Mito ed epica a Roma – Il poema di Roma: l’Eneide 4di4

Intanto Giunone, approfittando dell’assenza di Enea, fomentò Turno ad attaccare il campo troiano. Il re dei Rutuli si avventò contro le navi nemiche, riparate dietro un argine, e appiccò un incendio; la dea Cibele tuttavia tramutò le imbarcazioni in ninfe. Interpretando il prodigio come un lieto auspicio, Turno diede disposizioni per assaltare il nemico il mattino seguente.

Durante la notte, due giovani sentinelle dei Teucri (Eurialo e Niso), decisero di attraversare il campo dei Rutuli per andare da Enea e avvertirlo del pericolo; penetrati nottetempo nell’accampamento nemico, i due valorosi uccisero molti valorosi guerrieri, prima di morire da eroi.

Eurialo e Niso (1827) di Jean-Baptiste Roman, Louvre

Era di guardia ad una delle porte Niso, valoroso guerriero,figlio di Irtaco, maestro nel dardo e nelle frecce alate,mandato al seguito di Enea da sua madre Ida, ninfa cacciatrice; e gli era accanto il suo compagno Eurialo, il più bello degli Eneadi tra quanti vestivano armi troiane; il suo volto era percorso dalla prima lanugine.

Erano un cuore solo e nelle mischie stavano sempre insieme ed insieme si avventavano: anche ora da compagni vigilavano sulla porta. Niso disse: “Eurialo, gli Dei mi ispirano questo ardore nell’anima? O per ciascuno diventa una divinità la propria passione violenta? Io già da tempo medito nel cuore una battaglia o qualche grande impresa, non mi accontento più di questo inerte ozio.

Vedi come i Rùtuli sono laggiù, sicuri di sé; brillano rari i loro fuochi; riposano in preda al vino e al sonno; tutto intorno è silenzio. Dunque, ascoltache cosa sto pensando. Il popolo e i padri vorrebbero tutti che Enea venisse richiamato, che un messaggero vada a riferirgli cosa accade. Se mi danno quello che chiederò per te (perché a me la gloria è sufficiente), andrò io: sotto a quell’alturaio saprò certo rintracciare la via che mi conduca alle mura di Pallante”.

Eurialo, pensoso e posseduto dalla grande brama di gloria, parlò così all’amico ardente: “Niso, non mi vuoi come compagno in questa impresa? Ti lascerei da solo, ad affrontare un pericolo così grande? Mio padre Ofelte, avvezzo alle guerre, non mi ha educato da vile, indurito dai travagli di Troia, nel terrore dei Greci: mai ho agito così con te, seguendo il magnanimo Enea e la sua sorte. Ho un cuore che disprezza la vita e che ritiene di pagare con la vita la gloria che tu pure cerchi”.

E Niso disse: “Io mai di te ebbi timore, mai avrei potuto; se il grande Giove o altri dei Celesti guardano con occhi benigni al mio piano, possano riportarmi vittorioso, sano e salvo; ma se, come spesso succede in simili imprese, un Dio mi conducesse a morte, ti vorrei sapere in salvo: la tua tenera età è più degna di vita. Avrò qualcuno che seppellirà il mio corpo, una volta sottratto alla strage o riscattato; almeno – se il Fato non vorrà –avrò qualcuno che renderà gli onori funebri all’ombra assente. Che io  non rechi dolore alla tua infelice madre, la sola che osò seguirti, sdegnando il regno di Aceste”.

L’altro replicò: “Tu tessi invanoi tuoi vani pretesti; non muta il mio pensiero. Affrettiamoci!”. Svegliò le sentinelle,che davano loro il cambio. Abbandonando il posto di guardia, Eurialo e Niso andarono a cercare il re Julo.

 

[…]

 Essi si avviano, armati: giovani e vecchi, tutti i migliori li accompagnano alle mura.Con molti auguri. Julo, che – prima dell’età –ha cuore e cervello da uomo, detta i messaggi per il padre: il vento li disperderà tutti, li affiderà alle nuvole che corrono su per il cielo. Uscirono dalla porta, varcarono i fossati,e nella notte oscura giunsero nel campo nemico, dove moriranno, ma solo dopo aver fatto strage di Latini e Rutuli. Da ogni parte vedono corpi abbandonati nell’erba, in preda al sonno o al vino: sul lido vedono bighe staccate, con il timone in alto; tra le briglie e le ruote ci sono armi, vino, soldati addormentati.

