Alfonso

Alfonso, racconto di Alessandro Flora

Si chiamava Alfonso ed era un uomo mediocre, mai al di fuori degli schemi.

Era nato in una famiglia della piccola borghesia; erano in quattro fratelli, due sorelle, lui e il fratello più piccolo. A tutti era stato dato un nome di un qualche parente importante, meno lui, il suo fu scelto per caso, quasi estratto a sorte.

Era un nome un po’ altisonante e desueto che sapeva di baffi portati alla manubrio, ma lui come per tutto il resto della sua vita lo aveva accettato di buon grado, anche se da piccolo gli costò l’ironia e le continue battute dei suoi amichetti e compagni di scuola.

A vent’anni tentò la carriera militare ma fu scartato per insufficienza toracica, così esile e gracile fin dalla nascita, nonostante i continui sforzi inutili di sua madre a farlo irrobustire.

Alla soglia dei trent’anni si sposò con Anna che non lo amava, anzi a dir il vero appena lo sopportava, ma tant’è che celibe non era il caso di rimanere, qualcuno avrebbe avuto qualcosa da ridire e questo lui non lo desiderava affatto.

Ebbe una figlia di nome Lucrezia che crescendo non gli assomigliava né d’aspetto né per indole, questo fatto per qualche tempo l’aveva messo nel sospetto che non fosse neppure sua quella bambina, anche perché era nata sei mesi dopo che lui e Anna si erano conosciuti in senso biblico.

Ma anche in quell’occasione sempre per evitare scandali attorno a sé, avevo accettato quella figlia come sua.
Di questo non si era mai lamentato con nessuno, perché lui non amava lamentarsi e neanche protestare, per lui era un incubo solo il pensiero di volerlo fare. Questa vita mediocre in fondo gli aveva dato tanta sicurezza, ed era la cosa a cui lui più anelava.

Prima di conoscere sua moglie aveva concluso gli studi con profitto, ed era stato assunto presso un istituto bancario e avrebbe anche potuto fare carriera, vista la sua quasi maniacale e certosina precisione a svolgere le sue mansioni, ma avrebbe anche dovuto farsi notare di più, cosa che viceversa il suo collega Marco sapeva ben fare, così sicuro di fronte ai superiori, così prepotente con i colleghi, e con quelle sue maniere da playboy con le segretarie dell’ufficio paghe del terzo piano durante le pause caffè.

No Alfonso tutto ciò non l’avrebbe mai saputo fare, sentiva invece sempre il bisogno di rimanere placidamente sulle sue, e in fondo perché darsi tanto da fare? Una casa, una famiglia e un lavoro già ce l’aveva, perché spingere per farsi notare?

Sentiva di non avere niente di cui lamentarsi, certo la figlia Lucrezia lo burlava continuamente per quel suo modo mansueto di assecondare sempre ciò che sua moglie gli imponeva, e alle volte aveva avuto la sensazione che tra quelle due donne ci fosse come un patto segreto, a cui lui non era dato di entrarci.

Però mai avrebbe osato intromettersi tra le due o chiedere una qualsivoglia spiegazione.

Amava di tanto in tanto andare al cinema, sempre da solo perché a sua moglie non gli piacevano quei vecchi film che lui tanto adorava.

Ogni quindici giorni di domenica mattina giocava a tennis col collega Marco, perché uno sport bisogna pur praticarlo come la maggior parte dei suoi conoscenti.

Alla fine della partita declinava gentilmente sempre l’invito dell’altro ad andar a bere qualcosa, come una birra o un cognac anche se aveva vinto. Lui rifiutava sempre, temeva l’effetto disinibitorio dell’alcool e solo per le feste comandate accettava di bere due dita di spumante, giusto per non attrarre su di se con un secco rifiuto il clamore e le attenzioni degli altri; ma lui dagli eccessi non era mai stato attratto neanche da ragazzo, figurarsi adesso che era un uomo maturo e padre di famiglia.

Non gli importava che Anna al contrario durante le occasioni di festa si lasciasse andare con qualche bicchierino di troppo, come per l’ultimo capodanno festeggiato a casa sua, quando si era messa a ballare scalza in modo sensuale ed esagerato con Marco, passato di là per gli auguri dopo la mezzanotte.

