ERACLE le dodici fatiche (2 di 3)

ERACLE

Eroe e semidio

Le dodici fatiche di Eracle (“Erga”)

Eracle contro Anteo

Eracle contro Anteo

La fama di Eracle è nota ai posteri principalmente per le celebri Dodici Fatiche. Secondo una prima versione del mito, egli – giunto in età adulta – dovette prestare omaggio al re Euristeo a causa del suo diritto di primogenitura;

quest’ultimo, ispirato dalla dea Hera, gli avrebbe imposto ogni anno delle imprese impossibili per cercare di sbarazzarsene e soddisfare così la sete di vendetta della regina degli dei.

Secondo altri cantori, invece, Eracle – dopo avere sconfitto in battaglia gli abitanti di Orcomeno[1], nemici storici di Tebe – prese in sposa Megara (figlia del re tebano Creonte), da cui ebbe otto figli.

La terribile dea Hera, tuttavia, sconvolse la mente dell’eroe e questi, in preda alla follia, uccise con le sue mani la moglie e i figli[2].

Una volta tornato in sé e resosi conto dell’accaduto, Eracle aveva meditato il suicidio per porre fine alle proprie sofferenze; fu Teseo[3], il giovane erede al trono di Atene, a farlo desistere dal suo gesto disperato e a consigliargli di recarsi presso l’oracolo di Delfi.

La sacerdotessa del dio Apollo consigliò al figlio di Alcmena di mettersi al servizio del figlio di Stenelo per purificarsi.

Anche se le fonti divergono sulla causa dei servigi al re Euristeo, tutti concordano sul fatto che Eracle dovette compiere le dodici imprese impostegli dal re di Micene, che gli valsero fama imperitura e che andremo sia pur brevemente a raccontare.

[1]    Durante la guerra contro i Mini, della stirpe di Orcomeno, si dice fosse deceduto lo stesso Anfitrione, padre adottivo di Eracle.
[2]   Le vicende narrate diedero spunto ad Euripide per la tragedia “Eracle furente”. Secondo il poeta greco, tuttavia, la follia e gli efferati omicidi di Eracle ebbero luogo al termine delle dodici fatiche.
[3]     Racconti senza tempo, Vol. I, pp. 22-39.

1)         Il Leone di Nemea

La prima fatica imposta ad Eracle fu l’uccisione di un terribile leone, figlio di Tifone e di Echidna[1], che terrorizzava tutta l’Argolide.

Il leone viveva in una grotta nei pressi della piana di Nemea, che si estende sotto il monte Apesas, attraverso il quale passa la strada che conduce da Argo a Tirinto.

Si narra che Eracle si mise in viaggio e si fermò nella città di Cleone, dove venne ospitato dal re Molorco, da tempo in lutto poiché il leone aveva ucciso suo figlio; il re era intenzionato a sacrificare un ariete in onore dell’ospite ma l’Alcide chiese di aspettare ancora trenta giorni:

se, in questo lasso di tempo, Eracle fosse riuscito nell’impresa di uccidere la belva di Nemea, allora il sacrificio sarebbe stato fatto in onore di Zeus Liberatore.

Quando Eracle rintracciò la grotta dove viveva la belva mostruosa, egli bloccò uno dei varchi della tana per spingere il leone ad uscire; quindi, tentò di colpirla con il proprio arco ma la creatura era invulnerabile, per cui non venne nemmeno scalfita dalle frecce.

L’eroe sradicò allora un enorme ulivo usandolo come clava, ma anche questo tentativo fu inutile. Eracle afferrò allora il leone e riuscì a strangolarlo a mezz’aria; l’eroe tornò dal re Molorco, portando sul dorso la carcassa della belva, che venne poi condotta festosamente alla presenza di Euristeo.

Il re di Micene fu talmente spaventato dalla vista del leone (anche se ormai defunto) che in seguitò proibì ad Eracle di entrare in città con le sue prede; successivamente, egli si fece preparare e collocare sotto terra un enorme vaso di bronzo, dove nascondersi tutte le volte in cui l’Alcide giungeva in città al termine di una della sue fatiche.