Il figlio di Irtaco disse: “Eurialo, ora bisogna osare e colpire, la situazione lo richiede. Questa è la via.Tu stai in guardia e controlla da lontano che qualche schiera non ci assalga alle spalle; io farò strage qui e ti aprirò la strada”. Così disse, poi tacque; e subito, silenzioso, colpì con il ferro il tronfio Ramnete che russava con il profondo petto sopra un alto cumulo di tappeti: era anche lui un re e profeta gradito a Turno, ma con i suoi presagi non riuscì ad evitare la morte.

Accanto giacevano sdraiati alla rinfusa in mezzo alle armi tre servi di Remo: Nisoli uccise, poi sorprese lo scudiero di Remo, l’auriga che era sdraiato sotto i suoi cavalli (gli recise con la spada il collo che sporgeva); poi mozzò la testa anche al loro signore, lasciando il busto a sussultare nel sangue; il giaciglio ed il terreno erano tiepidi, bagnati dal sangue nero.

Niso uccise ancora Lamo, Lamiro e Serrano, che aveva giocato sino a tarda notte e che stava sdraiato – bellissimo nel volto e nel corpo -, vinto dagli eccessi del vino: ben meglio per lui sarebbe stato se avesse giocato tutta la notte, sino alle luci dell’alba!

Così imperversa un leone digiuno, terrore dell’ovile, spinto dalla fame divora e sbrana il timido gregge, muto per la paura, ruggisce orribilmente con la bocca insanguinata. Nemmeno Eurialo fa minore strage: infuria impetuoso, si avventa sulla gente sconosciuta; abbatte Fado, Erbeso, Abari (che dormivano ignari) e Reto che era sveglio e vedeva tutto. Per paura si era nascosto dietro un vasto cratere: si stava alzando, quando Eurialo giunse vicino e gli affondò la spada sino all’elsa, nel petto, ritraendola fuor piena di morte. Reto esalò l’anima fatta vermiglia dal vino e dal sangue.

Eurialo continuava la strage, furtivo; già arrivava alle genti di Messapo, dove vedeva spegnersi gli ultimi fuochi e i cavalli impastoiati brucare l’erba. Ed ecco Niso, che guardava l’amico accanirsi troppo nella strage, sussurra: “Andiamo via, la luce ostile si avvicina. Ci siamo vendicati abbastanza, la via attraverso i nemici è libera!”.

Si lasciarono dietro molte armature forgiate in argento massiccio, crateri e stupendi tappeti. Eurialo prese le bellissime falere di Ramnete, il cinturone ornato di borchie d’oro. Un tempo il ricco Cedico inviò quella cintura a Remulo di Tivoli, stringendo con un bel dono un legame di ospitalità, malgrado la lontananza. Morendo, Remulo la dette al nipote; in battaglia la conquistarono i Rutuli in battaglia: ora è di Eurialo, che tenta di adattarla al suo corpo. Il giovane cinse anche il comodo elmo di Messapo, adorno di bei pennacchi: i due uscirono così fuori del campo e raggiunsero luoghi sicuri.

Alcuni cavalieri, nel frattempo, spediti in avanguardia dalla città latina mentre l’esercito attendeva ordini schierato nei campi, recavano messaggi per Turno: erano trecento giovani armati di scudo, guidati da Volcente. Erano già vicino al campo, sotto le mura, quando videro da lontano i due compagni che prendevano un sentiero a sinistra; l’elmo tradì nella pallida tenebra notturna l’incauto Eurialo, colpito da un raggio di luna.

Se ne avvide Volcente e gridò dalla sua schiera: “Fermi!Dove andate? Perché siete in marcia a quest’ora?Chi siete?”. Non risposero, ma si affrettarono verso il bosco, confidando nell’ombra della notte. I cavalieri si gettarono verso i noti sentieri, bloccarono con le guardie ogni passaggio.

Era grande la selva, per tutta la sua larghezza, piena di cespugli e di lecci oscure, la riempivano gli sterpi, nell’intrico oscuro un solo sentiero biancheggiava. Quella cupa ombra e il peso grave del suo bottino rallentava Eurialo, la paura lo ingannò e si perse.

Niso andò innanzi, senza badargli, si era portato oltre i nemici, oltre i luoghi che sono detti Albani dal nome di Alba (dove allora il re Latino teneva i suoi grandi pascoli). Ad un tratto si fermò, invano cercava indietro l’amico assente: “Eurialo infelice,dove mai ti ho lasciato? Dove cercarti?”.

