L’alieno

L’alieno

L'alieno

Riccardo si era sempre sentito diverso, inevitabilmente controcorrente nello svolgersi prevedibile del mondo umano, con i suoi corsi e ricorsi saldamente imbastiti alle solite e grossolane meschinerie.

Infatti egli sapeva, fin da quando era bambino, le tantissime piccole e grandi incongruenze per cui non poteva identificarsi con l’umanità che vedeva agitarsi intorno a lui.

Di indole contemplativa e sensitiva, iniziando dalla tenera età aveva osservato con distacco e perplessità le evidenti contraddizioni degli uomini, che vedeva affannarsi per cose di scarso valore esistenziale; essi si mostravano incapaci di vivere il presente e di partecipare empaticamente, gli uni con gli altri, al mistero della vita.

Mentre il ragazzino si lasciava rapire estasiato dal volo di un insetto, dalla colorata voluttà di un fiore, in generale dallo spettacolo sorprendente della natura, e insieme a questo da ogni baluginio argentato della propria immaginazione, gli adulti che pretendevano di guidarlo si mostravano impoveriti e pericolosamente autoritari.

Essi esercitavano le loro credenze e i loro divieti in modo automatico e perentorio, senza mai sentire l’esigenza di verificare consapevolmente le motivazioni dei loro pensieri e delle loro azioni, creando in tal modo, evidentemente anche a loro stessi, inutili costrizioni e conflitti.

Al contrario, sin da quando era piccolo Riccardo  aveva cercato di comprendere la verità contenuta nei molteplici aspetti della vita, e innocentemente poneva ai grandi le sue domande e le sue naturali esigenze,  che spesso suscitavano imbarazzo e fastidio.

Presto egli si accorse che gli adulti si negavano al confronto, preferendo imporsi tirannicamente. Questo aspetto, riscontrato nelle varie fasi della sua crescita, risultò particolarmente drammatico con i suoi genitori, che inutilmente tentavano di correggerlo, secondo i loro schemi, e dominarlo.

Nell’infanzia, egli più volte fantasticò d’essere stato adottato, poiché in tutto e per tutto si sentiva diverso e non confacente alla sua famiglia, anche rispetto ai fratelli.

Da qualche parte, egli si diceva, ci sono i miei veri genitori, quelli per cui potrei dire d’essere nato dalla loro pianta. Percepiva infatti d’essere fatto d’altro legno, di avere foglie foggiate diversamente, e soprattutto d’essere intento a fiorire, mentre tutt’intorno non si badava affatto alla possibilità di poter produrre dei fiori.

Quando ne parlava, dei fiori che sarebbero potuti sbocciare con un po’ d’impegno e di sentimento, e dei quali egli trovava i semi nel proprio cuore, veniva tacciato d’essere un sognatore, come se fosse la cosa più inutile e perversa.

Tutti invece si industriavano a coltivare il malumore e a conquistare cose prosaiche, a cui il ragazzo dava ben poca importanza, e lo spronavano severamente a dimostrarsene capace.

Anche con i coetanei le cose non andarono meglio. Sin dalle prime esperienze di socializzazione, il piccolo Riccardo si era sentito deluso e preferiva, alle scorribande rumorose dei compagni, i giochi dettati dalla fantasia, per i quali non trovava complici, e le meditazioni interiori che non poteva condividere.

Gli altri ragazzini gli parevano fatti di un’altra pasta, che lievitava con emozioni più grezze e violente, le quali, dall’adolescenza in poi, risultarono inclini alla legge del branco che sbranava i più deboli ed emarginava gli originali.

Però Riccardo, seppure soffrendo la solitudine, non sottostava affatto a tale dominazione, né la temeva. Essendosi sviluppato in se stesso, risultava effettivamente più maturo dei suoi coetanei e forte di temperamento, interiormente sorretto da una nobile sprezzatura che incuteva rispetto.

Poiché egli era, in un certo senso, fieramente un capo, pur solamente di se stesso, i capibanda e i loro sottoposti lo riconoscevano istintivamente come tale e lo temevano, forse anche invidiavano la sua virtù interiore.

