Il pugnale di Kali

Il pugnale di Kali, racconto di Paolo Ninzatti

Ottobre. Anno del Signore 1528

I raggi del sole penetravano a fatica nell’oscurità della giungla, ma uno di quei pochi si rifletteva su di lei, sul suo volto dall’aria furiosa, sulla collana di teschi che le pendeva dal collo, e sulle sei braccia. La lama del pugnale stretta in una delle mani sembrò per un attimo infuocata.

Il sacerdote la guardò con venerazione. Kali, scolpita nella pietra, sembrò fissarlo negli occhi. Un effetto donato dall’abilità dell’artista che aveva creato in tempi antichi la statua della dea, alta due volte un uomo.

I fedeli, radunati davanti al tempio, si inchinarono davanti alla divinità che rappresentava la distruzione e la morte, emanazione femminile di Shiva.

Il sacerdote si voltò verso la statua a sei braccia. Con riverenza sfilò il pugnale dalla mano pietrosa della dea, lo alzò al cielo, camminò verso l’altare sacrificale pronunciando la formula rituale.

Attese fino a quando la folla dei fedeli si diradò lasciando passare il corteo che avevano aspettato.

Fece un segno, e una ventina di guerrieri sfoderò le scimitarre e si pose ai lati del sentiero umano, facendo onore ai nuovi arrivati.

In testa alla processione c’era una donna dalla pelle scura come un’indiana ma i lineamenti differenti, nonostante vestisse come una qualsiasi rhani del suo popolo ostentando un diadema dorato in fronte. La nobiltà emanava da ogni movenza. Nobili si nasceva.

L’interprete dalla maschera di ferro era palesemente un servo, gli uomini in coda al corteo che trainavano un carro coperto da una tela, schiavi, le due donne velate, ancelle. L’urdu dell’interprete aveva un’inflessione straniera.

«Nobile sacerdote, la principessa Luna offre alla dea le vittime per il sacrificio.»

La nobile forestiera fece un cenno, e le due donne si alzarono il velo.

Il sacerdote ammirò i volti pallidi e rosei assaporando il momento in cui le avrebbe trafitte. La dea avrebbe apprezzato i cuori di due donne tanto esotiche.

Le due giovani portavano in volto la rassegnazione di chi sta per passare da una vita all’altra. Si chiese cosa le avesse convinte a morire in giovane età. Forse non avevano avuto possibilità di scegliere, come schiave straniere, probabilmente naufragate da una nave occidentale e cadute prigioniere della principessa.

Quello che importava era che la nobile credeva alla dea e al culto offriva ora due vittime venendo tra loro senza scorta armata.

Nella bocca della tigre. Kali avrebbe assaporato anche sangue nobile. I guerrieri erano già stati istruiti. Dopo il sacrificio delle due bianche, avrebbero massacrato gli schiavi disarmati e preso la principessa. Il pugnale di Kali avrebbe sacrificato anche lei. I doni che l’ingenua Luna aveva portato in quel carro, oro e gioielli, avrebbe arricchito la setta.

La prima donna bianca dalla chioma color fuoco si sdraiò, passiva, come se avesse ingerito qualche droga, sull’altare. Il sacerdote alzò il pugnale.

I fedeli intonarono una litania: «Gloria a Kali, dea della riscossa.»

La principessa disse qualcosa in tono imperioso. L’interprete mascherato tradusse.

«Prima di offrire questa vergine bianca alla dea, voglia il sacerdote apprezzare il dono che abbiamo portato.»

La sete d’oro frenò per  un attimo quella di sangue.

Gi schiavi alzarono la schiena. Sotto i turbanti i volti erano pallidi come le due vittime. Palesemente marinai catturati. Tolsero il tendaggio mostrando un dono inaspettato.

La statua dorata di Kali sul carro impugnava sei scimitarre, una per mano. L’aria del volto era sorridente, un contrasto con gli arti armati.

Forse era soltanto placcata d’oro, o forse era ottone. Entro poco l’avrebbe saputo.