Ripercorrendo il sentiero tortuoso della selva ingannevole ritrovò le tracce dei suoi passi e vagò tra i cespugli silenziosi. Poi sentì i cavalli, il rumore, i richiami degli inseguitori. Dopo non molto sentì un gran clamore e vide Eurialoche, turbato dal tumulto, ingannato dal luogo e dalla notte, era travolto dallo stuolo nemico e invano cercava scampo. Che fare?

Con quali forze e con quali armiliberarlo? Meglio gettarsi tra i nemici e cercare una bella morte in battaglia? Allora, piegando il braccio e preso un giavellotto, guardando l’alta Luna pregò: “Tu, Dea figlia di Latona, aiuta la mia impresa, tu che sei la custode dei boschi e l’onore del cielo! Se mai il padre Irtaco ti offrì doni, pregando per me, se portai io stesso prede della mia caccia e le appesi sul tetto del tuo tempio: fa’ che io scompigli tutta quella schiera, guida la mia arma”.

Con tutta la forza scagliò il giavellotto. L’asta sferzò le ombre della notte e penetrò nel corpo di Sulmone; si ruppe e trafisse il cuore con le schegge di legno. Egli rotolò a terra, sprizzando sangue dal petto, con un lungo rantolo. Si guardarono intorno in ogni parte. Fiero del successo, Niso, dall’altezza dell’orecchio vibrò con più forza un altro dardo. I Latini, tremanti, erano lì: l’asta attraversa sibilando le tempie di Tago restò conficcata dentro il cervello. Il terribile Volcente si adirò, ma invano cercava l’uccisore per irrompere rapido su di lui.

“Tu, intanto, pagherai per entrambi con il tuo caldo sangue”, gridò. Sguainata la spada, si lanciò su Eurialo. Niso, allora, folle di sgomento, non seppe più reggere a tale minaccia e non si celò più nell’ombra: “Io! Io sono il colpevole! Rutuli, volgete le spade contro di me. È mio l’inganno. Lui non ha colpa, ne chiamo a testimoni il cielo e le stelle: solamente egli amò troppo il suo sventurato amico”.

Il ferro, spinto con gran forza, squarciò le costole, ruppe il bianco petto, Eurialo cadde morto; il corpo si bagnò di sangue, la testa si piegò, abbandonata, sopra una spalla: come quando un fiore purpureo, reciso dall’aratro, morendo illanguidisce, come quando i papaveri reclinano la testa, stanchi sul loro stelo, quando la pioggia li colpisce.

Niso allora si avventò nel folto dei nemici, cercava Volcente in mezzo a tutti, solo Volcente voleva, Sopra gli si addensarono i nemici, chi di qua chi di là per ricacciarlo; ma egli incalzava, roteandola fulminea spada, e infine la immerse nella gola dell’urlante guerriero dei Rutulie, già morente, l’anima gli tolse. Pur trafitto, si gettò sul corpo dell’amico esanime ed infine egli trovò riposo nella morte placida.

Fortunati ambedue! Se valgono i miei versi, se hanno alcun potere, nessun giorno che scorra lungo il fiume del tempo mai vi cancellerà dalla memoria, finché l’alta stirpe di Enea abiterà sul solido sasso del Campidoglio e il padre della patria romana guiderà l’impero.

VIRGILIO, Eneide, Libro IX, vv. 176-223; 308-449

Il giorno successivo ebbe inizio lo scontro tra i Teucri e la coalizione degli Italici. Dopo un primo assalto, i Rutuli iniziarono l’assedio del campo troiano. A distinguersi particolarmente, con atti di eroismo, fu il giovane Julo, figlio di Enea.

Di lì a poco, tuttavia, giunse Enea che, ottenuta l’alleanza degli Etruschi, ritornò nel Lazio accompagnato da una flotta di trenta navi. Nell’epico scontro che ne seguì, molti furono gli episodi degni di essere raccontati, ma lo scontro più cruento fu quello tra Turno e Pallante, il giovane figlio di Evandro, che era al comando delle truppe arcadiche: il valoroso ma inesperto condottiero greco, che era già legato a Enea da profonda amicizia, ebbe la peggio.