Tentavano comunque di fargliela pagare distanziandolo, ma il ragazzo, che non apprezzava il loro mondo, non se ne curava più di tanto e cresceva autonomamente nello spazio che intorno a lui lasciavano per diffidenza.

Comunque, Riccardo ebbe, nel corso del tempo, molti amici, insieme ai quali confrontò il proprio sviluppo e affrontò le occasioni e le sfide della vita.

Con loro, egli si sforzava di comunicare il proprio sentire, che però, nonostante la reciproca stima e confidenza, veniva solo parzialmente accolto e condiviso.

Infatti Riccardo restava sempre e per tutti un originale che destava un affascinato stupore, nei casi migliori, o incomprensione e persino malcelata avversione.

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Anche nelle sue storie amorose, fin dalle prime esperienze, egli aveva riscontrato l’impossibilità di veder condivisa pienamente la realtà del proprio sentimento.

Infatti, pure nel territorio naturalmente empatico dell’amore, si trovava in qualche modo a sentirsi straniero, tanto da dover apprendere e applicare dei linguaggi e dei costumi che per le altre persone sembravano spontanei e intrinsecamente appartenenti.

Alle donne che amava avrebbe desiderato donare la totalità della sua anima, ma spesso veniva frainteso cosicché gli esiti del suo trasporto, non di rado, distanziavano più che unire.

Nelle solitarie meditazioni, il giovane sognava che da qualche parte ci fossero persone a lui più simili, con le quali avrebbe potuto comunicare direttamente e senza sforzo dall’anima.

Agognava incontrarle, per potersi rispecchiare in loro e quindi riconoscere se stesso con maggiore chiarezza e profondità.

A volte, aveva il sentore di aver incontrato uno di quegli esseri speciali, autenticamente a lui affine, ma ogni volta la prova della vita vanificava la sua illusione.

C’è da notare che Riccardo aveva affrontato con sincera avversione il lungo transito scolastico, per il rigetto che provava nei confronti dell’autorità che soleva imporsi come dato assoluto e fondamentalmente immeritato.

Egli avrebbe apprezzato dei validi insegnanti, capaci di stimolare la sua anima e il suo pensiero aiutandolo a maturare ciò che in lui si muoveva spontaneamente, ma non poteva avere alcuna stima per quei personaggi incapaci e banali che tenevano soprattutto a calare la mannaia dell’autorità costituita.

Specialmente negli anni delle superiori, il ragazzo aveva sognato degli originali maestri di vita e di cultura, ma era assoggettato a persone che non avevano proprio niente da insegnargli, questo era lampante, eppure pretendevano cieca obbedienza.

Riccardo, con poco sforzo, era comunque uno studente brillante, che talvolta si divertiva a mettere in difficoltà i propri insegnanti evidenziando con sagacia le loro lacune.

Essi non riuscivano a gestirlo né a giudicarlo correttamente, dato che esulava dai loro parametri.

In generale, nell’arco della sua vita, Riccardo era stato spesso accusato d’essere egoista, e solo perché si adoperava ad essere coerente con ciò che sentiva, seguendo le ispirazioni che in lui fiorivano.

Non che le volesse imporre agli altri, dato che intendeva semplicemente seguire la propria strada, quale che fosse, disponendosi ad imparare dai propri errori.

Però, siccome gli altri lo avrebbero voluto differente, adattato alle loro idee e ai loro programmi, frequentemente gli dimostravano il loro risentimento. Riccardo stentava a comprenderne il motivo, attendendosi dal prossimo il rispetto libertario che secondo lui era naturale e indispensabile in ogni relazione.

Così tentava di improntare i suoi rapporti, ma nonostante questo si trovava frequentemente coinvolto in labirinti relazionali che gli risultavano estranei e fastidiosi.

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Tutto questo si era mantenuto fino all’età in cui i ragazzi sperimentano il divenire uomini, e in realtà anche dopo non era definitivamente mutato.

Però Riccardo era cambiato dai tempi della fanciullezza e dell’adolescenza, durante i quali si era mostrato con spontaneità immediata e più volte ingenua.