Non badava troppo a questi dettagli, la cosa importante era stare ben bene dentro le righe, che per lui era come una calda coperta in cui sprofondare e sparirci dentro.

L’unico interesse che si concedeva era la lettura di saggi storici, l’aveva sempre sentita una forte attrazione per la Storia, avrebbe voluto anche studiarla, ma non lo fece per assecondare, come ben sapeva fare, quella volta il volere di suo padre che lo costrinse a intraprendere l’indirizzo economico, che dava maggiori garanzie nel trovare poi un impiego.

Anche in quell’occasione senza ribellarsi, aveva accettato di piegarsi al volere altrui.
Tutto questo essere soggiogato, tutta questa calma, questa quieta monotonia che era riuscito a garantirsi, fu messa allo sbaraglio il giovedì mattina del 21 marzo del 2007, anno in cui aveva compiuto quaranta anni e il mese dopo la moglie Anna ne avrebbe compiuto 38.

Prima di proseguire a narrare come andò per lui questa funesta giornata, bisogna fare una precisazione; cioè che Alfonso non sognava mai, o almeno lui non si ricordava di averlo mai fatto, eppoi sognare per lui sarebbe stata un’eccezione, una divagazione inutile che avrebbe di sicuro messo a repentaglio la sua copertina da normale, anzi normalissima realtà in cui credeva di crogiolarsi.

Ma quella notte tra mercoledì e giovedì invece aveva sognato, e anche di brutto.

Sogni spaventosi che l’avevano portato nel sotterraneo dell’istituto bancario in cui lavorava, dove c’era l’archivio cartaceo, e sempre ben volentieri scendeva lì sotto a sistemare faldoni e cartelle piene zeppe di ricevute, copie di contratti scaduti e tanto altro, ma nel sogno tutta quella carta stampata lo sommergeva, quasi lo soffocava e non riusciva a liberarsene, sentiva che avrebbe dovuto iniziare a gridare aiuto a squarciagola, per attrarre l’attenzione di qualcuno per essere salvato.

Poi nel sogno s’era ritrovato nella piazza del municipio della sua città, dove al centro svetta una grande
statua equestre enorme, con un eroe risorgimentale in groppa al cavallo, messa su un piedistallo molto alto che la fa sovrastare di netto sulla piazza, tanto che è impossibile passare da quelle parti e non notarla;

ebbene lui s’era visto al posto dell’eroe, ma completamente nudo, e tutto intorno a lui e sui gradoni che
portano dentro al municipio, c’era assiepata mezza città, la sua famiglia d’origine, i suoi colleghi, i suoi amici d’infanzia e di scuola e tutti ridevano a crepa pelle, tutta quella folla sguaiata era lì per lui e tutti lo
indicavano.

Il sogno era finito così, e quando si svegliò senti lo scrosciare della doccia che sua moglie stava facendo, prima di andare al lavoro.

Reso un po’ inquieto dall’insolito avvenimento, aspettò che Anna uscisse per alzarsi e rimanere da solo, approfittando anche dell’assenza della figlia, in quei giorni partita per una gita scolastica.

Quel giovedì lui non doveva lavorare, perché era stato costretto dal suo superiore a prendersi 2 giorni di ferie, preoccupato dallo strano pallore con cui Alfonso si era presentato in ufficio all’inizio della settimana.

Appena sentì sbattere da Anna la porta d’uscita del loro appartamento, con metodo e come sempre faceva lentamente, uscì dalle coperte, inforcò le ciabatte e si buttò sulle spalle la vestaglia da camera.

Senza fretta uscì dalla stanza da letto e girò a destra, infilando il coridoietto che lo separava dalla cucina, nel fare questi pochi passi sfiorò l’unica cosa presente sul suo cammino, era una bella pianta di Ficus Benjamin che aveva regalato a sua moglie l’anno precedente;

era stata lei a decidere di mettere la pianta lì: “Così faccio meno di vederla”, perché ad Anna le piante non erano mai piaciute, anzi le odiava.

Infine svoltò a destra per entrare in cucina e prepararsi un decaffeinato come ogni mattina, ma d’improvviso sentì una voce ansimante provenire dal coridoietto, certo pensò che in casa non ci fosse nessuno, quindi andò a origliare alla porta d’uscita e guardò attraverso lo spioncino, ma non vide né senti nulla, silenzio completo, per le scale del suo condominio sembrava non esserci anima viva.