Duello tra Turno e Pallante

Appena vide i compagni [Turno disse]: “È tempo di cessare la battaglia;

io solamente assalgo Pallante; a me solamente spetta

Pallante; vorrei che vi fosse suo padre ad assistere”.

Così disse, e i compagni s’allontanarono dallo spazio vietato.

Quando i Rutuli si ritrassero, il giovane stupito ai superbi comandi

fissa meravigliato Turno e volge gli occhi sul corpo

immane, e squadra tutto da lontano con sguardo fiero,

e contrasta le parole del superbo re con queste parole:

“Avrò la gloria di averti strappato le ricche spoglie,

o d’una nobile morte; il padre accetta entrambe le sorti.

Cessa le minacce”. E parlato così, avanza in mezzo al campo:

agli Arcadi si gela il sangue rappreso nel cuore.

Turno balza dalla biga; si appresta al combattimento a piedi.

Come un leone, che scorge dall’alta vedetta

ergersi lontano nel piano un toro mentre prepara lo scontro,

si avventa: tale è l’immagine di Turno che si avvicina.

Quando credette che fosse a tiro di lancia, Pallante

muove per primo, sperando che la sorte aiuti l’audacia

della sua impari forza, e parla così al grande cielo:

“Per l’ospitalità del padre e per la mensa a cui giungesti

straniero ti prego, Alcide, assistimi nell’ardua impresa.

Agonizzante, mi veda strappargli le armi insanguinate,

e gli occhi morenti di Turno sopportino me vincitore”.

Ercole ode il giovane, e soffoca un grande gemito

nel profondo del petto, e versa lagrime vane.

Allora il padre parla al figlio con parole amiche:

“A ciascuno è fissato il suo giorno, breve e irreparabile tempo

per tutti è la vita; ma estendere la fama con le imprese,

questo è il compito del valore. Sotto le alte mura di Troia

caddero tanti figli di Dei, e perì con quelli

Sarpedone, mio figlio. Il proprio destino chiama

anche Turno, che giunge alla meta del tempo assegnato”.

Così disse, e distolse gli occhi dai campi dei Rutuli.

Pallante scaglia l’asta con grande forza,

e strappa dalla cava guaina la spada fulgente.

L’asta volando colpisce dove culmina il riparo

dell’omero, e apertasi la via nell’orlo dello scudo,

infine sfiora il grande corpo di Turno.

Allora Turno, vibrando a lungo l’asta munita

di aguzzo ferro, la scaglia contro Pallante, e dice:

“Guarda se la mia arma non penetri meglio”.

Parlò, e la grande cuspide attraversa con un colpo vibrante

il centro dello scudo, tante superfici di ferro,

tante di bronzo, la pelle di toro che lo avvolge più volte,

e perfora l’ostacolo della corazza e il petto.

Pallante strappa invano dalla ferita la calda arma:

per la stessa via sgorgano insieme il sangue e la vita.

Crollò sulla ferita; le armi sopra tuonarono,

e morendo percosse la terra ostile con il volto

insanguinato. Turno levato su lui così parla:

“O Arcadi, disse, riportate memori a Evandro

queste parole: Pallante, quale egli meritò, gli rimando;

qualunque onore del tumulo, qualunque conforto del sepolcro,

concedo. Non gli costerà poco l’ospitalità ad Enea”.

E detto così, calcò con il piede sinistro l’esanime,

strappandogli la pesante cintura e il delitto

che vi era inciso.

VIRGILIO, Eneide, Libro X, vv. 441-497

(traduzione di L. CANALI)

La morte di Pallante, fedele alleato ed amico, fece sorgere nell’animo di Enea la brama della vendetta. Con la spada sguainata, egli fece strage di nemici, uccidendo, tra gli altri, il feroce Mesenzio (un tiranno etrusco deposto dalla propria gente per la sua crudeltà) e il figlio Lauso.

Il giorno dopo venne concordata una tregua tra Troiani e Latini per poter seppellire i caduti; Enea celebrò esequie solenni in onore di Pallante; egli rivolse un commosso saluto all’amico morto, poi dispose di formare un corteo di mille soldati per riportare ad Evandro la salma del figlio. Nel frattempo, tra gli Italici, si diffuse lo sconforto, anche a seguito del ritorno degli ambasciatori dalle terre di Diomede: l’eroe greco aveva infatti rifiutato di prendere le armi contro l’antico nemico, invitando i popoli italici a stringere un trattati di pace con i Troiani.

