IL FIUME E IL DESERTO – Parte venticinquesima: Testa nel buio

Luglio. Anno del Signore 1530.

Solimano passò in rassegna le truppe e per un attimo paragonò l’enorme armata ottomana raccolta da ogni parte dell’impero a quelle persiane dei tempi di Dario e Serse. Dall’altra parte del Bosforo la Grecia attendeva di essere conquistata e Costantinopoli di essere ripresa.

Una parte dentro sé si rammaricò di stare provocando una guerra anche alla vecchia alleata. Ricordò di aver provato rispetto per il Doge e in un certo senso non aveva creduto nel voltafaccia italiano e degli attentati alla sua vita.

Ma ogni volta che cercava di dare logica alla rivolta dell’Egitto e che dietro a essa ci fosse la longa manus italiana, era come se qualcosa lo bloccasse, come se Allah gli suggerisse che non doveva avere dubbi che il Doge era impazzito e che era suo dovere attaccare Grecia, Italia e riprendere l’Egitto dall’usurpatrice.

Era come avere la testa nel buio; ogni volta che cercava una risposta presso Dio due occhi neri apparivano, come se l’Altissimo lo stesse osservando dal cielo. Due occhi neri di donna che sembravano soggiogarlo alla sua volontà promettendogli una vittorie nella guerra santa oppure una morte da martire e settantadue vergini in Paradiso.

Dal grande stratega quale era, Solimano sapeva che nonostante la potenza delle sue armate, il nemico avrebbe risposto con attacchi aerei e ai greci si sarebbero uniti italiani, francesi e americani. Le macchine della Serenissima Repubblica avevano conquistato l’Egitto in poco tempo, mettendo in fuga giannizzeri e mamelucchi.

La logica gli urlava nella testa che la sua grande armata avrebbe subito la stessa sorte. Ma quegli occhi lo soggiogavano e una voce gli mormorava che quand’anche fosse stato sconfitto, avrebbe mandato al Dio degli infedeli tanti caduti avversari. E non solo soldati, ma anche civili, che i pirati Barbarossa e Dragut avrebbero massacrato senza pietà dopo essere sbarcati in Italia. Se fosse stato se stesso sarebbe stato in preda a un dilemma senza pari. Ma lui non era se stesso. Non lo era più.

Venne svegliato dal torpore da una delle guardie che annunciò l’arrivo di un ambasciatore francese.

Ordinò di farlo entrare. Se Francesco I osava dargli un ultimatum in nome del Doge, l’avrebbe fatto scuoiare. Lo sorprese che chi accompagnava l’uomo dal naso pronunciato avesse le fattezze turche.

Il connazionale si presentò come Mehmet e disse che era l’interprete per un’ambasciata che avrebbe potuto far rivoltare le sorti della guerra. Il francese si inchinò secondo le norme prima di parlare. Mehmet tradusse.

«Sua Maestà Francesco I Re di Francia e Imperatore del Sacro Romano Impero porge i saluti alla Sublime Porta e offre la propria alleanza contro l’Italia e il folle Doge che sta scatenando una guerra che danneggerebbe anche gli interessi di ben due nazioni.»

                                                                               ***

Kemal era convinto di avere preso la decisione giusta alleandosi con le sacerdotesse custodi del Palladio. Non aveva osato parlarne ai suoi soldati, che l’avrebbero giudicato blasfemo. E per giorni aveva fatto un doppio gioco, generale e cospiratore, da ambo le rive del Bosforo, da ciascuna parte del fronte. Ma non si sentiva un traditore, bensì un combattente per salvare la sua patria e il Sultano da una sconfitta.

Anche le pretesse pagane avevano una doppia attività. Oltre a quella di custodire la reliquia erano anche agenti e messaggere della Repubblica Bizantina in contatto con consorelle al servizio di quella italiana. Ora che sapeva la verità non aveva avuto più dubbi nel giocare d’azzardo.

Era notte e lui e la pretessa che giorni prima l’aveva battuto con le arti marziali cinesi attendevano nella chiesetta.

Era passata un’ora da quando il ronzio dell’aeronave aveva rotto il silenzio di Costantinopoli e sapeva, entro poco altre persone si sarebbero uniti a lui, la donna in peplo e il Palladio. Considerò la reliquia come se fosse stata una persona vivente.

In realtà la statuetta era un’arma segreta, l’arma che avrebbe dato una vittoria senza sconfitti. Sentì passi avvicinarsi e bussare alla porta. La sacerdotessa aprì inchinandosi davanti all’uomo che nonostante il vestito modesto sembrava emanare regalità. Dietro a lui, una scorta di soldati francesi attendeva.

Camminarono per le strade di Costantinopoli. Le ronde greche li lasciarono passare ogni volta che incontravano i loro alleati. La barca attendeva sul molo. I greci erano stati informati di una missione di disturbo dall’altra parte del Bosforo. Nessuno fece domande quando gli armati caricarono una cassa a bordo. Nessuno si domandò chi fossero le tre persone in borghese. La barca si allontanò, inghiottita dal buio, verso l’Asia a meno di un miglio.