Aveva infatti appreso l’arte della diplomazia, riuscendo a fingersi secondo le convenienze.

Tuttavia, pure se in tal modo i suoi comportamenti risultavano ineccepibili per il senso comune del consorzio umano, si accorgeva che comunque gli altri lo annusavano per quello egli che era effettivamente nell’intimo, e perciò continuavano a percepirlo come diverso.

Inoltre, se tale ingegneria diplomatica del carattere rendeva più agile la sua vita di relazione, rischiava però di allontanarlo dalla verità del proprio essere. La sua salvezza, in questo senso, gli venne dalla musica.

Era infatti dotato di un notevole talento musicale e, dopo gli studi al conservatorio, divenne un valido violoncellista. Coltivando la verità dei suoi sentimenti nella pratica dell’arte, poteva restare pienamente fedele a se stesso.

Quando suonava in concerto, Riccardo dimenticava ogni senso d’estraneazione sentendosi perfettamente sincronico agli altri musicisti, dato che l’orchestra intera si assorbiva nel miracolo della musica.

Nei riguardi dei direttori d’orchestra, egli non percepiva l’autoritaria separazione che aveva contraddistinto i suoi vecchi insegnanti, poiché anche loro fluivano nel moto comune, consacrato alla migliore brillantezza delle note.

Perciò nella musica cessava il suo sentirsi straniero, dato che una delle virtù dell’arte è quella di annullare i confini. Quindi il violoncellista assaporava un meraviglioso senso d’unità, fondendosi in quell’esperienza umana che s’elevava rendendosi bella e universalmente condivisa.

Però ciò avveniva soltanto durante i concerti; nel resto del tempo, anche durante le prove, trovava con i colleghi le solite incomprensioni e diversità.

Con rassegnato distacco, osservava gli intrighi, le rivalità e le meschinerie che per lo più contraddistinguono l’agire umano.

Comunque, giunto all’età di quarantacinque anni, Riccardo si considerava moderatamente felice. Aveva un rapporto d’amore che, negli alti e bassi, era soddisfacente, la sua carriera era ben avviata, e le angustie del non ritrovarsi nel mondo degli uomini erano sufficientemente sedate.

Ma un giorno fece quel sogno strano, che rimise tutto in discussione.

Era stato sogno strano, fatto di un tessuto differente dai sogni ordinari, maggiormente brillante e in qualche modo più certo della cosiddetta realtà.

Quella notte si era trovato a galleggiare in una pacificata sospensione e in piena consapevolezza di sé, non trascinato dagli eventi paradossali e repentinamente mutevoli che sono caratteristici dell’onirico, e che vincolano la coscienza a credere, senza poterne dubitare, ad ogni sorta di illusioni.

Non si era perduto nelle proiezioni fantastiche del proprio inconscio, cedendo pateticamente ad ogni suggestione, eccitante oppure spiacevole, come generalmente accade durante il sonno.

Piuttosto, si era sentito trasportare in un serafico galleggiamento attraverso fasce diversamente luminescenti e lievemente dense, come in un liquido amniotico immateriale e confortante.

Poiché così distanziava ogni comune ansietà, non si chiedeva il perché né il senso dell’evento, trovandolo naturalmente distensivo.

Nel mentre, poteva ricordare ed osservare i fatti della propria vita, trovandoli però del tutto privi di pathos e di interesse, come se fossero scene di un film troppe volte rivisto.

Anche le immagini che ripercorreva di se stesso, andando facilmente a ritroso fino a quando era bambino, gli risultavano come abiti tante volte indossati sino a divenire obsoleti.

Galleggiava e basta, godendo del viaggio senza meta. Egli fluiva incontrando amebe fluorescenti e vivamente cromatiche che, essendo costituite di luce, si lasciavano gioiosamente attraversare.

Sciami di semi lucenti lo sfioravano velocemente e senza danno, suscitando nel suo riposo una benefica stimolazione.

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Poi li aveva incontrati. Erano esseri vagamente simili agli umani, ma radianti e massimamente evoluti, resi morbidamente flessuosi da un’amorevolezza contagiosa che trapelava dall’intimo.