Tornò indietro convinto finalmente di prepararsi la colazione, ma appena s’avvicinò alla caffettiera sul tavolo udì ancora quella voce.

Non volle badarci convinto che dovevano essere stati gli incubi a rintronargli le orecchie, e ancora una volta fece finta di niente, mise la caffettiera sul fuoco e aspettò che il decaffeinato salisse, quindi la prese su con diligenza e la mise sul tavolo, vicino ai biscotti dietetici che s’era costretto a mangiare, non perché avesse dei problemi di sovrappeso, tutt’altro smilzo com’era, ma s’era convinto che così non rischiava di ammalarsi e le conseguenti attenzioni che la sua malattia avrebbe prodotto in casa e sul lavoro.

Si sedette al tavolo e per un attimo ebbe la sensazione che il bisbiglio, quella voce fosse sparita, ma non fece in tempo a gioirsene né a mettere il biscotto a basso contenuto calorico in bocca, che questa volta la voce sembrava pronunciare il suo nome: “Alfonso, Alfonso, ho sete!… dammi da bere se no qua crepo rinsecchito!”

Il terrore gli fece sbandare la tazza mentre la stava appoggiando sul piattino, rovesciandolo il liquido, ancora caldo, sul tavolo formò una grande macchia scura e allargandosi a sinistra finì per formare un rivolo che prese a colare sul pavimento in mezzo alle sue gambe.

D’istinto si scansò ma fu peggio ancora, perché nel tentativo d’inforcare una ciabatta il piede gli scivolò sul decaffeinato. Giunti a questo punto non riuscì a trattenersi, e dalla bocca gli uscì un gridolino isterico, un po’ per lo spavento e un po’ per il danno fatto.

Allungò allora il braccio destro al lavabo e prese su uno straccio nell’intento di pulire, chino per terra iniziò per asciugare il pavimento, ma stavolta con più impeto quella stessa voce mai sentita prima, lo rimbrottò “Alfonso io muoio di sete e tu fai le pulizie?”.

Sollevò di scatto la schiena e andò dolorosamente a sbattere la nuca sotto il tavolo di formica, perse l’equilibrio e ricadendo su un fianco si ritrovò seduto per
terra.

“…e allora ci devi mettere così tanto…?” ancora una volta quella presenza lo redarguì.

Non poté altro che farsi coraggio e rinunciando ad aggiustare il danno che aveva combinato, lasciò lì per terra lo straccio, uscì ancora una volta dalla cucina ma questa volta entrando nel coridoietto rivolse la sua attenzione a sinistra verso le due stanze da letto, niente, non vide nient’altro che il Ficus che iniziò a fissare come per cercare una soluzione a quello che gli stava accadendo.

“E’ inutile che fai finta di niente, t’ho detto che c’ho sete…. Su dammi da bere!”

Fu inequivocabilmente in quell’esatto istante che Alfonso capì che era proprio quella pianta a parlargli. Spalancò entrambi gli occhi come un uccello notturno, ma l’altro lo incalzò di nuovo

“E’ inutile che sbarri lo sguardo in quel modo, cocco, sei tu che mi hai portato qua perciò
dammi da bere subito!”
Il nostro malcapitato non poté altro che fare come in tutta la sua vita aveva sempre fatto e ubbidì, prese dalla cucina una caraffa e la riempì d’acqua, tornò indietro e versò il tutto nel vaso sulla terra rinsecchita.

“Ah questa sì che è una goduria, l’acqua è vita… lo sai anche tu…. nevvero Alfonso?”

Lui incredulo ma ormai completamente sottomesso dalle circostanze fece un cenno di assenso

“Lo so, lo so che in fondo sei un brav’uomo….” concluse il Ficus.

Non sapendo più che fare per sottrarsi da quell’imbarazzante situazione, con la scusa di dover riassettare la cucina lasciò la pianta da sola a dissetarsi. Ma una volta rientrato non pensò minimamente a pulire, viceversa prese una sedia e l’accostò alla porta di vetro del suo poggiolo che dava su un grande cortile, formato da caseggiati simili a quello in cui viveva.