                                                                        ***

Solimano non credette ai propri occhi quando vide il volto di Francesco I sotto il cappuccio e la cappa da plebeo, affiancato dal suo fido generale Kemal, anch’egli travestito. I soldati di Francia entrarono nella grande tenda, piazzandosi dirimpetto ai giannizzeri sull’attenti alle spalle del Sultano.

Ciascun sovrano sembrava ostentare la propria potenza. I francesi vestivano armature luccicanti. Quattro di loro fecero la loro entrata portando una cassa. Il Re disse qualcosa che Mehmet, l’interprete, tradusse come ”regalo”.

Solimano notò che uno dei soldati, un veterano dalla barba bianca, non era addobbato come gli altri. La corazza al suo petto sembrava più antica, l’elmo che aveva in testa ricordava quello di un guerriero vichingo, come lo scudo. Il pugnale che portava alla cintura era di forgia orientale.

Francesco I fece un segno, e una figura si tolse la cappa e il cappuccio mostrandosi nelle sembianze di una donna col volto coperto da un velo e una statua di legno in mano. Il re ripeté la stessa parola, che suonava come ”cadò” o qualcosa del genere che il Sultano ormai sapeva significare ”regalo”.

Solimano apprezzò i doni, anche se quello più grande era l’alleanza che entro poco sarebbe stata sigillata, oltre all’abbozzo del piano orchestrato dal Re Imperatore che aveva proposto al suo fido generale Kemal Pascià, durante i contatti. L’inganno di farsi credere ancora alleato del Doge.

L’offerta di far caricare truppe francesi e imperiali a bordo delle flotte volanti della Repubblica e l’ammutinamento, la cattura delle aeronavi che sarebbero state consegnate alla Sublime Porta. Un’Italia incapace di volare. Il Leone di San Marco senza ali, in balìa delle flotte di Barbarossa e Dragut, invasa dai lanzichenecchi a nord, dei francesi a ovest e dai turchi a est.

Solimano guardò Kemal e si disse che anche quell’uomo era un regalo. L’avrebbe premiato donandogli il governatorato della Grecia conquistata. Ciononostante, un’amarezza sembrava voler emergere dal profondo della sua personalità. Ma lo sguardo severo di due occhi neri nella sua mente lo rimproverarono per quella piccola debolezza riportandolo alla disciplina.

Fu allora che accadde lo strano fenomeno che lui interpretò come un segno divino. Lo stesso doveva essere accaduto al Profeta quando, sulla montagna, aveva avuto la divinazione. Come se qualche angelo stesse spezzando delle catene spirituali delle quali solo allora lui si fosse accorto. Quegli occhi appartenevano a qualcosa che fino ad allora l’aveva soggiogato, ma il cui potere sembrava ora venir sempre meno, grazie a quello strano fluido.

Fissò l’elmo, lo scudo, la corazza, il pugnale e infine la statua di legno in mano alla schiava velata. Non si era mai ubriacato in vita sua, ma una volta aveva provato l’hashish. La sensazione di trovarsi tra la terra e il cielo era quasi la stessa. Un salto tra benessere e malessere, voglia di libertà alternata a volontaria sottomissione. Strane luci, che lui sapeva essere visibili soltanto a lui, emanarono dall’elmo, lo scudo, la corazza, il pugnale e la statua.

Fu allora che Francesco I aprì la cassa. La figura di una donna si alzò, come una morta in procinto di risorgere. Gli occhi erano chiusi, come se stesse dormendo. All’inizio ricordò vagamente quel volto, ma non appena le palpebre si aprirono mostrando un paio di occhi neri, capì tutto. Le perle color ebano lo fissarono.

Solimano sentì come un fluido penetrargli nella mente attraverso i propri occhi. Visualizzò immaginarie catene spezzarsi d’un colpo, e una specie di estasi invadergli lo spirito. Solo allora capì di essere stato veramente schiavo della forza di quella donna che ora, sotto l’influsso dei talismani gli ridava la libertà di decidere, dopo tanto tempo.

                                                                        ***

Fatima richiuse gli occhi e tornò a sdraiarsi nel suo giaciglio nella cassa. L’effetto del sonnifero sarebbe continuato fino al giorno dopo. Fioravante osservò l’espressione di Solimano e comprese che finalmente il Sultano era libero dalla schiavitù mentale della regina d’Egitto.

Da quel momento non era più nemico. Ma non sarebbe stato lui, umile druido spiegare il malinteso e il complotto mondiale. In compito spettava a Francesco I. Il Re cominciò a parlare e Mehmet tradusse ogni parola.

Alla fine del dialogo, Capitan Santus, il Condottiero Tagliaferri, L’agente Musico, e Sole Tiepido, che indossavano le uniformi francesi, presero la cassa e si prepararono ad uscire dalla tenda. La calda notte orientale avrebbe mantenuto il segreto di quell’incontro.

CONTINUA…

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di Paolo Ninzatti

Racconto breve ambientato nell’universo del romanzo “Le ali del serpente” dello stesso autore.

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