Per la prima volta, attorniato da quelle figure armoniose e gentili, Riccardo si era sentito davvero fraternamente accolto, sino a percepire d’aver finalmente trovato la via di casa.

Sì, perché quegli extraterrestri risplendenti lo richiamavano, senza parole e col sorriso dell’anima, all’autenticità della sua stessa natura, che a lungo egli aveva sospettato, mortificato e intimamente sperato.

Infatti li riconosceva infallibilmente come suoi fratelli, identici a lui ma in modo glorioso, poiché ricchi di una cosmica saggezza che egli, in sovrana gratitudine, poteva, per loro tramite, riscoprire.

Un cucciolo d’uomo allevato dalle scimmie si sente forzato a credere d’essere anche lui una scimmia, anche se molti fatti evidenti possano smentirlo; questo però fino a che non incontra un uomo.

Si era abituato a vedersi come una scimmia imperfetta, portando le sue diversità con un frustrante senso d’inadeguatezza, ma, allorché dispone dell’esempio umano, rispecchiandosi pienamente nelle sue caratteristiche può intuire, con immediata rivelazione, che la sua identità scimmiesca è solo un’inappropriata finzione.

Questo è simile a quanto accadde a Riccardo, ma su un’altra scala; infatti, incontrando quei magnifici extraterrestri, comprese che, essendo cresciuto tra gli uomini, si era inutilmente sforzato d’essere e di sentirsi simile a loro, poiché egli era effettivamente alieno.

Quegli esseri luminosi glielo confermavano con la loro amorevole accoglienza, la stessa che viene accordata a un fratello a lungo disperso, e telepaticamente gli dissero che era giunto il momento di tornare a casa, insieme a loro.

Però gli spiegarono che non potevano prelevarlo, dato che il compito di ascendere a loro livello spettava propriamente a lui.

Il mattino seguente, Riccardo tornò nel mondo ordinario con una gioiosa determinazione. Aveva riconosciuto la propria genuina natura extraterrestre, perciò nuove energie sconosciute rifluivano nel suo essere, come se fino ad allora non avessero potuto farlo perché inadatte all’identità umana.

Vedeva ogni cosa con fervida chiarezza e sentiva di disporre di una più alta energia, forse anche di sconosciute facoltà. In generale, si sentiva maggiormente centrato e corroborato, e fluidamente sincronico al proprio misterioso destino.

Non comprendeva il perché egli avesse dovuto soggiacere all’illusione di essere invece umano, tanto da portare il corpo fatto come quello degli uomini, perciò solo vagamente simile a quello lucente degli alieni che finalmente aveva incontrato.

Ma interiormente riconosceva la propria autentica struttura, luminosa e sottile come quella degli esseri cosmici.

Chiudendo gli occhi, vedeva il suo vero volto, ben più bello ed estatico di quello umano, e riusciva pure a intuire il suo vero corpo, dotato di fulgida flessuosità, che era contenuto dall’involucro carnale.

Riccardo era entusiasta che il suo esilio volgesse al termine, ma gli restava da capire come intraprendere il viaggio verso la sua vera casa.

E questo non era un problema da poco. Però si confortava pensando che, se i suoi fratelli cosmici l’avevano finalmente richiamato, voleva dire che poteva riuscirci.

Il punto era quello di ascendere sino all’astronave madre che stava lassù, da qualche parte, ad attenderlo, e molto probabilmente non avrebbe potuto farlo col suo corpo terrestre.

Quindi avrebbe dovuto raffinare la propria sostanza e, per sapere come, provò a contattare telepaticamente gli alieni.

Disponendosi con grande sensitività e ricettività, Riccardo inviò la sua richiesta nell’etere, confidando che sarebbe giunta a destinazione.

E infatti, dopo un tempo piuttosto lungo, in cui egli si impose di restare pazientemente quieto, gli giunse la risposta, non con parole rivolte a lui dall’esterno, bensì con precise intuizioni che sorgevano dalla sua interiorità. Seppe così come doveva fare, i rituali e le meditazioni che erano necessarie alla sua ascensione.