[1]   Secondo un’altra versione, il leone di Nemea era figlio di Echidna e del cane Ortro.

2)        L’Idra di Lerna

Il re di Micene chiese quindi al figlio di Alcmena di sgominare un enorme drago (figlio anch’esso di Tifone e di Echidna), che infestava la palude di Lerna, presso la sorgente Amimone (in Argolide).

Questo mostro aveva sette teste a forma di serpente (o nove, secondo altre versioni del mito), di cui una immortale: divorava qualunque essere vivente gli capitasse a tiro, impestava l’aria e rendeva la terra sterile.

Eracle giunse con il proprio carro presso la tana dell’idra, accompagnato dal nipote Iolao (figlio di suo fratello Ificle); stanato il mostro con delle frecce infuocate, il figlio di Alcmena cominciò a recidere le teste del mostro con la propria spada ma ad ogni colpo dell’eroe in luogo della testa mozzata ne ricrescevano due…

L’eroe ebbe però una geniale intuizione; con l’aiuto di Iolao, egli fece bruciare i colli dell’idra prima che le teste potessero crescere; l’ultima testa (quella immortale) venne infine schiacciata sotto un gigantesco masso.

In questo modo Eracle riuscì a sconfiggere l’orrida creatura e a liberare la palude di Lerna; l’eroe intinse quindi nel sangue dell’idra le proprie frecce, che in tal modo avrebbero causato ferite inguaribili e mortali.

L'Idra di Lerna

L’Idra di Lerna

3)        La cerva di Cerinea

La terza fatica di Eracle fu la cattura di un animale sacro alla dea Artemide. Nei pressi della regione di Cerinea, in Arcadia, viveva una splendida cerva dalle corna d’oro e dagli zoccoli di bronzo (o d’argento, secondo un’altra variante del mito) che fuggiva senza mai fermarsi incantando chi la inseguiva e trascinandolo in paesi da cui non avrebbe più fatto ritorno;

narrano le leggende che in origine l’animale fosse una compagna della dea Artemide, trasformata poi in cerva per punizione avendo accettato di essere sedotta da Zeus.

Eracle non poteva assolutamente ucciderla né ferirla, poiché essa era un animale sacro, e quindi l’eroe si limitò ad inseguirla. La frenetica corsa durò circa un anno; l’eroe raggiunse quindi la cerva in un bosco sacro posto nell’angolo più settentrionale del mare Adriatico, nella penisola d’Istria, dove viveva il popolo degli Iperborei[1].

Secondo una versione del mito, Eracle catturò l’animale mentre tentava di guadare un fiume; secondo altri, non essendo riuscito a raggiungerla, l’eroe ferì leggermente l’agile cerva con un dardo, per poi caricarsela sulle spalle e condurla a Micene.

Lungo la strada del ritorno, Eracle incontrò Apollo ed Artemide, infuriati per la ferita arrecata ad un animale sacro agli dei: l’eroe riuscì tuttavia a placare le ire divine e ad ottenere il permesso di portare la cerva ad Euristeo. Quindi, l’animale venne liberato e tornò a correre libero nelle foreste.

[1]    Gli abitanti della penisola in epoca storica, i Veneti, chiama-rono questa regione Rezia.

4)        Il cinghiale d’Erimanto

La quarta impresa di Eracle fu quella di catturare un feroce cinghiale selvatico che devastava le alture di Erimanto, poste tra la regione dell’Acaia e quella dell’Elide.

L’eroe attraversò l’Arcadia e giunse quindi nella valle dell’Alfeo, dove abitavano i Centauri, esseri selvaggi abitanti dei boschi al cui corpo di cavallo a quattro zampe era attaccato un tronco umano[1].

Lungo la strada che l’avrebbe portato a Erimanto, Eracle incontrò un centauro di nome Folo, che decise di imbandire un banchetto in suo onore.

Poiché, durante il pasto, venne versato del vino, alcuni centauri raggiunsero la tana di Folo; dal momento che tali creature non reggevano l’effetto inebriante del liquido rosso, il simposio degenerò in una rissa, che costrinse Eracle a fare uso delle sue frecce avvelenate.