“Antichi Ausoni, fortunate genti della terra di Saturno, quale destino vi spinse a uscire dalla vostra pace e vi sollecita, ignari, a muovere guerra? Noi tutti che con il ferro violammo le terre di Ilio (e non dirò dei mali che, combattendo sotto le alte mura soffrimmo allora e quali eroi travolse il Simoenta), noi per ogni terra patimmo angosce orribili; pagammo il fio delle nostre colpe. Oh, Priamo stesso sarebbe stato più misericordioso con noi. Lo sa la stella infausta di Minerva, e l’euboica rupe e il Cafarèo vendicatore.

Dopo quella guerra fummo sbalzati per diversi lidi: l’Atride Menelao fu esule sino alle ultime colonne di Proteo. Ulisse vide i Ciclopi dell’Etna. Racconterò dei rovesciati Laridi Idomeneo? Dirò dell’abbattuto regno di Neottolemo? Dei Locri che hanno preso dimora sulle rive della Libia?

E il duce miceneo dei grandi Achei giacque egli stesso al varco della soglia sotto la destra della sposa infame: il suo amante vinse il vincitor dell’Asia. Ed anche a me non tolsero gli Dei di vedere, tornando in patria, il sospirato talamo e la bella mia Calidone?

E orribili portenti mi perseguitano ancora: i miei perduti compagni (che tristissimo castigo!) che, trasformati in uccelli, si innalzarono in cielo con le penne o vagano sui fiumie riempiono gli scogli di ululati e di pianto.

Questo, ben questo dovevo aspettarmi sin dal tempo in cui assalii con il ferro,come un forsennato, i Celesti e oltraggiai con una ferita Venere divina. Non spingetemi a battaglie simili. Io non provo inimicizia nei confronti dei Troiani, da quando Pergamo cadde, né mi allieto nella memoria dei passati affanni”.

 

VIRGILIO, Eneide, Libro XI, vv. 252-280

 

Al termine della tregua, la battaglia ricominciò con un massiccio attacco da parte delle forze troiane; Camilla, la vergine guerriera, si offrì di affrontare la cavalleria nemica con i suoi Volsci mentre Turno con la fanteria avrebbe tentato di tendere un agguato ad Enea. A seguito di un epico scontro, Camilla venne uccisa dall’etrusco Arrunte, il quale tuttavia trovò la morte subito dopo ad opera di Opi, un’ancella vendicatrice della dea Diana.

Camilla in combattimento

Frattanto nelle sedi celesti la figlia di Latona chiamava

la rapida Opi, una della sacra schiera delle sue compagne

vergini, e le diceva queste tristi parole:

“Vergine, Camilla sta andando alla guerra crudele

e inutilmente indossa le nostre armi,

lei che mi è cara più di ogni altra. Non è nuovo in Diana

questo amore, non tocca l’anima di dolcezza improvvisa.

Cacciato dal suo regno per l’odio e la forza superba

dei suoi nemici, Metabo lasciava l’antica città di Priverno

e, fuggendo in mezzo agli scontri di guerra, portava

con sé, compagna d’esilio, la figlia bambina,

e la chiamò, mutando appena il nome della madre Casmilla,

Camilla. Portandola in braccio, andava per lunghe foreste

e boschi deserti: da tutte le parti incalzavano

le armi, e i Volsci volavano intorno in gruppi diffusi.

Ecco, a metà della fuga, la piena del fiume Amaseno

schiumava sopra le rive; tanta pioggia dal cielo

era caduta. Pronto a gettarsi a nuoto, l’amore paterno

lo tratteneva: temeva per il caro peso. E dopo aver meditato

tutto tra sé, prese una decisione improvvisa:

all’asta enorme che da guerriero reggeva nella sua forte

mano, solida per i nodi e il legno riarso,

legò la figlia, fasciandola col sughero e la corteccia silvestre,

e la collocò in equilibrio a metà dell’astile;

poi, palleggiandola con la forte destra, si rivolse al cielo:

– Vergine figlia di Latona, datrice di vita, sovrana dei boschi,

io, padre, ti consacro per ancella mia figlia, che, attaccata alle tue armi,

supplice fugge nell’aria il nemico. Te ne scongiuro, accoglila

per tua, affidata com’è all’aria rischiosa -.

Così disse e, piegato il braccio, scagliò con forza

la lancia; scrosciavano le acque e sopra il fiume rapido

l’infelice Camilla fuggiva sulla lancia stridente.

