Marea

Voglio condividere qui un mio racconto breve dal titolo Marea, incluso nella raccolta di racconti (ancora inedita) con cui mi sono classificato tra i finalisti del premio Mario dell’Arco 2016. Nella sua versione originale, più spartana, questo racconto venne scelto nell’ormai lontano 2008 dallo scrittore Gordiano Lupi per essere inserito sulla rivista web Tellus Folio – Nuovi Narratori Italiani.

Marea nacque nell’ancor più lontano (ahime!) agosto 2005 direttamente da un sogno. I sogni sono una fonte di ispirazione molto comune per gli scrittori (specie in giovane età, e specie quelli che si cimentano con il fantastico).
Sebbene abbia cessato di rifarmi ai sogni per i miei testi da diverso tempo, questi primi lavori, che mi oggi mi sembrano (com’è giusto che sia) un po’ naif e grossolani, racchiudono uno spirito e un’emozione che raramente avverto nei testi successivi. Qui c’è davvero tutto ciò per cui, nel 2005, respiravo e vivevo quotidianamente, spontaneo e autentico: nulla di calcolato o previsto in alcun modo.

Di recente, ho rivisto il racconto rendendo più forte il messaggio di cui volevo fosse portatore (attenzione: spoiler!): ovvero che la paura, rappresentata qui come una grande onda, sia un fattore essenziale che ci permette di varcare nuove frontiere e tagliare traguardi altrimenti irraggiungibili.
Nella prima versione questo messaggio non emergeva: eppure, nel sogno la paura era di certo presente. Quando ho riletto il racconto il suo significato era questo, chiaro e lampante. Ho ripreso a scolpire perché venisse alla luce.

M.B.

Marea

Il respiro del mare e nessun altro suono, mai. Il perenne scroscio delle acque, ora calme, ora agitate, e nulla altro, in nessuna direzione.

Dal parapetto il bambino non vedeva che oceano, dovunque. In quel momento, il sole stava immergendosi in quello che doveva essere l’occidente. Il giardino, il palazzo e le mura che li racchiudevano erano inondati di luce ambrata. L’unica isola in mezzo all’oceano, quattro mura di cinta e un basamento levati sopra l’acqua.
L’unico palazzo, con i suoi selciati e colonnati sui quali soffiava la brezza perenne. Il bambino la chiamava la Cattedrale, ma non vi era mai entrato, limitandosi a sedere sotto il porticato frontale. La verità era che non aveva mai trovato una porta che conducesse all’interno.

Il bambino corse lungo le mura occidentali, seguito dall’animale dal corpo di piccione e la testa di cane. L’oceano sospirava forte, nonostante le acque non fossero in tempesta. Il bambino si chiese come mai. Salì la scala e giunse sul punto più alto del parapetto.
Una volta lì, osservò ciò che lo circondava. Si era spesso domandato di cosa fossero fatte quelle mura e la Cattedrale stessa: certi giorni pensava che fosse legno, altri giorni sospettava che fosse pietra. Era quindi arrivato a convincersi che si trattasse di una magica mescolanza di entrambi.
Non lo aveva ancora chiesto all’uccello-cane, perché non credeva potesse saperne più di lui sulla Cattedrale. L’uccello-cane lo seguiva costantemente, ovunque lui andasse, e al contempo lui seguiva sempre l’animale.

In quegli istanti, l’uccello-cane arrivò, lanciò un’occhiata affettuosa al bambino e sporse la testa verso il mare, le lunghe orecchie a penzoloni. I loro lineamenti erano incendiati dalla luce rossa del crepuscolo. Decine di metri più in basso, le acque si agitavano sempre più e il loro scroscio si era fatto incessante.

– Il rumore della risacca – disse il bambino. – L’oceano parla. Sta male, forse?

L’uccello-cane non rispose. Continuava a volgere la testa qua e là, in osservazione.

– È il sole che si spegne? Non ha mai fatto così, prima – disse il bambino.

Lo scroscio si tramutò in un boato grave e costante. Poi videro l’acqua che iniziava a scorrere in senso inverso: sembrava tornare indietro, risucchiata dal sole. Il bambino guardò esterrefatto l’uccello-cane, in attesa di una risposta.

