Dolichopoda Laetitiae

Cammino. Non so da quanto. Un giorno, forse due.

La campagna toscana ride delle mie disgrazie. Il sole compie incurante il suo viaggio, sempre uguale e diverso, sopra la mia testa nel cielo di un azzurro compatto. Non ricordo di aver mai visto un cielo così terso, sembra la tela dipinta da un pittore con poca fantasia.

L’aria è torrida. Ho tolto la maglia già da un po’. Le spalle mi bruciano. Annuso l’odore della mia pelle cotta dal sole, odore di morto, diceva mia madre. A dispetto della scabrosità del sintagma mi è sempre piaciuto questo odore. Racconta di corse d’infanzia, di spensieratezza; quella che da tempo non ho più.

Cammino su una strada sterrata che attraversa un campo lasciato a maggese. Avanzo tra due filari di cipressi, neri e soli, malgrado siano uno accanto all’altro, squisitamente decadenti. Non una chioma folta e compatta, ma rami nodosi e pallidi che si affacciano spettrali tra ciuffi radi e cupi. Ossa levigate e solitarie parzialmente nascoste dalla pelle vegetale. Li guardo con compassione, e una poesia mi torna alla memoria, è Salvatore Quasimodo a parlare:

In alto c’è un pino distorto;
sta intento ed ascolta l’abisso
col fusto piegato a balestra?
Rifugio d’uccelli notturni,
nell’ora più alta risuona
d’un battere d’ali veloce.
Ha pure un suo nido il mio cuore
sospeso nel buio, una voce;
sta pure in ascolto, la notte.

 Rifugio di uccelli notturni, di Salvatore Quasimodo

L’erba secca ondeggia alta oltre i bordi della strada battuta. Sopra gli steli arbusti di cardi svettano per buoni 2 metri. Sorrido di meraviglia, guardandoli esterrefatta; non credevo potessero essere così alti. Protuberanze aliene che offrono la loro laniccia candida al sole, un dio spietato che riduce in polvere la loro vanità. Neri, quasi carbonizzati. Una foresta di cardi.

Ho legato un foulard di seta turchese sulla testa, a mo’ di bandana, per proteggermi dalla canicola. Se qualcuno della mia vecchia vita mi vedesse adesso si farebbe due risate, in fondo mi è sempre piaciuta l’idea di far ridere, ce n’è così tanto bisogno!

Ma non accadrà. Nessuno sa dove sono, forse neanche io con precisione. So con assoluta certezza di essere vicina al fiume, non perché lo vedo, ma perché lo sento. Lo sento col cuore, non con le orecchie.

La conturbante bellezza della campagna mi avvolge. Mi spingo oltre. La linea della ferrovia scorre sul crinale. La massicciata si inerpica oltre gli arbusti.

Mi spingo fin lì e attraverso le arcate di metallo che sorreggono i binari. Sono costretta a procedere carponi sotto la volta di acciaio imbullonata. Mentre mi appiattisco ventre a terra, e striscio sui gomiti, mi sorprendo a pensare quanto si stia bene qui. La calura è meno invadente qua sotto, pure gli occhi ne traggono beneficio. L’ombra ristora, tra le costole di un antico mostro meccanico costruito da chissà quale artigiano, un giocattolo abbandonato. La crosta di fango essiccato scricchiola sotto gli avambracci. La pelle delle ginocchia si incipria di polvere, le rotule giubilano, quasi fossero le gote di una nobildonna alle prese con il trucco prima di un ballo di gala. Un solletico interiore mi assale a quel pensiero. Non so perché. Resto così.

Attorno a me cocci di bottiglie spaccate da chissà quale barbone, anime abbandonate che hanno eletto la ferrovia a loro riparo. Mi giro supina. La terra è fresca a contatto con la schiena, ma entro poco un fuoco divampa al centro del petto. Abbandono le mani rilassandole sulle creste iliache.