Metabo, incalzato dalla schiera che ormai gli era addosso,

passa a nuoto il fiume e poi, trionfante, svelle dalla zolla fiorita

la lancia con la piccola, dono di Diana.

Nessuna città lo accolse dentro le mura o in casa,

né, nella sua rudezza, mai si sarebbe arreso:

sui monti solitari condusse la vita

dei pastori. E qui, tra i rovi e le ispide tane,

nutriva la piccola avvicinando le tenere labbra

alle poppe di una cavalla, o con latte di capra.

Appena lasciò le prime impronte dei piedi,

le armò le mani con le frecce acute,

e sulle spalle della piccola caricò l’arco.

Al posto delle bende dorate e del lungo manto,

una pelle di tigre le pende dal capo sul dorso.

Con la mano ancora tenera scagliò armi infantili

e, ruotando sul capo la fionda con la cinghia ricurva,

abbatteva le gru e i candidi cigni.

Invano molte madri nelle città etrusche

la vollero per nuora; contenta della sola Diana,

conservò intatto l’amore delle armi

e della verginità. Vorrei che non fosse mai stata

gettata in questa guerra, ad affrontare i Troiani:

sarebbe una delle mie compagne, a me carissima.

Ma adesso che la incalza un destino crudele,

tu, ninfa, vola dal cielo sui campi latini,

dove con triste augurio si attacca battaglia.

Prendi le armi e togli dalla faretra una freccia

vendicatrice e ad essa chiunque, troiano o italico,

avrà violato il suo sacro corpo, pagherà il tributo di sangue.

Poi in una nube cava porterò in patria al sepolcro

il suo corpo infelice e le armi non conquistate”.

 

VIRGILIO, Eneide, Libro XI, vv. 532-594

(traduzione a cura di A. PERUTELLI, G. PADUANO, E. ROSSI)

 

Vedendo i Latini ridotti a mal partito, Turno decise di sfidare a duello Enea per mettere fine alla guerra. Latino e Turno da una parte, Enea e Julo dall’altra fecero un patto solenne: se la vittoria fosse arrisa a Turno i Troiani si sarebbero ritirati nella città di Evandro; in caso contrario, Enea avrebbe costruito una nuova città: Troiani e Latini avrebbero convissuto con uguali diritti.

Quando iniziò il combattimento la ninfa Giuturna, sorella di Turno, temendo per la vita del fratello, provò a rompere la tregua e a far iniziare di nuovo la battaglia tra i due eserciti; la regina Amata, credendo che il re dei Rutuli fosse stato ucciso e che tutto fosse ormai perduto, si impiccò nelle sue stanze.

Turno, accortosi dell’inganno di Giuturna, si ribellò e invitò tutti a deporre le armi; i guerrieri smisero di combattere per assistere alla singolar tenzone. Quando i due eroi si trovarono di nuovo faccia a faccia, il Fato decretò la sconfitta per il re dei Rutuli.

Anche la dea Giunone si rassegnò ad interrompere le sue trame e chiese al consorte un’ultima grazia: che, d’ora in poi, la stirpe dei Troiani non venisse più nominata nelle fonti e i discendenti di Enea fossero conosciuti dalla storia solamente con l’appellativo di Romani.

“Lo giuro per la fonte dello Stige, implacabile: unico giuramento valido per i Celesti. Adesso mi ritiro, abbandono sdegnata la lotta. Ma ti chiedo, per la maestà dei tuoi e per il Lazio, ciò che non è stabilito da alcuna legge del Fato. Quando ratificheranno la pace con felici nozze – e sia pure! -, quando si metteranno d’accordo sul trattato, disponi che i Latini non cambino l’antica denominazione, che non siano Troiani neanche di nome, che non mutino lingua né moda. Ci sia il Lazio con i re albani nei secoli dei secoli, ci sia la stirpe romana, potente per il valore italico: Troia è caduta, lascia che cada anche il suo nome”.

VIRGILIO, Eneide, Libro XII, vv. 816-828

 

Giove acconsentì e, un istante dopo, Enea riuscì a ferire mortalmente Turno: sguainata la spada per sferrare il colpo fatale, egli stava quasi per risparmiare il nemico vinto, quando si avvide che il re dei Rutuli indossava ancora il cinturone strappato a Pallante; nel ricordo dell’amicizia che l’aveva legato al figlio di Evandro, Enea non esitò più e affondò la spada nel petto di Turno, ponendo così fine alla guerra e conquistando definitivamente la mano di Lavinia.

