La verità di Mister K. T.

Assassino. Carnefice. Mostro. Pazzo.
Questo sta pensando la gente di me, adesso. Ma, onestamente, di come mi chiamino o mi etichettino ben poco mi interessa; per me, non ha nessuna importanza. Cercherò di stendere qui, su questo foglio, la mia vicenda, affinché la penna che tengo in mano si faccia portavoce della verità. Non un’elaborazione di un giornalista privo di comprendonio, che narra di cronaca unicamente con lo scopo di “fare notizia”, ma la pura e semplice verità, nuda e cruda.

Avevo ventisei anni quando conobbi Letizia.
Lavoravo come barista nel locale di mio padre, sul lungomare della mia cittadina natìa. E una sera,
lei vi entrò con dei suoi amici. Mentre prendevo le loro ordinazioni, incrociai quei suoi occhi nocciola che, colpiti di traverso dalle lampade, scintillavano di riflessi dorati. Avvertii subito un brivido caldo salirmi lungo la spina dorsale e avvilupparmi l’anima, tanto che uno dei ragazzi dovette ripetermi il suo ordine perché mi ero distratto.

Lei, Letizia, doveva essersi sicuramente accorta di qualcosa perché, mentre mi ritirai, la sentii emettere una risata cristallina in direzione di una sua amica. E quando tornai al loro tavolo con quanto avevano ordinato, avvertii una strana sensazione alle gambe: si erano come fatte di pastafrolla e dovetti piantare bene i piedi sul pavimento per non rovinare al suolo; mentre servivo i ragazzi, ebbi modo di incrociare nuovamente il suo sguardo.

Un sorrisino le si era dipinto sulle labbra sottili, mentre i suoi occhi perfettamente rotondi, come di cerbiatto, mi guardavano a loro volta. Un’ondata di calore si sprigionò dal punto più profondo del mio essere, esplodendomi dentro e arrivando fino al cervello. Per un attimo, tutto il locale intorno a me sfumò in una nebulosa. E vedevo solo quei occhi nocciola e rotondi.

Mi ritirai e dovetti andare ai servizi igienici a rinfrescarmi la faccia.
E fu grande la mia sorpresa quando, la sera successiva, Letizia e i suoi amici tornarono nel locale,
più o meno alla stessa ora del giorno precedente.

Divennero, presto, clienti abituali e, col passare del tempo, ebbi modo di conoscerli un po’: compresi che erano studenti universitari, provenienti da una città non distante da quella nella quale ci trovavamo, e che studiavano medicina.

Col trascorrere del tempo, forte del fatto che qualche volta riuscivo a scambiare discorsi con loro, trovai la forza e l’energia per intraprendere una sorta di conoscenza con Letizia. Senso di conoscenza che aumentò sempre più, tanto che lei, spesso, si fermava fuori dal locale e aspettava che la raggiungessi una volta terminato il mio turno di lavoro.

Allora ci incamminavamo sul lungomare, accompagnati dallo frangersi del mare sugli scogli, mentre il sole – una palla di fuoco
nel cielo multicolore – si tuffava tra le onde facendo cadere il mondo nelle tenebre.

Non mancavo mai di accompagnarla al suo alloggio. E fu in una sera qualunque, al termine di una delle nostre solite passeggiate, che ci baciammo.
Il nostro fidanzamento avvenne dopo due anni di frequentazione. Con i soldi che riuscii a mettere da parte, affittai un piccolo appartamento poco fuori città, in una zona tranquilla della periferia.
Crescemmo assieme, fianco a fianco. Io continuavo a lavorare al locale di mio padre, lei divenne prima assistente in uno studio medico, poi ne aprì uno suo assieme a due sue amiche ed ex compagne di studi.

In tutti gli anni di vita assieme, nessuno di noi due venne mai turbato da pensieri negativi: in
nessuno di noi due venne mai in mente nemmeno l’ombra di un possibile tradimento, né sentimmo mai la necessità di alzare la voce o di non parlarci per un dato lasso di tempo; insomma, eravamo la coppia perfetta, di quelle che si fatica a credere che possano esistere veramente.
E dopo tre anni di fidanzamento e convivenza, decidemmo di sposarci.

