I guerrieri di fuoco

I guerrieri di fuoco, racconto di Paolo Ninzatti

Settembre. Anno del Signore 1529

La vita di Giaguaro Indomito volgeva al tramonto.

Come tutti gli uomini di sessantotto stagioni avrebbe dovuto prepararsi al passaggio da questa esistenza alla prossima, vicina agli dei. Forse si sarebbe rassegnato con lo spirito, se non fosse stato per le tribolazioni e gli sconvolgimenti avvenuti nell’Unico Mondo nelle ultime dieci stagioni. Non che prima la vita fosse stata facile, ai tempi in cui nel Regno Mexica si praticavano sacrifici umani.

Prima che la sua gente venisse conquistata dai guerrieri di Tenochtitlan, durante la sua gioventù era riuscito a scampare alla cattura durante le Guerre dei Fiori. Le sue gambe veloci e l’astuzia l’avevano salvato sempre. Un attimo di disattenzione e sarebbe finito prigioniero per il sacrificio sull’altare.

E quando la sua terra era diventata provincia mexica era diventato lui stesso cacciatore di vittime per gli dei. Poi la maturità gli aveva rallentato le gambe e lui era diventato sacerdote. Purtroppo la sua fede al Serpente Piumato era vacillata davanti all’arrivo dei primi uomini bianchi. Gli espagnoles, nonostante scambiati per inviati del Dio secondo le profezie, avevano obbligato la gente dell’Unico Mondo ad adorare il loro, che, nonostante aborrisse i sacrifici umani, predicava la morte per chi non vi credeva.

Se il Serpente Piumato o il dio Colibrì del Sud o quello del Sole richiedevano i cuori strappati da coltelli di ossidiana sugli altari, quello degli espagnoles voleva i corpi bruciati su roghi. Morte in ogni caso. Che fossero i preti mexica o quelli dell’Inquisicion, non faceva differenza.

Poi erano arrivati altri uomini bianchi, un’altra tribù. Sempre vestiti di ferro e con i volti pieni di peli, ma su gigantesche canoe volanti. I nuovi arrivati, gli italiani, avevano sconfitto gli espagnoles e riformato il Regno Mexica, la fede, gli dei, eliminando i sacrifici umani. In compenso avevano portato confusione insegnando nuove cose, che lui riteneva dannose.

Ad esempio, l’Unico Mondo non era affatto l’unico. Sembrava esistessero altre terre sia a oriente che a occidente. Italiani ed espagnoles venivano da un luogo chiamato Europa, ma esistevano anche l’Asia e l’Africa, dove vivevano altri uomini dalla pelle o gialla, o nera. E quanti dei! I Bianchi avevano cambiato tutto, anche il nome dell’Unico Mondo: America.

Giaguaro Indomito si era sentito strappare l’identità troppe volte. Era nato totonac; dopo la conquista era diventato mexica. All’arrivo degli espagnoles lui e la sua gente venivano chiamati ”indios”, sembra perché i primi Bianchi erano convinti di essere arrivati in un paese chiamato India. Poi gli italiani avevano nuovamete distorto la sua appartenenza e lui era definito come ”americano”. Era stato un italiano, di nome Amerigo, a confermare che l’Unico Mondo non fosse l’India, ma una nuova terra ”scoperta”.

A parte il fatto che l’Unico Mondo era sempre stato lì e non ”scoperto” come  una donna da amare, ma chiamare una terra col nome di una persona mortale era una vergogna, un’onta. Purtroppo erano i conquistatori a far girare il mondo secondo i loro capricci.

I mexica non erano stati da meno. Solo duecento stagioni addietro, erano arrivati, poveri e disperati dalla loro mitica Aztlan e si erano nutriti di erbacce, mexica, in nahuatl e da lì il nome. Barbari pezzenti diventati padroni. E anche gli espagnoles. Giaguaro aveva sentito la loro storia. Da poco si erano liberati dalla dominazione di un popolo chiamato moriscos, dalla pelle più scura della loro. Erano arrivati nell’Unico Mondo guidati da un italiano che voleva andare in India. E altri italiani erano arrivati. Quello chiamato Amerigo e poi gli altri.

La sua vita era stata un cambiamento di nome, identità, fede e padroni. Mexica, India, America. Ne aveva avuto abbastanza e ora, in un’impervia valle tra i monti a capo di un pugno di fedeli, Giaguaro Indomito faceva onore al suo nome, nonostate la veneranda età. La goccia che aveva fatto traboccare il vaso era stato il reclutamento del nuovo Regno Mexica, ora definito come Regni Uniti d’America, per una prossima guerra.

Come se non fosse bastato il marasma di terre che avevano detronizzato l’Unico Mondo dalla sua unicità, sembrava che a occidente, oltre il Grande Lago Salato, esistesse un paese chiamato Giapangu, dove si diceva che nascesse il Sole. In quel paese sembrava che dei demoni tramassero la Fine del Mondo. E che gli italiani reclutassero guerrieri dei loro alleati americani per una spedizione contro quei demoni.

Era ora di finirla con falsi dei e demoni. Il Sole nasceva a oriente. Come era possibile che Giapangu fosse situato a occidente? Le informazioni erano giunte contrastanti. Giapangu si trovava anche a oriente. Che razza di paese era? I Bianchi avevano convinto i regnanti americani che il mondo fosse sferico come una palla. E quindi il Sole nasceva e tramontava nello stesso punto.

