Tra sguardi e incanto

La notte di San Lorenzo di due anni fa era davvero incantata, il cielo era limpido e vi si potevano scorgere con chiarezza le scie luminose portatrici di sogni e speranze. La spiaggia era gremita di gente, popolata per lo più da dolci innamorati che, abbracciati teneramente, si sorreggevano l’un con l’altro mentre avevano il naso rivolto all’insù. Il mare era calmo, cristallino e nitido, tanto che la volta celeste vi si poteva rispecchiare interamente.

Fu durante quella nottata, fra sparsi e magici falò e amanti colmi di vane aspettative, che i loro occhi s’incrociarono e il pensiero dell’uno non abbandonò più l’altro.

Dopo quell’episodio Sveva non cessò più di rimembrare quel penetrante sguardo, che come un fulmine le trafisse il cuore, rimproverandosi continuamente di non aver trovato il modo di parlargli.

La vita scorse inesorabilmente, tra il lavoro e gli impegni che ci legano alla noiosa e rassicurante quotidianità. Ma cos’era il loro se non un richiamo spirituale? Nulla accade per caso e ad agire è prima di tutto il fato maledetto.

Era un pomeriggio soleggiato, quasi afoso, di mezza estate quando Sveva, recandosi in ufficio, decise di percorrere la strada più lunga, proprio quella in riva al fiume, per sgombrare la mente e ritrovare la calma dopo una lite furente con una vicina di casa. Quest’ultima, infatti, non tollerava proprio per niente il continuo gagnolare del suo cane, un tenero volpino bianco di nome Molly.

Il sole picchiava forte, il caldo era davvero insopportabile, lo era così tanto da costringerla a legare i suoi lunghissimi capelli dorati. La rabbia la pervadeva interamente, non riusciva a placarsi in nessun modo, neppur il canto delle cicale, che le era tanto caro, riuscì a tranquillizzarla, senonché ad un tratto sentì una presenza strana alle sue spalle, che inspiegabilmente la richiamava a sé.

I suoi occhi attirarono quelli di lei, il cui legame fu talmente intenso da rassomigliare a quello fra il cielo e la terra. Fu uno sguardo reciproco ed inaspettato, ancora più carico di incanto del primo, e ad un tratto non vi fu più né caldo né rabbia… ma solo amore.

Sveva rimase come pietrificata da questo ulteriore incontro, la sua testa si riempì di mille interrogativi sul da farsi, tanto che l’ansietà dell’azione la spinse fra le braccia dell’insopportabile compagna di sventure Amechania[1]. Imbambolata ed intontita da tale turbine di sentimenti che la dilaceravano dentro, tornò bruscamente alla realtà quando un pallone da calcio la colpì sul capo, in maniera talmente forte da farla cascare per terra.

«Tutto bene?» le sussurrò teneramente una voce calda e soave, mentre le tendeva la mano. Scossa più dallo scorrere degli eventi che dalla botta nella testa, Sveva si limitò semplicemente ad annuire.

«Non mi pare, piuttosto sembra che ti stia spuntando un bel bernoccolo… ti accompagno al bar! Lì chiederemo a qualcuno qualcosa di ghiacciato da metterti sulla testa» replicò dolcemente l’uomo.

«Ti ringrazio, ma non occorre. Sto bene… non è successo nulla di ché… e poi devo andare a lavoro e già sono in ritardo» gli disse in maniera confusa e impacciata, ma lui le rispose con insistenza «almeno lascia che ti dia un passaggio». Ma Sveva declinò pure quest’invito.

«Ok mi arrendo. Mi piacerebbe comunque sapere se e quando il tuo bernoccolo si sgonfierà, perciò ti lascio il mio biglietto da visita, li trovi i miei recapiti. Se ti va chiamami e magari ci si vede per un caffè». Così l’uomo si allontanò, fino a scomparire oltre le siepi del giardinetto vicino al fiume.

Sveva, confusa e contenta, si diresse in ufficio, dove passò tutto il pomeriggio a fissare quel bigliettino da visita, nel quale c’era scritto che, quell’uomo che aveva preso ad amare dal primo contatto visivo, si chiamava Federico ed era, per giunta, un rinomato cardiologo.

Sveva si chiese continuamente nell’arco di quelle settimane se fosse il caso di chiamarlo oppure no, infondo lei era solamente una semplice segretaria, mentre lui era un medico, un cardiologo! Che argomenti avrebbero potuto avere mai in comune, cose poteva dargli in più che un’altra donna, magari una dottoressa come lui, non poteva dargli?

Lei si sentiva come inferiore a lui, come se, nei suoi sguardi e nel suo approccio così sicuro e rassicurante, Federico le avesse trasmesso la sua sovrastante superiorità, insieme alla consapevolezza che le sorti della loro conoscenza dipendessero più da lui che da lei. Nonostante il profondo sentimento che subitamente e istantaneamente la scosse dentro, avvertì come un cattivo presagio dietro quei magici eventi, come se il sogno potesse trasmutarsi tutto ad un tratto in un terribile incubo.

Convinta da tale presentimento, straziata dal dubbio martellante che quel bigliettino da visita le provocava, catapultandola nuovamente nell’inevitabile conflitto fra ragione e sentimento che da settimane ormai le dava il tormento, si decise a non chiamarlo.

Un giorno d’inverno, mesi dopo quell’ultimo e fugace incontro, Sveva si ritrovò nuovamente a passeggiare lungo le rive dello stesso fiume. Era una giornata cupa, uggiosa e piuttosto fredda, tanto che ella sentì il bisogno di riscaldarsi con una cioccolata calda. Così entrò dentro un caratteristico bar della zona per saziare le sue voglie, si sedette in tavolino vicino ad una finestra abbastanza ampia da permetterle l’intera vista del parco vicino al fiume.