 

Enea avanza, vibrando l’enorme lancia

simile ad un albero, e con animo feroce grida:

“Turno, perché indugi e ti attardi?

Non si tratta di correre ormai, ma di combattere

corpo a corpo, con armi brutali. Prendi tutte

le forme che vuoi, raduna il coraggio e le astuzie

che puoi: spera di innalzarti con le ali sino alle stelle,

di chiuderti al sicuro nella terra profonda…”.

Turno, scuotendo il capo, rispose: “Non sono le tue parole

ad atterrirmi, crudele, ma i Numi e Giove avverso”.

Non disse altro. Volgendosi scopre un enorme,

antico macigno, che giaceva in mezzo alla pianura,

messo lì per segnare il confine di un campo

contro eventuali liti. Dodici uomini quali produce

oggi la terra lo reggerebbero a stento sulle spalle,

ma Turno lo solleva con mano ansiosa e, in fretta,

levandosi più in alto che può, riesce a scagliarlo

contro il nemico. Non riconosce se stesso nel correre,

nel camminare, nell’alzare e avventare quell’enorme

macigno: le ginocchia gli tremano, il sangue si rapprende

per il freddo. La pietra, rotolando nel vuoto, non supera

tutto lo spazio né giunge a segno. Come in sogno,

di notte, quando una languida quiete ci ha chiuso gli occhi,

ci sembra di voler correre inutilmente, correre a perdifiato,

e in mezzo ai nostri sforzi crolliamo giù, impotenti:

senza moto la lingua, spento il noto vigore del nostro corpo,

privi di parole e di voce. Così la Dea terribile nega ogni speranza,

ogni successo a Turno ovunque il suo valore tenti la via.

Allora nel fondo del suo cuore s’agitano sentimenti contraddittori.

Guarda i Rutuli e la città, la paura lo attarda, trema

all’avvicinarsi della morte e non sa come fuggire

o come affrontare il nemico, non vede in nessun luogo

il carro e la sorella trasformata in auriga. Enea,

mentre egli indugia, agita in aria il lampo della lancia fatale:

colto con gli occhi il punto preciso, vibra il colpo da lontano,

con tutta la forza. Mai stridono così i macigni lanciati

da macchine d’assedio, mai così fragorosa scoppia la folgore.

L’asta volando come un turbine porta con sé la morte:

sibilando attraversa gli orli della corazza e dello scudo

fatto di sette strati di cuoio, si pianta nella coscia.

Il grande Turno cade, piega il ginocchio a terra.

Balzano in piedi i Rutuli gridando, la montagna

tutt’intorno echeggia, le profonde foreste ripercuotono

il suono per un lungo tratto. Turno supplichevole, umile,

rivolgendosi ad Enea con gli occhi e con le mani in atto

di preghiera, dice: “Ho meritato la mia sorte e non chiedo

perdono: segui pure il tuo destino. Solo, ti prego, se hai pietà

di un infelice padre (come Anchise lo fu) sii misericordioso

della vecchiaia di Dauno, restituiscimi ai miei vivo

oppure rendi loro il mio corpo esanime, come più ti piacerà.

Hai vinto, gli Ausoni hanno visto Turno sconfitto

tenderti le mani: già Lavinia è tua, non andare oltre

nella vendetta!”. Enea, fiero nelle sue armi, stette

pensieroso, guardando l’avversario e trattenendo il colpo.

E quasi le preghiere riuscivano a commuoverlo, già dubitava,

quando gli apparve, sulla spalla del vinto, il disgraziato

cinturone, splendente di borchie d’oro, del giovane Pallante,

che Turno aveva ucciso con un colpo mortale e di cui indossava

come trofeo la spoglia. Vista quella cintura, ricordo di un dolore

terribile, infiammato di rabbia, acceso d’ira, disse:

“Tu forse, che hai indossato le spoglie dei miei amici,

vorresti uscire vivo dalle mie mani? Pallante, solo Pallante

ti sacrifica, e vendica la sua fine con il tuo sangue scellerato”

Pianta furibondo la spada nel petto avverso.

Il corpo di Turno si distese nel freddo della morte,

la sua anima sdegnosa calò giù tra le Ombre.

 

VIRGILIO, Eneide, Libro XII, vv. 887-952

Enea sconfigge Turno

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di Daniele Bello

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