Nello scontro che ne seguì, morì accidentalmente lo stesso Folo e venne ferito gravemente anche il famoso Chirone, precettore dei più grandi eroi del passato[2].

Eracle proseguì quindi il suo viaggio verso il monte Erimanto, dove riuscì a far uscire il cinghiale dalla sua tana spingendolo sulle alture coperte di neve; dopo un serrato inseguimento, l’eroe riuscì a catturare l’animale legandolo con corde robuste e a portarlo vivo a Micene.

Quando Euristeo vide Eracle con il mostruoso animale selvatico sulle spalle, egli ne fu talmente spaventato che andò a rinchiudersi, per la paura, dentro il vaso di bronzo che si era fatto costruire (secondo altri racconti, il re di Micene andò a nascondersi… dentro una botte!).

Secondo una versione del mito, dopo aver compiuto questa fatica, Eracle si unì – sia pure per un breve periodo – alla impresa degli Argonauti, di cui parleremo più diffusamente nel Capitolo III.

[1]   Secondo la tradizione, i Centauri erano figli di Issione, il re dei Lapiti, e di Nefele (la Nuvola); il sovrano aveva ospitato presso la sua reggia Zeus ed Hera ed aveva concepito una morbosa passione per la regina degli dei. Zeus, allora, creò con la nebbia una immagine della moglie (Nefele); Issione la sedusse e con essa generò un essere metà uomo e metà cavallo. Per tale oltraggio (Issione era pur sempre convinto di avere sedotto Hera), Zeus scagliò il re dei Lapiti nel Tartaro.
[2]   Secondo una versione del mito, il Centauro era immortale per cui fu costretto a languire sino a quando non chiese a Zeus la grazia di poter morire in luogo del tormentato Prometeo, il Titano incatenato sui monti del Caucaso per aver sottratto il fuoco dall’Olimpo; allora soltanto Chirone spirò e Prometeo venne liberato, dopo che Eracle – con il consenso del padre Zeus – uccise l’aquila che gli divorava continuamente il fegato.

5)        Gli uccelli della palude di Stinfalo

La quinta prova per Eracle fu quella di eliminare dei mostruosi uccelli che devastavano la zona adiacente alla palude di Stinfalo, nell’angolo nord-orientale dell’Arcadia.

Questi micidiali volatili avevano penne, ali, artigli e becco di bronzo; uccidevano lanciando le loro penne come frecce e si nutrivano di carne umana.

Tali mostruosi esseri erano stati allevati da Ares ed erano così numerosi che, quando prendevano il volo, oscuravano il cielo.

La palude degli uccelli Stinfalidi emanava un odore nauseabondo a causa dei cadaveri di coloro che avevano tentato di affrontarli.

Eracle (su consiglio, pare, della dea Atena) salì su di un’altura presso il margine della palude e agitò un sonaglio di bronzo; il rumore spaventò gli uccelli facendoli volare via e rendendoli quindi facilmente raggiungibili dalle frecce avvelenate dell’eroe.

I pochi uccelli che riuscirono a sfuggire ai dardi di Eracle ripararono nell’isola di Ares, vicino alla Colchide, dove vennero affrontati e sconfitti dagli Argonauti.

 

Eracle contro gli uccelli di Stinfalo

Eracle contro gli uccelli di Stinfalo

6)        Le stalle di Augia

Le stalle di Augia, figlio di Helios e re dell’Elide, non erano mai state ripulite dal letame ed erano circa trent’anni che vi si accumulavano escrementi al loro interno. Euristeo ordinò dunque ad Eracle di recarsi nell’Elide e ripulire in un solo giorno le stalle del re Augia.

L’eroe, recatosi presso il sovrano, ricevette da questi una proposta: se fosse riuscito a compiere una fatica simile avrebbe ricevuto in cambio metà delle sue ricchezze.

Eracle deviò le acque dei fiumi Alfeo e Peneo, riversandole all’interno delle stalle che furono quindi totalmente ripulite.

L’Alcide tornò da Augia, il quale – avendo appreso che l’impresa era stata imposta ad Eracle da Euristeo – non volle però rispettare i patti; il re di Elide intentò un processo contro Eracle prendendo quali testimoni tutti i principi suoi figli.

