L’amor trovato, l’amor perduto

L’AMOR TROVATO, L’AMOR PERDUTO.

Tumos era un giovane ribelle e impetuoso, che viveva d’istinto e passione. Egli, infatti, era solito litigare con il fratello, Frenos, il quale, a differenza sua, era alla ricerca perenne di equilibrio e stabilità.

I due fratelli, benché condividessero la stessa dimora, non erano partecipi l’uno della vita dell’altro. Tale discorda recava molto dolore all’anziana e moribonda madre, la quale li costrinse a giurarle in letto di morte che, dopo il suo trapasso, essi avrebbero continuato a condividere la casa materna.

Sia Tumos che Frenos decisero di mantener fede alla parola data, entrambi per motivazioni differenti: il primo spinto dall’affetto che lo legava alla madre, il secondo perché la logica dell’accordo non ne prevedeva la rottura. I fratelli, però, continuavano ancora a discutere, anche sulle banalità, arrivando a litigare anche su cosa fosse più pesante fra un pelo e un capello.

Un dì accadde che Tumos s’imbatté quasi per caso, come in un sogno, in una figura bellissima, che emanava una luce celestiale, con la quale bastò un fugace scambio di sguardi per innamorarsene perdutamente. Pervaso da tale sentimento, egli iniziò a curarsi poco dal resto delle faccende mondane, giungendo ad ignorare del tutto le divergenze con il fratello.

Quella paradisiaca creatura era divenuta il centro del suo universo, tanto che il suo unico chiodo fisso era dare un nome a quegli occhi talmente spontanei da lasciarlo senza difese.

Per cui armatosi di coraggio e guidato dalla passione pulsante che tanto lo caratterizzava, si mise alla ricerca di tale mirabile donna. Tumos, nel tentativo di scoprire chi fosse colei che prese in ostaggio il suo cuore, iniziò a chiedere a chiunque incontrasse per la sua strada se conoscesse o meno tale fanciulla. Ma nessuno parve conoscerla veramente, benché ella avesse affascinato tutti i passanti nei quali si fosse imbattuta.

Nel corso di tali ricerche Tumos incontrò un’altra giovane e carismatica donna, Aselgheia, la quale gli si presentò innanzi sostenendo di essere una cara amica di colei cui il suo cuore tanto agognava.

Preso dall’emozione e dalla frenetica voglia di trovare risposte alle sue domande, Tumos le chiese: «Aselgheia come si chiama quella celestiale creatura, che, con un sol battito di ciglia, è divenuta la Signora del mio mondo?», la donna pacatamente saziò la sua sete di informazione, così gli rivelò:

«O mio caro e impetuoso ragazzo, il nome della fanciulla alla quale tanto il cuore tende risponde a quello di Aretè» e dopo una brevissima pausa, dopo aver scorto l’espressione estatica del ragazzo, ella continuò: «Mi dispiace però doverti recare un dolore, il cuore della tua amata è impegnato, ella,
infatti, appartiene sentimentalmente ad un uomo, il cui nome è Frenos».

Tumos, innanzi a tali parole, rimase in un primo momento pietrificato, il suo sguardo era assente, i suoi arti si irrigidirono piombando in un silenzio tombale, il dolore lo dilaniò talmente tanto che una parte di sé morì in un sol colpo.

Tutto ad un tratto però iniziò a riprendere conoscenza, il suo sguardo ritornò a palesarsi assumendo una sfumatura ardente e fiammata, preso dall’accecante ira, che non sente ragioni, si dirisse verso casa e in preda al cieco e divampante furore uccise Frenos strozzandolo con tutte le sue forze.

Una volta commesso innaturale fratricidio, Tumos sopraffatto dal senso di colpa, riverso sul corpo del fratello pianse disperatamente. Aselgheia, che nel mentre aveva seguito il giovane, assistette silente e compiacente a tale fardello, e dopo aver visto dolersi Tumos del disfatto, gli si avvicinò, con fare compassionevole e persuasivo, e gli disse: «O mio giovane amico perché ti disperi? Non devi piangere, bensì dovresti gioire poiché finalmente ti sei liberato di colui che ha reso la tua esistenza un inferno, il quale ti ha tolto tutto, persino la donna che amavi». Tumos rimase quasi ipnotizzato da queste parole, tanto da sembrare in stato di trance.

Aselgheia compiaciuta da tale reazione gli si avvicinò ulteriormente, sussurrandogli all’orecchio: «Mio dolce Tumos da oggi in poi ci penserò io a te», dopo di che lo baciò appassionatamente fino a giacere con lui accanto al corpo esanime dello sventurato fratello.

Alcuni mesi dopo il funesto evento, Tumos trovandosi nel bosco alla ricerca di bacche e frutti dei quali cibarsi s’imbatté nuovamente in Areté, ma nel scorgerla egli non vide più la regina del suo cuore, ma solamente un insulsa e squallida sguattera a causa della quale egli sporcò la sua anima col sangue del fratello. Ciononostante Tumos cercò di non prestarle attenzione, concentrandosi nella raccolta delle cibarie piuttosto che sulla ragazza.

Ma Aretè, avendo saputo che quel giovane con tanta passione e tenerezza si era messo sulle sue traccie, incuriosita ed affascinata da tale gesto, gli si avvicinò chiedendogli: «O caro e dolcissimo ragazzo, ho saputo che tu hai chiesto in giro di me. Di grazia potresti dirmene la ragione?».

Tumos sconcertato da tale presenza e infastidito dalla domanda, decise di risponderle vomitandole addosso tutto il suo rancore: «Credevo tu fossi una creatura divina e di te mi ero innamorato. Ma poi ho scoperto che tu eri solo un diavolo travestito da angelo, e mentre in preda al cieco amore io andavo alla ricerca di te, tu giacevi, incurante dei miei sentimenti, con mio fratello, Frenos. Adesso che, a causa tua, io l’ho ucciso, cosa altro vuoi da me?».

Areté rimase di marmo, ma riprendendo, quasi per necessità, velocemente cognizione della situazione gli rispose: «Ragazzo ma cosa stai blaterando? Io non sono mai stata con tuo fratello, neppure lo conoscevo. Io non conosco nessuno di questa città, io non possiedo dimora ma vago in continuazione alla ricerca di fedeli che decidono di dedicare la loro esistenza nel mio nome. Ma chi ti ha riempito la testa di simili sciocchezze?», egli intontito ribatté: «Aselgheia! La tua più cara e prossima amica».

La donna con calma spiegò al ragazzo che Aselgheia non era affatto una sua amica, bensì un impostora, il cui unico scopo era quello farla sparire dalla faccia della terra avvelenando i cuori di chiunque credesse ancora in lei.

Dopo aver chiarificato la situazione, con fare affettuoso e amorevole, si rivolse al giovane: «O Tumos, ora che conosci la verità, ritorna da me, pentiti dell’innaturale delitto che hai commesso, ritorna ad amare con purezza e trasparenza, ritorna a lasciarti pervadere dalla luce paradisiaca che emano!», ma il ragazzo, dopo un breve e riflessivo silenzio, in maniera lapidale le rispose: «O Areté la Signora del mio mondo eri tu, ma Aselgheia a letto mi aggrada ancor di più!».

di Marianna Visconti

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