Guardò in alto fuori attraverso il vetro, il cielo era azzurro e quella prima giornata di primavera prometteva un po’ di tepore; rifletté su quello che gli stava accadendo e finì che doveva essere per forza una cosa seria. Poi d’improvviso scorse nel vetro la sua immagine riflessa ed ebbe pietà di se stesso, in quell’immagine vide tutta la fragilità d’un uomo che non aveva fatto altro nella vita che badare a nascondersi, per rimanere al riparo dalle attenzioni degli altri.

Gli occhi gli s’inumidirono, le lacrime spingevano calde tra le ciglia per uscire, era triste adesso temeva che quella cosa grave che gli stava accadendo, avrebbe potuto mettere a repentaglio il suo anonimo quieto vivere, cui lui non sapeva rinunciare.

Ebbe la percezione che molto presto sarebbe stato costretto dai fatti, a doversi confrontare col mondo lì fuori. Già immaginava vedersi obbligato a dover dialogare con i vicini che abitavano nei palazzi vicino al suo, con la gente per strada, con i suoi colleghi e in casa. Allora non poté più trattenersi, e arreso lasciò le lacrime sgorgare copiose, per la prima volta da quando non era più un bambino, permise a se stesso di vivere fino in fondo l’emozione, e rumorosamente iniziò a piangere disperato.

Con più dolcezza questa volta la voce in corridoio gli disse “Bravo fai bene a piangere, non può farti che bene, anch’io sai ho le mie disgrazie… come te le tue, ….dai, adesso vieni qua che parliamo”

Per pudore Alfonso si ricompose asciugandosi le lacrime prima di ritornare dal Ficus, una volta di fronte ad esso ebbe la sensazione che il vegetale fosse rinfrancato dalla bevuta, perché le foglie apparivano più distese e lucide.

“Anch’io ho le mie disgrazie e i miei dolori, tua moglie che mi odia, tua figlia la Lucrezia poi, quella non fa altro che spegnere le cicche che fuma tra le mie radici sotterrandole, così voi non vi accorgete che lei fuma già da un anno, e tu prima mi scegli tra tante in negozio, mi porti a casa tua e mai una carezza o una gentilezza nei miei confronti, relegato a vivere in questo corridoio perennemente nella semioscurità, mai un raggio di luce, mai un po’ d’aria fresca che scivoli tra le mie foglie!”

Alfonso fece un cenno di risposta per giustificarsi, ma l’altro riprese “Non fa niente, non fa niente, la cosa più terribile è la nostalgia che provo per la terra d’origine dei miei antenati, il caldo del tropico, eppoi quell’odore insipido e nauseabondo della vostra cucina, sapessi Alfonso dalle mie parti quando gli uomini si preparano da mangiare l’aria si riempie d’odori speziati, sapessi, quanto sono fragranti e avvolgenti…”

Il nostro se ne stava zitto, come sempre certo ma questa volta era diverso perché l’interlocutore era riuscito a coinvolgere la sua immaginazione, e Alfonso era assorto a pensare quelle terre esotiche e lontane, quasi gli pareva di vederle, così ricche di odori che lui non conosceva e di colori sgargianti così diversi dal grigiore della città in cui viveva.

Il Ficus, forse accorgendosi che l’altro era assorto sprofondato nei suoi pensieri, un po’ brusco riprese “e adesso lasciami dormire un po’, che tanto in questa situazione in cui sono costretto a vivere, è l’unica cosa che posso fare, dormire, così il tempo passa più in fretta, per avvicinarmi velocemente alla fine, e finalmente crepare. Va via, lasciami solo per favore”

Alfonso si destò dalle sue piacevoli fantasie e tornò in cucina, pulì il decaffeinato ormai freddo sparso per terra e mise tutto in ordine.

Ora il silenzio regnava nella casa.

Passati buoni quindici minuti si convinse che doveva essersi trattato di un fenomeno passeggero, ma per non rischiare nulla, silenziosamente passò vicino alla pianta per andare nella stanza da letto, si vestì e infilò i piedi nelle scarpe di cuoio marrone e il portafoglio nel taschino interno della giacca.