Sono passati quarant’anni da quel giorno.
Mi sembrano volati via, in un battito di ciglia.
Amavo Letizia. La amavo con ogni singola cellula del mio corpo. Ogni mio respiro, ogni battito del mio cuore, era per lei.

La vita, certo, è beffarda. I sogni sembrano siano stati creati da un essere crudele; sono così fragili, così labili; se ci è concesso, possiamo viverli a occhi aperti, godendo di ogni loro singolo momento; ma, un giorno, ecco che anche il sogno più grande – e vissuto veramente, non come fosse fantasia o un altro parto della mente umana – si trasforma in un incubo: un incubo dal quale non sembra esserci via d’uscita. E quel essere crudele, padre del sogno anche più ardito, ride e gode nel vedere la sua stessa creazione trasformarsi nel suo esatto opposto e osserva divertito le povere anime che lottano per non soffocare nel suo lato oscuro.

Sì, perché lentamente, gradualmente, giorno dopo giorno, la donna che tanto amavo fu colta da un
notevole disagio; una sorta di trasfigurazione totale, aberrante. La sua pelle, sempre rosea, divenne pallida, di un pallore spettrale; i suoi grandi occhi nocciola persero ogni scintillio dorato, ogni riflesso di luce e, presto, mi sembrarono oscuri, come bocche di grotte insondabili; i capelli persero la lucentezza e la morbidezza di un tempo, divenendo stopposi e più sottili di una ragnatela.

Ma la cosa peggiore, la cosa peggiore in assoluto che, ripensadoci, mi fa venire un brivido gelido fino al cervello, fu il cambiamento radicale della sua voce. Prima della sua trasfigurazione, la sua voce aveva toni velati, dolci; talmente dolci che persino le parole più dure e crude suonavano melodiose nell’aria.

E, col tempo, questa dolcezza venne meno: si affievolì sempre più, come fiamma di candela, e si spense, sostituita da un tono e una sonorità che persino le parole più dolci e affettuose suonavano fastidiose, insopportabili, nell’aria.

Quella sua nuova tonalità di voce si faceva sempre più acuta, a tratti stridula. Ogni volta che Letizia
apriva bocca, per qualsiasi motivo, per dire qualsiasi cosa, era come se uno sciami d’api mi penetrasse nelle orecchie martoriandomi con i pungiglioni i timpani. Io cercavo di tagliare corto subito, per stroncarle le parole, per obbligarla a fare silenzio.

E, giorno dopo giorno, quel suo vociare altisonante e martellante mi divenne sempre più insostenibile.

Povera Letizia, il mio amore. Povero me. Poveri noi.

Più io cercavo di evitare il suono della sua voce, cercando di farla parlare il meno possibile, più lei, invece, aumentava le frasi, l’intensità e la tonalità, facendomi spesso uscire di casa nel vano tentativo di fare riposare i miei timpani. Ma, ahimé, persino in strada, a distanza anche di ore, quella sua voce acuta e stridula mi echeggiava nelle orecchie, come uno stormo di cornacchie.

Ormai, ero giunto al punto di sentire quella sua voce fastidiosa persino nei miei sogni e di sobbalzare sul materasso trovandomi nel cuore della notte in un lago di sudore.
Finché un giorno, quel giorno, con i timpani in fiamme e la testa che mi ronzava, non ci vidi più.

Le balzai alla gola. Strinsi forte, con entrambe le mani, la sua giugulare. Per un attimo, nei suoi occhi sgranati da cerbiatta passò un riflesso di luce, un lampo, solo un lampo dorato; poi tornarono scuri.

Mentre stringevo, quella sua voce insostenibile usciva a tratti dalle sue labbra aperte; erano suoni indefinibili, erano singulti, erano gemiti. E più li sentivo, più stringevo la presa in modo di spegnerli il prima possibile, e per sempre.
Quando lei crollò al suolo, ormai senza vita, un silenzio di piombo avvolse la cucina. Udii solo un cane latrare in lontananza, da fuori la finestra socchiusa. Per il resto, tutto era pace.
Ero lucido. Sapevo esattamente cosa stavo facendo. E fu con grande calma, mentre i miei timpani si facevano meno doloranti, che mi apprestai a sezionare il corpo della mia amata.

