The dark line

Quest’anno ho deciso di trascorrere l’estate negli USA.

Voglio fare il tragitto lungo la strada più famosa al mondo, quella che ha fatto la storia, che inventato il mito dell’America, 3755 chilometri da Chicago a Santa Monica in California attraverso 8 stati, io voglio andare a Los Angeles.

Una esperienza da fare,almeno una volta nella vita, per chi ama le moto così come le amo io. Correre con i capelli al vento nelle strade ampie e assolate, vivere l’avventura, sentirsi liberi nella natura.

Sono sei ore che sono sulla sella della mia Harley nera. Un percorso iniziato questa mattina, quando ancora il sole dormiva dietro le dune. La mia testa scoppia dentro il casco, il cervello bolle, le ginocchia sono indurite, ma nonostante tutto non mi fermo; la meta è lontana.

Prima che scendano le ombre troverò un posto dove fermarmi. Lo stomaco reclama per il troppo tempo che è rimasto vuoto, la mia scorta di Jack Daniel’s è finita, la lunga linea nera spacca in due la sabbia del deserto, una ferita attraverso il nulla per andare nella città degli angeli.

Sto attraversando un tratto roccioso, alla mia sinistra un’intera parete di calcare da sollievo agli occhi dando ombra sulla strada, ne approfitto per rallentare e togliermi per un attimo il casco, il caldo accumulato all’interno evapora, mi lascia solo i capelli bagnati, mi fermo!

Spengo il motore e metto la moto all’ombra di due massi, poco lontano un paio d’enormi cactus se ne stanno immobili come sentinelle in attesa di ordini.

Mi ricordo bene le nozioni ricevute da mio nonno, estraggo il mio coltello e senza togliermi i guanti mi dirigo verso le piante. Taglio un paio di fette, e con poca difficoltà riesco a riempire la fiaschetta vuota del whisky con un liquido denso.

Ne bevo qualche sorsata, è dolce e caldo, ma mi fa bene, lenisce per un attimo la gola e tutta la sabbia che ho inghiottito. Finisco di riempire la fiaschetta e succhio quanto resta della linfa.

Rimonto in sella e riparto, seguendo la mappa, fra non molto è prevista una stazione, forse l’ultima, prima di affrontare lo strappo finale. Dopo due ore di marcia, quando il sole già sta andando a farsi fottere dietro l’orizzonte, vedo l’insegna mossa dal vento, una casupola di legno spersa nelle dune di sabbia.

Una sola entrata e due finestre, fuori le pompe di benzina, al lato una staccionata, un cavallo e un asino si tengono compagnia nel recinto frugando negli angoli resti di fieno secco accumulato dal vento.

Metto in sicurezza la moto ed entro. Il tanfo mi colpisce come un cazzotto, quasi un ostacolo vero. Per proseguire devo farmi forza, lì dentro l’aria probabilmente non entra chissà da quanto tempo. Un ventilatore al soffitto agita le sue lunghe pale, senza convinzione, smuove appena l’atmosfera densa di odori, di grasso, di sudore.

Un esemplare brufoloso di femmina si avvicina e mi apostrofa con voce nasale, masticando una cicca; un dente di metallo, le brilla al lato sinistro. I capelli sono talmente unti di grasso, di fumo, che la matita che porta sull’orecchio sembra sia calamitata; si mantiene da sola.

Ordino il piatto del giorno. Inutile fare domande o richieste, alla fine ti serviranno sempre e solo quello, una birra gelata! Alla richiesta mi guarda come potrebbe guardare un alieno. La parola ghiacciata non rientra nel menu, se ne va lasciandomi in compagnia di una scia di pessimi odori.

La clientela è poca e variopinta, due grassoni, intenti a sorbirsi due bottiglie di birra con l’aria stanca, un vecchietto in tuta cerca di masticare un pezzo della bistecca che ha nel piatto, ma dubito che ci riesca conciato com’è senza denti.

Il padrone dietro il banco, corpulento e in canottiera, suda e fa sudare solo a guardarlo. Prova a pulire dei bicchieri con degli stracci che, un tempo, forse erano bianchi e puliti.

Poco dopo arriva la cameriera portando un piatto che mi scodella sul tavolo con aria annoiata. Uno strano intruglio rossastro con dei pezzi che in teoria dovrebbero essere carne, lo stomaco si rifiuta di far entrare quella roba dentro di se, ma io lo costringo, è necessario riempirlo.

La stanchezza è tanta e la meta lontana, non ci sarà altra occasione di fare un pasto fino alla fine, l’intruglio oltre ad essere grasso puro è anche piccante brucia le budella nemmeno la birra tiepida riesce a placare quel bruciore.