Uscì cauto dalla camera, si diresse verso la porta d’uscita e lasciandola alle sue spalle la richiuse badando a non produrre del rumore superfluo.
Quando si ritrovò in strada prese a riflettere su ciò che aveva appena vissuto, perché lui era un uomo che certo rifletteva molto sulle cose e tanto anche, ma poi gli mancava sempre il coraggio di esternare le conclusioni in capo ai suoi pensieri.

Questa volta però non riusciva a trovare una spiegazione plausibile, d’accordo l’insolita presenza dei sogni che aveva fatto, poteva in una qualche maniera centrare, ma addirittura trovarsi a dialogare con una pianta gli sembrava un pochino esagerato come effetto.

Mentre elucubrava questi pensieri, era fermo di fronte al portone del suo palazzo, indeciso ancora su quale direzione prendere, svoltare a destra verso il viale o sul versante opposto per il corso. Scelse il viale perché meno caotico e poi con quel bel marciapiede spazioso, proprio adatto a chi desidera passeggiare tranquillo, perché lui di questo aveva bisogno camminare e ancora riflettere in santa pace.

Andò da quella parte perché sapeva che in fondo al viale avrebbe trovato il bar dove abitualmente beveva il secondo decaffeinato della giornata, perché quella era la strada che faceva ogni giorno per recarsi al lavoro.

Pensò tra sé e sé che era proprio un abitudinario, e si sorprese che questo gli producesse un sorrisetto
malizioso; era la prima volta che gli capitava di scoprirsi un po’ ridicolo nelle sue ossessioni. Ma subito si redarguì pensando che tutte quelle sue manie, gli assicuravano la calda copertina in cui lui amava celarsi.

Il viale era semi deserto, già era un giorno lavorativo, di qua una vecchietta passeggiava lenta appoggiata al bastone, di là uno studente trafelato evidentemente in ritardo per le lezioni, eppure Alfonso sentiva sempre più distintamente dall’alto provenire delle voci, pensò allora che la primavera era tempo di potatura degli alberi, che era tempo di sistemare i platani disposti in doppia fila lungo il viale.

Cercò con lo sguardo la presenza di qualche autoscala della ditta addetta alla manutenzione del verde cittadino, poi guardò in alto verso i rami alla ricerca del cordame, delle imbracature che di solito gli addetti usano, invece niente, non vide nessuno, né corde e neanche uomini intenti a segare nulla, solo rami che tra di loro si intrecciavano svettando dai tronchi.

Il povero Alfonso non fece tempo a collegare queste voci con quanto accaduto a casa sua, perché un platano che stava sorpassando gli chiese “Che hai da guadarci tu con quell’aria svampita, eh? Ti sembra giusto che noi si debba vivere ad ornamento dei viali, messi in riga come i pali dell’elettricità, ti sembra giusto?”

Il nostro impiegato di banca sbigottito a bocca aperta e naso all’insù, aveva voglia di chiedere come mai un albero fosse in grado di parlare, ma prima di poter proferire parole, un altro platano a pochi passi da lui lo riprese;

“Guardatelo se ne sta a bocca spalancata come le rondini, poverino, ma lo sai che vita penosa ci tocca fare? Pensa che ho un cugino piantato lungo la statale e qualche tempo fa un’auto sbandando lo ha investito, e come se non bastasse ha dovuto subire le ingiurie del guidatore perché l’auto era distrutta, ci pensi lo hanno maledetto, neanche fosse stato mio cugino a scegliere di vivere là, sulla statale!”

Per Alfonso tutto ciò era troppo, come un bambino si tappò le orecchie per non sentire più quelle voci, e rapidamente percorse l’ultimo pezzo di viale che lo separava dal bar che lui ben conosceva.

Entrò nel locale quasi balzandoci dentro come si usa fare salendo su una barca che ha già sciolto gli ormeggi, e tutti i presenti gli rivolsero addosso i loro sguardi, lui preso dal panico che a stento controllava, si sentì perso, scoperto in ciò che gli stava accadendo quella mattina da quando s’era svegliato, quella maledetta mattina che rischiava di mandare gambe all’aria una vita minuziosamente gestita per rimanere nell’ombra, nell’anonimato e che lui con tanta fatica era riuscito sempre a garantirsi.