A ciò seguì un lungo periodo di preparazione e di pratica dell’intento, durante il quale Riccardo prese congedo dal lavoro per dedicarsi totalmente alle sue operazioni interiori.

Seguendo scrupolosamente le indicazioni ricevute, passava molte ore assorto in meditazioni sempre più profonde, avvalendosi anche delle vibrazioni dei cristalli.

Disposti numerosi cristalli di quarzo secondo un particolare diagramma, che gli alieni gli avevano suggerito, egli si sedeva nel mezzo e acquietava la mente.

Stando rilassato nello spazio della pura presenza, avvertiva le onde del campo energetico che lo attraversavano, rendendo più vitale e purificata la sua meditazione.

Molte volte incontrò la sfiducia, la stanchezza e la controproducente tensione prodotta dal desiderio di ascendere; allora si richiamava all’amorevole invito dei suoi fratelli cosmici, riconquistando in tal modo la serena certezza che tutto sarebbe andato per il meglio.

Questo sino al giorno in cui, già dall’inizio della meditazione, seppe che il momento dell’ascensione era finalmente giunto.

Mentre Riccardo galleggiava nello stato di presenza e assente da ogni identificazione, con la vista interiore contemplò la discesa di un fascio di luce dorata, certamente proveniente dalla nave madre che l’avrebbe riportato a casa.

Sentì di elevarsi in quella luce con moto spiraliforme antiorario, con tale lentezza che non pareva di salire; infatti il suo centro restava immobile, eppure era intensa la sensazione dell’espansione verso l’alto.

Superato un sottile diaframma di oscurità, tutto si rivelò massimamente brillante, e verso di lui si protesero molte braccia sottili e benedicenti che amorevolmente lo trassero nel centro della sorgente luminosa, nel cuore saporito del sole che irradiava purissima coscienza.

Molti fratelli cosmici erano con Riccardo, o meglio con quell’essere rinnovato nel crogiolo originario, per festeggiare il suo ritorno. Ed egli tutti riconosceva, poiché riconosceva Se stesso.

Dopo quanto tempo gli occhi fisici di Riccardo si riaprirono? Videro un mondo totalmente nuovo, ove ogni cosa riluceva un’aura sconosciuta e vivamente cromatica.

Tutto era dolce e aveva significato, tutto acquisiva realtà e beatitudine nell’insieme, tutto era miracoloso. Riccardo porse delicatamente  il palmo della mano circonfusa di luce e contemplò il flusso d’arcobaleno che ne scaturiva, riunendo il suo sentimento ad ogni cosa ch’egli guardava, nell’enfasi straordinaria della comprensione.

La sua liberata percezione conosceva tutto dal di dentro, sapendo l’interiorità segreta d’ogni creazione, che è ineffabilmente una e la stessa. Stette per un po’ a rimirare il suo nuovo corpo, intimamente godendone come gioiva di ogni altra forma.

Poi si alzò con la naturalezza di un pacato sorriso, e scese fuori per assaporare l’ampio respiro del mondo.

Là salutò con silenziosa benedizione i suoi simili, riconoscendoli in estasi e gratitudine, ed essi non erano affatto extraterrestri, ma esseri umani che finalmente egli vedeva senza le maschere costrittive e tristi che essi sceglievano di indossare, avendo scordato la loro autentica natura.

Risvegliatosi alla propria natura essenziale, Riccardo coglieva come essi realmente erano, perciò li amava, poiché amava Se stesso.

Era anche grato a quella moltitudine addormentata, perché nella loro inconsapevolezza l’avevano sfidato a scrollarsi dagli ultimi offuscamenti del sonno.

Infatti i conflitti che essi nutrivano, muovendosi in modo automatico e inconsulto, l’avevano sospinto a cercare la pace del risveglio. In un certo senso, la follia del mondo umano aveva vaccinato Riccardo tanto da guarirlo dalla sua stessa malattia.

In contraccambio, egli forse poteva essere, per quelli che l’avessero inteso, un’ispirazione per il loro risveglio.

5

 

Satvat

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