***

La flotta battente i vessilli di Francia e Impero atterrò, riempiendo la vallata, accanto alle enormi aeronavi dell’ammiraglio Shimada. Lucrezia Borgia non poté non ripensare al defunto fratello Cesare che tanti anni prima aveva visto sfilare i soldati francesi messi al suo servizio dal re di allora. Grande uomo, degno del nome che portava.

E anche ora, gendarmi, fanti e mercenari svizzeri  stavano sbarcando. I militi del suo glorioso e sfortunato fratello erano allora armati di rudimentali archibugi. Quelli che sfilavano davanti ai suoi occhi erano dotati di moderni rivoltoni a ripetizione e lanciamissili portatili. Anche gli svizzeri e i lanzichenecchi tedeschi.

L’euforia della potenza venne frustrata nella consapevolezza di dover non solo dividere quell’armata con la Regina d’Egitto, ma anche di dover ammettere che il merito di disporre dei rinforzi fosse di quella. Paradossale che quella reginetta fosse ora più potente dell’uomo che stava sbarcando, scortato dalla sua guardia del corpo, in lucente armatura, a cavallo.

Inchinarsi davanti al Re Imperatore fu una farsa, mentre già ponderava come portare il sovrano privo di volontà dalla sua parte, divenendo una degna ultima erede dei Borgia.

                                                                             ***

Il cuore di Basma batté all’impazzata  mentre Francesco I cavalcava al passo presentandosi al cospetto di lei, Lucrezia e Salai. Il Re declamò, in italiano.

«La mia armata è al servizio dell’Egitto risorto indipendente e dei suoi alleati. L’ammiraglio Andrea Doria e i soldati italiani, sorpresi e sopraffatti dal nostro ammutinamento sono stati gettati in mare e ora giacciono nel regno di Nettuno.

Mi occuperò io stesso di far passare per le armi gli equipaggi addetti alla manovra delle aeronavi per farli sostituire dagli abili aeronauti dell’ammiraglio Shimada, anche se devo ammettere che l’imponenza della sua flotta è di gran lunga superiore alle ormai sorpassate aeronavi d’Italia. La cosa fa onore all’ingegner Agnelli.»

                                                                            ***

Salai era esultante. Non soltanto il Re Imperatore lodava il frutto della sua ingegneria, ma non poté non notare lo sguardo che non si staccava da Fatima, dopo aver sbirciato lui di sfuggita, ignorando del tutto Lucrezia.

Bene, pensò, meglio che il sovrano fosse in potere di quell’inutile reginetta che della Borgia. A lui bastava aver reso schiavo Ahmed. Di Francesco I non gli interessava nulla. Prima fantoccio dell’Italia, adesso dell’Egitto.

V’erano cose molto più importanti di quella guerra che si poteva ormai considerare già vinta: in quegli istanti, in Giapangu, i suoi uomini di scienza stavano sperimentando una nuova fase per collegare il cervello di un essere vivente a un automo. Entro pochi giorni, con un’aeronave, sarebbe giunta la notizia dell’esito dell’esperimento. Per quel tempo la guerra sarebbe già stata iniziata con inevitabili successi.

Forse la fase finale sarebbe stata combattuta con ibridi tra scimmie e macchine. Osservò nuovamente il Re di Francia e gli sguardi scambiati con Fatima. Forse non era soltanto ipnotizzato. Aveva notato la medesima intesa tra Shimada e Lucrezia.

In un attimo si trovò a ripensare alla Duchessa e alle notti trascorse con lei. Si ricordò di aver provato qualcosa di simile nei riguardi di Mastro Leonardo. In fondo in fondo era soltanto un essere vivente. Quanti anni gli restavano a godersi la bella spia? Entro quanto lei avrebbe cominciato a considerarlo un vecchio? Gli anni sarebbero passati anche per lei.

Di colpo gli venne l’idea per un progetto. Un automo ricoperto di cera modellata in modo da assomigliare all’Uomo di Vitruvio del suo grande Maestro. Tutto tranne il volto che avrebbe dovuto essere il ritratto vivente di quando lui era giovane. Avrebbe lui stesso dipinto il colore della pelle e le gentili sembianze del Gian Giacomo Caprotti di allora. E se le ricerche per l’uomo macchina fossero giunte al traguardo, la bella Duchessa l’avrebbe amato per sempre. Sarebbe riuscito a convincerla a divenire una donna macchina dalle fattezze di quando lei era più giovane?

                                                                     ***

La Duchessa esultava: le sue spie avevano localizzato il luogo dove gli alchimisti stavano facendo ricerche per trasformare il piombo in oro a Tenochtitlan: Eldorado l’avevano chiamato. Non appena le forze del Triumvirato avrebbero conquistato la Nuova Spagna, lei sarebbe diventata non soltanto padrona di quel regno favoloso, ma anche più potente del Re Mida. Creare oro. Potenza e ricchezza erano alle porte, per questo che la infastidiva quel maledetto tallone d’Achille, quell’insulso sentimento che provava per Gabriele.

Se non fosse stato per quella debolezza, non appena viceregina di parte del mondo, grazie all’oro degli alchimisti, avrebbe finanziato il suo esercito privato di sicari e spie ed eliminato sia lui che le di lui alleate. Purtroppo al cuore non si comandava e oro e potere non avrebbero potuto asportare il maledetto amore, peggio del vino o dell’hashish, della follia.

CONTINUA…

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di Paolo Ninzatti

Racconto breve ambientato nell’universo del romanzo “Le ali del serpente” dello stesso autore.

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