Mentre sorseggiava distrattamente la sua bevanda, persa nei pensieri e dalla visuale che aveva innanzi, venne catturata all’attenzione da una voce femminile tremante e sofferente, che proveniva dal tavolino alle sue spalle.

«Ora più che mai si fa pressante in me la necessità di mutare le mie sorti… troppo tempo sprecato in nulla e mi ritrovo a quarant’anni senza sogni né speranze, incapace di fare qualsiasi cosa», tali parole destarono la sua curiosità e si mise ad origliare con più accuratezza.

«Ma cosa stai dicendo? Sei stupida o cosa? Smettila di fare la bambina! Tu non capisci nulla, ti ho detto che devi fidarti di me… ti ho detto di fare come ti dico io. Cavoli tuoi se poi agisci come meglio credi!» una voce maschile replicava in maniera dura e decisa. Quel suono le parse familiare, come se già l’avesse udito in un’altra occasione… ma non riusciva a ricordare dove e quando.

«Ami farmi stare male e sconvolgi le mie giornate, anche nell’assenza… e mi sento stupida, mi odio perché non riesco a cancellarti, perché sei l’unica persona per la quale ancora verso lacrime», asciugandosi con un fazzolettino di seta gli occhi riversi di pianto, la donna sofferente continuò il suo dolente monologo:

«Tu non puoi essere il volto dell’Amore, amore non può significare questo! Mi hai rovinato la vita, da quando ho iniziato ad amarti la mia vita è peggiorata! Mi sento svuotata ed annichilita, privata dei miei sogni e delle mie speranze. Inutile! Ma quanto male si può fare ad una persona? Quanto male mi stai facendo? Io non ne posso più. Devo essere forte, il destino mi sta chiedendo, quasi implorando, di esserlo! E dovrò farlo, nel bene e nel male mi libererò di te».

Sveva provò una profonda compassione per quella sconosciuta donna, come se, infondo, fra di loro vi fosse un legame, un qualcosa che giustificasse tale morboso interesse per le sue sorti. Seppur non sapesse chi fosse e quale fosse la ragione del suo rancore, Sveva sentiva di poterla comprendere e di volerla aiutare.

«Ti ho detto che la lascerò, io ti amo… Eleonora… io ti amo… guardami… guardami negli occhi, li vedi i miei occhi? Come posso mentirti?!» le disse l’uomo con fare insistente e pressante.

«Smettila! Mi hai già distrutta abbastanza ed ora non ti permetterò di concludere la tua opera! Sarò più forte di te e di quello che provo ed in qualche modo sarò libera da te… questa libertà mi darà la forza per andare avanti» gli rispose la donna in maniera decisa seppur angosciata dalla situazione.

«Fino a qualche giorno fa non la pensavi così? Dovevo essere io a scacciarti dal mio letto, sennò non ti schiodavi manco per niente da lì… mi stavi così tanto addosso da renderti fastidiosa… e ora niente di meno vuoi liberarti di me? Di me che sono il tuo tutto? Smettila stupida e ringraziami per il fatto che ti amo… e quando ti dico che la lascerò significa che lo farò… sii paziente e aspetta che un altro come me non lo trovi» ribatté l’uomo in modo sprezzante.

«Stronzo! In cuor mio mi auguro che un po’ di malessere te lo abbia procurato anche io… che alcuni miei gesti ed alcune mie parole ti abbiano fatto sentire svuotato… ma la vera vendetta sarà il riscatto: se mi libererò di te e del tuo pensiero avrò vinto. E vincerò!» proferite queste ultime parole la donna si alzò di scatto e con passo felino si dirisse verso la porta del locale, sbattendola alle sue spalle.

Sveva rimase sconvolta dall’accaduto, mossa dalla curiosità, con discrezione si volse all’indietro per scorgere il volto dell’uomo che aveva turbato nel cuore e nell’animo quella donna. Ma dietro di lei non vi era più nessuno, senonché vide un uomo dalle spalle larghe dirigersi verso il bancone del bar, andando incontro ad una prestante e formosa cameriera… e fu così che lo riconobbe!

Era colui che l’aveva scossa dall’interno, colui che con un solo sguardo le aveva rapito il cuore. La stessa persona che, con la stessa dinamica, aveva tratto a sé quella donna, incatenandola per anni nell’aspettativa di un domani migliore che non sarebbe mai arrivato, dilaniandola così ferocemente.

Adesso era lo stesso incantatore di serpenti che si stava apprestando a fare la stessa cosa, con la medesima dinamica, con la giovane cameriera innanzi a sé. Allora Sveva capì il senso di quell’oscuro presagio, che la convinse a non chiamarlo e a non cercarlo più, nonostante il forte sentimento che quegli incontri avevano suscitato in lei. Infatti, certi uomini, proprio come Narciso, crudelmente disdegnano tutte le persone che li amano, quegli sguardi languidi, che tanto incantano le donne che ne sono vittime, per loro non rappresentano altro che lo specchio attraverso cui ammirare il proprio riflesso, poiché l’unica persona della quale s’innamorano veramente non è che la loro stessa immagine.

Federico, dunque, era come Narciso, con la differenza che, se quest’ultimo morì nel fiume nel quale si specchiava per eccessivo amore verso il proprio riflesso, egli per amor di sé pretendeva che morissero gli occhi attraverso cui riusciva ad ammirarsi, affinché ne potesse trovare di altri mediante cui rispecchiarsi e rimarsi con maggior veemenza.

[1] Con il termine Amechania ci si riferisce allo spirito greco dell’impotenza e della mancanza di risorse

di Marianna Visconti

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