La statua emise fumo bianco dalla bocca e dalle narici, si mosse, camminò sulle gambe un po’ malferme, agitando le braccia. Le lame delle spade sferzarono l’aria, mentre la dea mobile avanzava. La vittima dai capelli rossi si alzò saltando giù dall’altare. Le spade della statua colpirono tre guerrieri. La vergine dalla chioma rossa e la principessa si impadronirono delle spade dei caduti. La seconda donna bianca raccolse la terza spada e la gettò all’interprete, che l’afferrò al volo, saltò in piedi sull’altare e urlò alla folla dei fedeli esterrefatti.

«Kali è scesa nel mondo per uccidere i demoni e non i viventi. Ma ora deve punire chi mente in suo nome.»

Il sacerdote vide lo stesso fumo della dea uscire da sotto la tonaca dell’uomo. Ma certo. Due demoni. Ringraziò col pensiero l’interprete per la predica e lo colpì la gamba. L’essere sarebbe caduto sull’altare e lui l’avrebbe finito.

La lama rimbalzò. Il sacerdote si chiese se il demone fosse di pietra o di metallo.

Quello si voltò e gli torse il polso posando il piede sul braccio, fino a costringerlo a mollare l’arma.

Infine la raccolse saltò in un modo poco umano dall’altare.

I fedeli e i pochi guerrieri superstiti circondarono il sacerdote. Per un attimo temette di finire sull’altare sacrificale. Ma poi un uomo gli disse: «Kali si è rivelata, finalmente, e ci ha portato la verità, sacedote. Ci ha perdonato per i nostri sbagli dopo averci punito. Che le sue spade uccidano i demoni.»

Nessuno inseguì la dea e la sua scorta che si dileguava tra la fitta vegetazione.

Luna d’Argento guardava i suoi compagni avanzare a fatica  nella giungla, ma lei era stata nella terra dei Maya, il popolo di sua madre, in una città costruita all’interno di una foresta non dissimile. Sapeva anche che, mentre gli italiani definivano Mexica, Maya e tutti gli altri popoli delle sue regioni come “americani”, gli spagnoli, che decenni prima credevano che il suo paese fosse l’India, li chiamavano “indiani”.

Rise al pensiero del suo popolo glabro scambiato per quella gente dalle barbe fittissime. I visi pallidi erano gente strana. Si pentì del pensiero. Prima dell’arrivo dei bianchi, il suo popolo, i Mexica, sacrificava agli dei altri umani. E lì in quell luogo tanto lontano stava per accadere la stessa cosa. Una statua meccanica a vapore era bastata a convertire una setta. Quanto era fragile l’animo umano!

Gambadiferro le aveva consegnato il pugnale di Kali e lei lo stringeva. Un nuovo talismano. Non era una finzione come il resto. Gli uomini non avavano ancora imparato a distinguere il vero dal falso. Fioravante, Musico, Capitan Angelo e il condottiero Francesco avevano finto di trainare quel carro col motore, travestiti da schiavi.

Arrivarono alla radura dove il Proteus attendeva.

Atena e Artemide facevano guardia alla macchina volante.

«Allora, Luna, come se la sono cavate le giovincelle senza le mamme a coprire le spalle?» chiese Atena, con negli occhi la materna preoccupazione.

«Madri sempre in pensiero. Padri non bastare? Fortunate Fulvia e Anna. Me avere voluto mio padre guerriero aquila a fianco. Loro avere avuto capitano e condottiero vicini.» rispose Luna.

«Anch’io ero pronto a proteggerle nel caso…»

«A fare una serenata? Musico, piantala di fare l’eroe» ordinò Atena.

«E va bene, capo» ironizzò l’agente. «Tutto sommato senza l’automo a sei braccia e il mezzo automo a due gambe gli indiani ci avrebbero fatti a fettine con quelle scimitarre.»

«E sbrighiamoci a far salire a bordo Kali, che sta cominciando a piovere» ingiunse capitan Angelo.

«Quando qui comincia a far acqua, va avanti per mesi nel periodo dei monsoni» sentenziò la voce metallica di Gambadiferro.

«Conosce più l’India lui di Buddah. E come mastica bene quell’ostrogoto di lingua» commentò Musico.

«Gambadiferro è stato anche qui. Abbiamo molto da imparare da lui.» commentò Atena

 

Pochi minuti dopo il Proteus volava, sotto la pioggia, verso ovest, verso l’autunno italiano, forse un po’ più asciutto.

di Paolo Ninzatti

Racconto breve ambientato nell’universo del romanzo “Le ali del serpente” dello stesso autore.

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