– La marea si alza – disse questi. La voce profonda e atona della creatura strideva con il suo corpo gracile e sgraziato.

Il bambino tornò a guardare sotto di sé. L’oceano si ritirava, metro dopo metro emergevano gli enormi pali che sostenevano l’immensa palafitta della Cattedrale. Erano fetidi di alghe e logorati dalle incrostazioni, eppure da tempo immemore resistevano ai poderosi schiaffi delle correnti. Il bambino sospirò di stupore.
Il pelo dell’acqua era ormai lontanissimo sotto di lui, il mare era un fiume denso e scuro che si ritirava. Poi il bambino alzò gli occhi, incuriosito di scoprire dove stesse andando a finire tutta quell’acqua. E vide sorgere un muro. Laggiù, nel punto in cui ogni giorno vedeva la linea che separava oceano e cielo, l’orizzonte stava salendo sempre più su.
Il disco rosso del sole divenne un alone cristallino e tiepido, filtrato dal muro che si frapponeva. Il bambino fissò estasiato e realizzò: stava guardando l’onda più gigantesca che avesse mai visto.

– La marea… – bisbigliò incantato.

L’uccello dalla testa di cane si volse verso di lui, gli occhi grandi e bruni.

– È molto di più. Sta arrivando la paura.

Un forte vento soffiò all’improvviso. Il bambino e la creatura si accovacciarono dietro al parapetto per ripararsi. L’intera struttura cominciò a tremare. Udirono lo scricchiolare dei pali sotto di loro. La Cattedrale oscillava insieme a tutto il resto senza dar segni di cedimento.
L’uccello-cane continuava a fissare il bambino, riflettendo le sue reazioni e in attesa di una sua azione, per esempio una fuga, da poter imitare. Il muro d’acqua era così vicino da oscurare metà del cielo, ma il bambino non poteva alzarsi oltre il parapetto o il vento lo avrebbe spazzato via.

Scese dalle mura e, una volta nel cortile, attraversò di corsa il giardino diretto verso il palazzo, per rifugiarsi sotto alle sue colonne. L’uccello-cane gli fu subito accanto, accovacciandosi ai suoi piedi.

– Non crollerà – gli disse il bambino, come sentendosi in dovere di proteggerlo.

Alzò lo sguardo giusto in tempo per vedere l’onda sopra di sé. L’acqua non era più azzurra, ma di un colore torbido e indefinito. La cresta era invisibile, altissima, forse tra le stelle. Poi li travolse e li oltrepassò, lavando mura, cortile, Cattedrale e ogni cosa.
Dietro la colonna, il bambino fu sommerso per alcuni istanti, e vide il porticato e il giardino attraverso una lente grigia e deformante. Subito dopo si ritrovò seduto a terra a sputare acqua, fradicio. Si alzò, scoprendosi pesante. Avvertì subito la differenza nel movimento che percepiva sotto di sé, nella struttura, e anche intorno a sé, nell’aria.

– Ci stiamo muovendo! Galleggiamo! – disse.

Scattò di corsa verso le mura. L’uccello-cane si scrollò via l’acqua dal pelo e lo inseguì. Raggiunto il parapetto, il bambino rise di autentica gioia. La Cattedrale era stata trascinata dall’onda e ora navigava secondo il docile moto dell’oceano.
Il bambino e la creatura rimasero ad ammirare il loro muoversi, finché sul mare non apparve il profilo di una scogliera. Era talmente vasta che il bambino non poteva distinguerne la fine né a destra né a sinistra, proprio come era stato per l’onda. La indicò all’uccello dalla testa di cane.

– La terra? – chiese il bambino. – O è qui che finisce l’oceano?

L’uccello-cane, questa volta, sembrò avere una risposta certa.

– È il regalo che ci ha fatto l’onda. Sradicandoci da quei vecchi pali, ci ha portato dove altrimenti non saremmo mai giunti. È servita solo un po’ di paura perché ciò accadesse.

Il bambino gli sorrise. Quindi si sedette sul parapetto, le gambe a penzoloni, e si lasciò asciugare dal vento asciutto portato dalla terra.

di Matt Bryar Barbieri

Lascia un commento