Si girò verso il frigo con lo sportello in vetro e specchiandosi dentro, fece finta di riassestarsi la giacca e i capelli per togliersi dall’imbarazzo.

Il gestore del locale che intento a preparare i caffè alla macchina non l’aveva visto entrare, lo salutò cordialmente perché Alfonso erano ormai dieci anni che andava lì a bere il suo secondo decaffeinato, e aggiunse “il solito signor Alfonso? Un decaffeinato in tazza grande vero?”

Di spalle il nostro annuì e rimase di fronte al vetro quel tanto per riuscire a calmarsi, poi girandosi con falsa non curanza si apprestò al bancone, in un attimo il barman gli disse “Ecco qua signore è pronto, ci metto vicino un po’ di latte freddo come piace a lei”.

Il nostro non proferì parola ma l’altro che evidentemente aveva voglia di parlare proseguì “Iniziamo a lavorare più tardi oggi?” a questo punto, non potendo sottrarsi completamente al dialogo, Alfonso fece con la testa un cenno di diniego.

L’altro non si stupì e si accontentò del cenno di risposta per incalzarlo ancora “Ho capito s’è preso qualche giorno di ferie, ha fatto bene; anch’io e mia moglie la prossima settimana chiudiamo baracca e burattini, un’intera settimana di ferie… sa, proprio oggi facciamo venticinque anni di matrimonio, un po’ di riposo e un viaggetto ce lo meritiamo… una piccola vacanza… qualche museo… un po’ di shopping, e anche al casinò, mia moglie ama giocare a Black and Jack…”

A questo punto Alfonso non lo ascoltava più, era confortato che dall’atteggiamento del barman trasparisse che non s’era accorto di nulla. Ad un certo punto l’altro s’interruppe, per andare a servire una signora con un cagnetto che era appena entrata nel locale.

Finalmente era da solo di fronte alla sua tazza, cercando di non tradirsi fece i gesti di sempre, mescolò
lentamente lo zucchero, aggiunse un goccio, cioè appena un goccino di latte e alzò la tazza.

Era riuscito a recuperare la sua indole passiva, tranquilla e silenziosa che dava l’idea a chi gli stava di fronte, di uno un po’ assente che nulla aveva da dire o da proporre; difatti chiunque tentasse di attaccar bottone con lui presto o tardi si arrendeva, escluso il suo collega Marco che sembrava non badare a tutto ciò e con lui parlava a lungo, anche se Alfonso stava sempre zitto o al massimo si limitasse a proferire giusto qualche sillaba.

Stava per tirar fuori il portafoglio e così far intendere la sua intenzione di pagare e andarsene, quando sentì singhiozzare quello che sembrava una bimba o un bambino e trasalì; anche quando anni addietro Lucrezia, la figlia che forse non era neanche sua, da bambina piangeva lui reagiva sempre esagerando, diventava angosciato e tutto preoccupato.

Era l’unica cosa nella sua vita che riusciva ad abbattere il muro di passività e distacco che lo caratterizzava, facendo fuoriuscire le sue emozioni in maniera evidente. Tanto che la moglie Anna lo rimproverava sempre di fare una tragedia, solo perché la figlia stesse frignando.

Anche in quest’ occasione quel suono di lamento infantile lo scosse nel suo più profondo animo e iniziò a guardare in basso convinto di scorgere un bambino piangere, ma nel bar c’erano solo pochi avventori e tutti adulti.

Notò allora che quella voce sconfortata proveniva dalla sua sinistra, alla stessa altezza della sua tazza
ormai vuota, vide in fondo al bancone un enorme mazzo di rose rosse, venticinque per l’esattezza dentro un bel vaso di cristallo, a questo lui si avvicino convinto che dietro ad esso da qualche parte ci fosse una creatura d’uomo.

Apprestandosi alle rose una voce adulta disse “Che fa si diverte a osservare la disperazione della piccola perché presto, troppo presto è destinata rinsecchirsi e morire ancora prima di poter sbocciare?” Le voci adulte si fecero molteplici “Sadico”, “screanzato”, “è proprio senza cuore, lo sa
lei?”

Fu in quel momento che Alfonso notò al centro del bel mazzo, una più piccola rosa ancora con i petali chiusi, ed era proprio quella la fonte del lamento infantile. Come per la figlia Lucrezia, anche in questo caso non poté evitare di sentire salire dallo stomaco un’angoscia devastante, un bisogno di sfogare in qualche misura la sua preoccupazione.