So cosa c’è oltre questi archi, ci sono passata mille volte da bambina con la bicicletta durante le mie passeggiate in solitaria.

Chiudo gli occhi e assaporo il silenzio. Mai osare vivere in un posto dove non si vorrebbe morire … adesso capisco le parole di Carroll. Sento che in questo posto potrei morire, ne sarei onorata.

Chiu.

Deve essere calato il sole. Non me ne sono accorta. È così bello stare qua.

Chiu.

AArgh… una lama di dolore mi trafigge lo sterno, all’altezza del cuore. Non è la prima volta in questi giorni, ma adesso è più lunga e intensa del solito.

Chiu.

Lo sfratto è stato pesante, eppure è stato nulla rispetto alla perdita di tutte le mie opere.

Chiu.

Una vita dedicata all’arte per vedere tutto bruciato da un vandalo che ha appiccato fuoco al mio laboratorio.

Chiu.

Ah, l’assiolo! Nulla ha un potere lenitivo quanto il verso di quel gufo in miniatura. Come può una creatura tanto piccola dare benefici così grandi? Te ne sono grata, amico mio.

Chiu.

Un’altra fitta mi fa trattenere il respiro, mentre lungo la schiena trasuda un velo di sudore freddo. Riprendo a respirare profondamente. Adesso è notte fonda. Da quanto tempo sono qui?

Chiu.

Amico mio, sento che con te potrei dimenticare tutto. La mia vita precedente, l’incendio, la fatica di esprimermi e la frustrazione di non riuscirci mai a pieno.

Chiu.

Il dolore al petto si è trasformato in calore, uno spasmo, un crampo di intensità mai provata prima. Il respiro si blocca, ma non mi spavento. Grazie, piccola anima, per starmi vicino.

Chiu.

Sorrido mentre sento tutto più lontano. Rimango a fissare lo spicchio di cielo stellato oltre l’arcata metallica.

Chiu.

Una folata di vento spazza il cunicolo, trascinando il foulard turchese con sé. Lo porta via, oltre le costole del mostro meccanico fossilizzato. Lo fa incagliare nella corteccia di un albero. Un tiglio. Il tiglio secolare che vive oltre i binari.

Chiu.

Chiu.

Chiu…

Gli animali percepirono ciò che gli umani non potevano nemmeno immaginare. Nessuno si accorse che da quella notte i fiori del tiglio sparsero il loro profumo più forte di quanto non avessero mai fatto; le lepri rallentavano senza timore nei pressi dell’albero a saggiare l’aria con le narici.
Le serpi elessero le sue radici come nido preferenziale per deporre le uova. I gusci si rompevano molto prima del previsto e davano alla luce rettili perfettamente formati. Spesso sotto i raggi del sole più forte le nidiate palpitavano e si amalgamavano annodandosi tra loro in un perfetto groviglio di scaglie antracite e occhietti tondi screziati di giallo. Un prodigio.

I cipressi rinvigorirono, mostrando chiome folte e floride, enormi pennelli pronti a dipingere il cielo come solo la Toscana sa fare. Le loro bacche nascevano, da quella notte, con un bagliore dorato, diverse da sempre.

Niente restava di lei. Nessuno sentì la sua mancanza, semmai la natura stessa giubilava adesso per la sua presenza.

Il foulard turchese, impigliato al tronco del tiglio, venne inglobato in un fitto drappeggio di edera.

Mille notti si susseguirono, mille assioli dedicarono il loro canto territoriale di Letizia alla luna, balsamo sonoro per anime malinconiche.

In una grotta molto distante da lì, su una parete sepolcrale, centinaia di Dolichopoda Laetitiae stavano le une accanto alle altre come un sudario sulla roccia, pronte ad accaparrarsi il nutrimento da chissà quale pulviscolo aleggiante nell’aria. Al primo rumore o alla prima luce si sarebbero dileguate, sparpagliandosi.

 

Si sarebbe sciolta, la colonia.
Lasciata nuda, la pietra.

di Autumna

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