Molti giovani si erano impautiti all’idea di dover essere inviati contro demoni o semidei in un luogo dove nasceva e moriva il Sole ed erano fuggiti unendosi alla sua banda e dandosi alla guerriglia. Il loro covo era situato in una valle accessibile solo attraverso una stretta gola. Si erano impadroniti di armi da fuoco e da quel pertugio poteva passare solo un uomo alla volta. I Bianchi o i loro lacché sarebbero stati decimati a uno a uno. Lui stesso, nonostante le gambe malferme per l’età, aveva una mira eccezionale.

Non appena l’allarme venne dato, Giaguaro Indomito afferrò l’archibugio a ripetizione e la pistola. Seguito dai suoi giovani fedeli fu il primo a barricarsi dietro un masso a poca distanza dal passaggio.

Il guerriero che si mostrò all’uscita dello stretto pertugio non differiva dai primi espagnoles o italiani arrivati nelle loro terre: vestito di ferro dalla testa ai piedi nell’armatura che ai tempi della conquista aveva parato frecce e colpi di mazze di ossidiana. Ma un proiettile di archibugio avrebbe perforato il metallo e l’armigero sarebbe caduto, bloccando il paesaggio a quelli seguenti, oltre a tutto impacciati dai pesanti abiti metallici. Il guerriero avanzò, lentamente.

Mentre prendeva la mira, Giaguaro notò che dalla ferraglia usciva del fumo. Dove c’era fumo doveva per forza esserci fuoco. Ma quali mortali potevano resistere alle fiamme? Giaguaro realizzò di trovarsi davanti a una novità. Una nuova sfida. Come gli espagnoles stagioni addietro. Non serviva spaventarsi. Bisognava combattere, seppure contro uomini che le fiamme non scalfivano. Vediamo se avrebbero resistito a un proiettile ben assestato?

Mirò al cuore e tirò il grilletto. Allo sparo seguì un clangore metallico. Le gambe erano vecchie ma gli occhi no. Il foro del proiettile era ben visibile, all’altezza del cuore. Il guerriero doveva essere stato ucciso. Invece, con suo disappunto, l’uomo proseguì il cammino. Giaguaro non si arrese, e più infastidito che impaurito, mirò, questa volta alla testa, e sparò nuovamente.

Nuovo tuono e nuovo clangore. Aveva centrato nel mezzo della celata, tra gli occhi. Riuscì a vedere il foro, prima che il fumo coprisse il corpo del guerriero che proseguì il cammino, lento ma inesorabile, penetrando nella valle, mentre un altro armigero, uguale, faceva la sua apparizione, fumoso e sferragliante.

Giaguaro udì le urla di terrore dei suoi giovani guerrieri che citavano demoni o dei. Doveva infondere nuovo coraggio ai suoi. E se doveva morire nel tentativo, così fosse. Sfoderò la pistola e si gettò all’aperto. Una decina di guerrieri di fuoco erano ormai penetrati nella valle. Giaguaro si piazzò davanti al primo, come per sfidarlo a duello. Puntò la pistola e sparò sei colpi. Alle gambe, al petto alla testa. L’avversario rispose sbuffando fumo e continuando ad avanzare, seguito dagli altri.

Giaguaro fu l’unico a rimanere in piedi con la pistola fumante in mano, indomito come il suo nome, mentre i suoi giovani guerrieri uscivano dai nascondigli e si inchinavano davanti agli uomini di ferro e fuoco. Una voce tuonò da dietro il passaggio. Parlava nahuatl, la sua lingua.

«Prode Giaguaro Indomito, il tuo coraggio è ammirevole, ma contro uomini meccanici non è vergognoso arrendersi. Hai cercato di fermare delle macchine, automini, spinti da ingranaggi e congegni a vapore, che per tua sfortuna non sono stati danneggiati dai proiettili, passati attraverso armature vuote. E ora vediamo di chiarire il malinteso.
L’Italia e i Regni Uniti non vogliono costringere giovani guerrieri a combattere in terre lontane. Ma soltanto volontari. E se qualche giovane se la sente di combattere le forze dell’Ombra in Giapangu sappia che sarà affiancato da questi guerrieri, immortali. E che i nostri nemici non sono demoni o semidei, ma uomini come noi, che prima o poi soccomberanno alle forze della Luce.
Quanto a te, puoi unirti alla spedizione. Ci sai fare con l’archibugio e la pistola. Nella tua lunga vita hai affrontato con cuore baldo i mexica, gli espagnoles e ora anche gli automini. Prima di raggiungere gli dei avrai l’onore di tentare di fermare un piano diabolico, anche se ordito da mortali come noi. Pensaci bene. Nel frattempo ti promettiamo che non verrai punito per la tua rivolta, visto che non hai ancora ucciso nessuno. Soltanto danneggiato una macchina che un buon fabbro riparerà.»

Chiarito l’equivoco, il cuore di Giaguaro Indomito esultò all’idea di suonarle a seguaci del gemello malefico del Serpente Piumato, dio dell’Ombra. Tanto vecchio non era, dopotutto.

di Paolo Ninzatti

Racconto breve ambientato nell’universo del romanzo “Le ali del serpente” dello stesso autore.

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