“Belle vere signor Alfonso, le ho regalate io a mia moglie per il nostro venticinquesimo anniversario, è lei che ha voluto metterle in bella vista sul bancone perché così tutti…”.

Il barman s’interruppe perché guardando Alfonso che nel frattempo si era voltato dalla sua parte, notò il viso pallido come un lenzuolo, gli occhi sbarrati e lucidi, quasi inespressivi.

“Signor Alfonso si sente bene…? Vuole che…” a questo punto della frase il nostro sentì un terribile fischio sibilare alle orecchie, la vista divenne offuscata e le ginocchia si fecero deboli deboli, mentre un sudore glaciale sembrava avvolgergli tutto il corpo.

Non si accorse di svenire, disteso a terra con tutti attorno che lo guardavano stupiti, e il barman che aveva visto la scena dall’inizio che invece si faceva spazio per scansarli.

“Alfonso, signor Alfonso” chinato su di lui lo chiamò ripetutamente, poi girandosi alle persone più vicine disse “un’ambulanza, presto chiamate un’ambulanza e subito!”.

Il ticchettio del monitor dell’elettrocardiogramma fu la prima cosa che sentì risvegliandosi, piano la vista gli si dipanò e capì che era disteso in un letto d’una stanza d’ospedale, una flebo era attaccata al suo braccio e un grande cerotto teneva ferma la cannula, e dei fili uscivano da sotto la canottiera bianca che era solito indossare.

Di lì a poco entrò un’infermiera, lo guardò con un sorriso di benevolenza “Bene signore, si è ripreso.  Non si preoccupi, è tutto a posto, ha solo tanto bisogno di riposare. Domani la visiterà il medico e le
dirà cosa fare, adesso la lascio tranquillo… e mi raccomando se ha bisogno di me prema il bottone lì sulla pulsantiera appoggiata al comodino. Tra un po’ arriverà la sua signora, è stata avvisata dal gestore del bar che lei si trova qui. Ma adesso si riposi ancora un po’, dopo passo a vedere come va”, dicendo questo l’infermiera uscì dalla stanza.

Due ore più tardi era in compagnia della moglie, non si trattenne molto perché lui era molto stanco e si
addormentò quasi subito. Quella notte dormì come un sasso.
Cinque giorni dopo Alfonso fu dimesso, gli fu prescritta una leggera terapia antiansiolitica e delle sedute dallo psicanalista.

Nello studio dello specialista raccontò gli strani episodi che gli erano capitati, la pianta di casa sua, i platani e le rose che lui sentiva parlare. Ebbe anche l’occasione di ricordare fatti della sua vita lontani nel tempo e che lui aveva rimosso, e finalmente spiegare a qualcuno come gestiva il suo rapporto personale con il mondo esterno.

Di questi incontri ne fece parecchi e continuava di tanto in tanto sentire le piante o gli alberi parlare, ma fece come il suo analista lo consigliò “Le lasci parlare, non ci badi, vedrà che presto spariranno”

In casa non era esattamente lo stesso di prima, spostò il Ficus in cucina vicino alla porta del poggiolo e
quando Anna tentò di protestare, lui deciso fu irremovibile e senza cambiar parere le disse che la pianta aveva bisogno di un po’ più di luce e di aria fresca, e che stava bene dove lui l’aveva messa, perché era anche più comodo per accorgersi quando dargli da bere.

Un altro giorno ritrovandosi da solo in casa andò a frugare nella cameretta della figlia, finché non riuscì a scovare un pacchetto di sigarette nascosto in uno stivale. Quella stessa sera mise le sigarette in bella vista sul tavolo della cucina e aspettò paziente che le due donne tornassero da un pomeriggio di shopping.

Appena rientrate Anna vedendo il pacchetto gli chiese in malo modo “…e che è ‘sta novità, ti sei messo a fumare adesso, vuoi ammalarti di nuovo?” ma lui placidamente replicò “ma non sono mie, sono della Lucrezia”.