Le tagliai la testa, le amputai braccia e gambe. Misi tutto in un grande sacco dell’immondizia. E lo posai in fondo al ripostiglio, dietro a una serie di scatoloni.
Al termine del mio operato, non c’era rimasto più nulla da pulire; né una macchia, né una chiazza di sangue. L’operazione era avvenuta nella vasca da bagno.
Ero calmo. Ero tranquillo.

Da diverso tempo, non avvertivo più un senso di pace e di serenità tra le mura domestiche come in quel momento.
Allora, venni colto da un desiderio che non provavo da molti anni: non ricordo nemmeno quanti: si trattava della voglia, quasi viscerale, di fumare un sigaro.
Quindi, mi cambiai di abiti e uscii di casa.

I miei timpani si stavano riprendendo lentamente. Potevo sentire, e ascoltare, i suoni della cittadina
e goderne appieno: godere di ogni sfumatura sonora, dal suono dei clacson al rombare di un lontano martello pneumatico, dal chiacchierio indistinto dei passanti al cinguettio dei passeri sugli alberi.

E fu quando giunsi alla piazzetta con la tabaccheria in fondo che un orrore puro – denso, profondo – mi colse alle spalle, tramortendomi: di colpo, ogni suono, dal vociare delle persone al canto degli uccellini, assunse la tonalità e la sonorità di quella voce acuta, stridula, che mi lacerava i timpani fino a farmi provare nausea. La voce trillante, insostenibile, di Letizia, di mia moglie, che sparava parole a caso, senza un senso preciso.

Lasciai perdere il sigaro. Mi lanciai a capofitto in un vicolo, ma quella voce non mi lasciava stare; mi seguiva, dietro ogni angolo. Mentre correvo, compresi che essa mi avrebbe perseguitato giorno e notte, di continuo, senza tregua alcuna, fino alla fine dei miei giorni.

Senza rendermene conto, finii in un’arteria della cittadina e qui crollai al suolo. Le mani premute alle orecchie, mentre le lacrime mi sgorgavano dagli occhi. E quella sua voce che mi avvolgeva completamente, udibile anche oltre la pelle delle mani.

“Basta! Sta zitta! Sta zitta! Pietà!”, gridai con quanto fiato avevo in gola.
Furono alcuni passanti ad allertare le forze dell’ordine.
Trovo superfluo, quanto inutile, riportare qui ciò che ne seguì. Lo si può facilmente dedurre per logica.

Nessuno, adesso, vuole credermi. Quando racconto di quella voce, insopportabile, mi si guarda con perplessità e vedo lo sgomento più puro disegnarsi sul volto dei vari interlocutori quando dichiaro, senza ombra di dubbio, che amavo mia moglie, che l’amavo con ogni singola cellula del mio corpo; e che quanto ho fatto, mi sono trovato costretto a farlo per una semplice questione di sopravvivenza, prima di soccombere sotto l’insostenibilità di quella sua voce continua, che mi avrebbe sicuramente dilaniato la mente e il corpo.

Ironia della sorte, non ho prove concrete per dimostrare quanto sto scrivendo. Avrei dovuto pensarci prima, molto prima di agire d’impulso, d’istinto. Avrei almeno dovuto registrare quella sua voce e
farla sentire a tutti: agli agenti di polizia, ai giurati, ai giudici, agli avvocati dell’accusa e agli avvocati della difesa: tutti, il mondo intero, avrebbero dovuto sentire quella voce: e provare la stessa difficoltà a sostenerla, provare lo stesso odio e ripugnanza che provai io.

Ma è facile ragionare col senno di poi. E non è di nessuna utilità.
Mi è stata appena concessa una cella senza finestre. Voglio evitare, come la morte, qualsiasi fonte sonora, sia interna che esterna al manicomio criminale nel quale sono rinchiuso. Tengo dei tappi nelle orecchie e vivo nel terrore: temo di sentire, anche solo una volta, di nuovo quella voce; credo che non riuscirei a reggerne ancora l’ascolto: temo che diventerei pericoloso persino a me stesso.

Letizia è una vittima; io sono una vittima.
Entrambi, siamo vittime di un sogno perfetto divenuto incubo.

FINE

Tratto dalla raccolta Mostri. Spettri. Ed Esseri Umani

di Davide Stocovaz

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