Penso sia necessario qualcosa di ancora più forte, per curiosità ordino del Mezcal, stranamente lo hanno, ne prendo una bottiglia intera e mi ci attacco, un sorso e un boccone, così riesco a mandar giù tutto il piatto.

In fondo alla bottiglia vedo il verme che attende di essere masticato, non credo di riuscire a farlo, lascio la bottiglia sul tavolo con il suo ospite.

Da lontano la femmina con i brufoli mi squadra con occhio attento, scommetto che d’avventori come me ne ha visti pochi; lo sguardo si perde dietro fantasticherie che la sua mente sta elaborando. Vorrei avere il mio fido Jack Daniel’s, ma so che è inutile chiederlo; non ne hanno in questo buco in culo al mondo, dovrò accontentarmi di una bottiglia di tequila.

Il Mezcal si fa sentire, comincio a sudare, mi manca l’aria, è ora di andare, la sera è scesa improvvisa, ma non me la sento di chiedere una camera per la notte, ho quasi la certezza che finirei divorato dalle pulci e dalle cimici prima del mattino.

Pago il conto e con con passo lento e misurato, mi allontano. Non mi volto ma sento dietro di me, lo sguardo lascivo della donna che mi segue, riesco persino a sentire il suo flebile sospiro quando esco dalla porta.

Al vecchio meticcio di servizio alle pompe, segnalo di fare il pieno. Annuisce sorridendo con una bocca resa nera per il tabacco masticato, l’unico dente rimasto spicca al centro dell’antro scuro e fetido. Pago, ma non lascio mancia, voglio andar via subito.

Mi allontano il più possibile da quell’infernale baracca e, al primo accumulo di sassi, mi fermo, tiro fuori il sacco a pelo e mi preparo per la notte. Accendo un fuoco per tenere lontano eventuali silenziosi visitatori notturni.

Dalle alture, o da chissà dove, giungono affievoliti, ululati di coyote. Nel deserto la notte è molto fredda, il sacco a pelo mi protegge e dormo come un neonato nella culla.

Il primo raggio di sole brilla sul motore della moto, mi ferisce gli occhi, spengo il fuoco coprendolo di sabbia, un sorso dalla fiaschetta per togliere dalla gola il sapore rancido del chili e una sorsata di tequila per svegliarmi del tutto.

Riparto seguendo sempre la striscia d’asfalto nero.

Quell’estenuante dark line si snoda senza fine all’orizzonte, niente impedisce la vista, né costruzioni, né ostacoli, solo la sua lunghezza è tale da non vederne mai la fine.

Le gomme della moto gemono sulla superficie rovente della strada, ad ogni metro ci lasciano parte di se stesse, spero solo di arrivare in tempo, prima del definitivo consumo.

Altre quattro ore di marcia, ho la gola arsa e la tequila non aiuta a togliere la sete, il succo di cactus è finito da un pezzo, sono solo, non ho incrociato nessuno, nessun pazzo come me che in piena estate, sotto l’astro infuocato, sta percorrendo l’Historic Route 66.

Un altro giorno sta per terminare, il sole è basso all’orizzonte. Le ombre sono lunghe, la mia e quella della mia moto somigliano ad un enorme scorpione nero con le chele aperte pronto a colpire.

Mi aspetta un’altra notte all’aperto, mi ci sto preparando mentalmente, quando nella penombra di un oscuro orizzonte un bagliore illumina il cielo, supero un duna e d’improvviso davanti a me in fondo alla valle un caleidoscopio di luci colorate, una enorme piovra con tante braccia colorate si presenta ai miei occhi.

Eccola, la città degli angeli, la città insonne che non dorme mai, dove la vita sembra non abbia mai termine, il mio viaggio invece finisce là fra le sue braccia, se accelero forse questa sera, riuscirò a dormire in un letto vero dopo aver fatto un bagno e cenato.

Dopo quindici ore di viaggio ne ho bisogno davvero, puzzo come una capra sudata. Ho le ossa del corpo, accartocciate, i miei movimenti sono lenti e dolorosi.

Il portiere dell’albergo mi guarda inorridito, mi allunga le chiavi con un gesto di ripulsa, abbozzando un mezzo sorriso, fosse per lui mi avrebbe cacciato a calci, tipi come me non sono graditi negli alberghi, rovinano la reputazione.

Faccio in tempo ad entrare in camera togliermi gli stivali e i guanti, nel togliermi il giubbotto casco sul letto e mi addormento. Sono arrivato a Los Angeles. Due giorni di tempo poi un aereo mi riporterà a casa.

di Lorenzo Barbieri

Settembre 17, 2017

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