Mentre diceva questo, vide la figlia impallidire e sua moglie farsi tutta rossa sbigottita, al che aggiunse
“vado in camera a distendermi, mi sento un po’ stanco…” Non fece tempo a distendersi completamente che madre e figlia iniziarono una furibonda lite, la prima soprattutto a gridare, la seconda a piangere.

Lui sistemò il cuscino con calma e aprì per leggere un volume di storia antica.

Per colazione ora beveva caffè puro con la scusa iniziale che gli antiansiolitici gli abbassassero la pressione, i biscotti dietetici invece continuava a usarli perché oramai si era abituato a loro.
Dopo un mese e mezzo circa di sedute l’analista gli disse che la terapia era conclusa, difatti Alfonso non sentiva più i vegetali parlargli, anche la terapia farmacologica fu sospesa.

Tutto sembrava andare a posto come prima di quel giovedì ventun marzo; Marco il collega e amico che si vantava di conoscerlo come le sue tasche, sostenne invece che lui non era più lo stesso e mai sarebbe tornato ad esserlo.

Alfonso dal suo canto da una parte sperava che tutto tornasse come prima, con la sua bella copertina calda e in cui sparire, la sua anonima e morigerata vita passiva, dall’altra parte invece sentiva che era stato piacevole cambiare le sue abitudini, dire la sua, essere riuscito a imporsi come nel caso del Ficus ad esempio.

Qualche sera dopo tornando a casa fece il viale con i platani che non sentiva più, “ma sì è passata, tutto come prima, meglio, meglio così!” lo disse a se stesso più per convincersi che perché lo pensasse
veramente.

Risalendo le scale del palazzo dove abitava, sentì che decisamente era triste all’idea di ritrovarsi nella vita di prima del suo tracollo, ma tant’è era meglio adattarcisi cosa che lui sapeva fare benissimo. L’unico segnale di cambiamento erano i sogni, quasi ogni notte gli capitava di sognare, situazioni orribili ma anche piacevoli, ecco questo tangibilmente gli parve come un cambiamento stabile.

La mattina seguente era sabato e si svegliò da solo in casa, la moglie era in visita dalla suocera dove si sarebbe intrattenuta per il pranzo, e Lucrezia era fuori per gli ultimi giorni dell’anno scolastico.

Si alzò, andò in cucina, salutò il Ficus che chiaramente non gli rispose, si preparò il caffè e gli venne voglia di berlo affacciato alla porta del suo poggiolo, perché fuori faceva caldo, in quei giorni di fine maggio che annunciano l’affermarsi della bella stagione.

Appena bevuto il primo sorso di caffè, sentì delle voci femminili discutere animosamente su un qualche
argomento che non gli era ben chiaro di che cosa si trattasse, si sporse dalla balaustra per vedere meglio, ma non vide nessuno affacciato alla finestra né ai poggioli degli altri caseggiati, solo nel palazzo di fronte a lui, un po’ più in basso c’era un vecchio pensionato che in pigiama leggeva il giornale.

Allora con lo sguardo salì verso l’alto perché le voci femminili sembravano provenire da quella parte, per un attimo non scorse nessuno, poi ancora più in tetto sopra un’antenna vide due rondini che discutevano “Te lo dico io, i moscerini sono più nutrienti”, e l’altra “No, ti dico di no, coleotteri e farfalle sono preferibili per un buon pasto…” Alfonso non rimase stupito, anzi si può dire come rincuorato.

Negli stessi istanti Anna risalendo le scale della casa materna ebbe un sussulto, nella mente gli si piantò l’immagine di suo marito mentre un brivido fastidioso le risaliva la schiena; la stessa cosa nello stesso momento accadde a Lucrezia che aveva appena finito l’ora d’inglese.

Dall’altra parte della città Marco stava andando a prendere la sua ultima fiamma, ma d’improvviso accostò la sua decapottabile al marciapiede, di colpo pensò al suo collega e amico e sorridendo pestando il volante disse “Alfonso… Alfonso…!”

di Alessandro Flora

  • Bello e coinvolgente. Nella tematica mi ricorda Calvino. Dovrai farlo correggere però, per errori grammaticali nell’uso dei pronomi, tipo “a sua moglie non gli piaceva”, o alcune imprecisioni tipo “antiansiolitico” , che non esiste perché e una doppia negazione. Ciao.

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