Tutti testimoniarono a favore del padre, con l’eccezione di Fileo; adirato, Augia, scacciò dal regno suo figlio, insieme all’eroe. Quest’ultimo, prima di andarsene, giurò che si sarebbe presto vendicato sul re e sui suoi figli.

Durante il viaggio di ritorno, Eracle difese la giovane figlia di Dessameno, re di Oleno, dalle grinfie del centauro Eurizione, che venne sconfitto ed ucciso dall’eroe.

7)        Le cavalle di Diomede

Diomede, figlio del dio Ares (da non confondere con l’eroe omerico), era un sovrano dei Bistoni, una popolazione della Tracia, famoso per la sua crudeltà, il quale allevava cavalle che nutriva con carne umana (dapprima, gli dava in pasto i soldati caduti in battaglia; in seguito, anche gli sventurati ospiti che venivano invitati a corte);

si trattava, ovviamente di animali molto particolari, che alcuni vogliono imparentati con le Arpie, le Erinni o addirittura le Gorgoni. Euristeo ordinò ad Eracle di portare a Micene le Cavalle della Morte, senza però rivelargli le terribili abitudini alimentari delle giumente.

Eracle si mise in marcia e giunse in Tessaglia e precisamente a Fere, dove regnava il re Admeto (che l’eroe aveva già avuto modo di conoscere durante la spedizione degli Argonauti).

Il re di Fere accolse l’Alcide con tutti gli onori anche se aveva sofferto da poco un gravissimo lutto: la morte della moglie, la bella e saggia Alcesti.

Tempo addietro, infatti, Admeto era stato colpito da una grave malattia che l’avrebbe condotto presto al decesso; impietosito per la sorte di un sovrano così giusto, il dio Apollo cercò di intercedere per lui presso la dea della Morte, la terribile Thanatos;

il dio del sole e delle arti, infatti, era stato a lungo al servizio di Admeto come pastore in un periodo in cui era stato costretto a vagare come un comune mortale sulla terra per aver disobbedito al volere del padre Zeus.

Thanatos aveva ceduto, in parte, alle preghiere di Apollo e concesse di salvare il re di Fere solo se qualcuno si fosse offerto di morire in sua vece. Né il padre né la madre del re (benché anziani), né alcuno dei sudditi di Fere avevano tuttavia accettato di sacrificare la loro vita per Admeto, tranne la moglie Alcesti.

La bella sovrana, quindi, aveva cominciato a deperire di giorno in giorno (mentre il marito riprendeva le forze) ed era deceduta poco prima dell’arrivo di Eracle.

L’eroe, ignaro dell’accaduto, chiese ospitalità ad Admeto e cominciò a mangiare in abbondanza e a gozzovigliare, mentre gli abitanti e i servitori della casa piangevano nelle proprie stanze la tragica perdita della regina.

Uno dei servi, indignato per tale comportamento, rimproverò l’ospite per la propria maleducazione raccontandogli tutto l’accaduto. Vergognatosi per il proprio atteggiamento, Eracle giurò sullo Stige di ripagare l’ospitalità dell’amico.

L’Alcide si recò presso la tomba di Alcesti e, poco prima che Tanathos ne ghermisse l’anima per portarla nel regno dell’oltretomba, affrontò la dea della morte in un feroce corpo a corpo, al termine del quale la bella regina di Fere venne strappata dagli dei inferi e ricondotta nel mondo dei vivi[1].

Eracle proseguì quindi il viaggio verso la Tracia in compagnia di un gruppo di compagni, tra i quali figurava un certo Abdero.

L’Alcide ingaggiò una furiosa battaglia con il terribile Diomede e, mentre teneva occupato quest’ultimo, ordinò ai suoi di prendere le cavalle. Abdero, che per primo tentò di catturarle, venne divorato dalle mostruose giumente.

Furente, Eracle sconfisse Diomede e lo costrinse a condividere il destino delle sue vittime: anche lui divenne così il pasto delle cavalle[2].

In onore del defunto amico Abdero, Eracle fondò nel luogo della morte del compagno una città (Àbdera), che in età storica divenne la patria di illustri filosofi.

Durante il viaggio di ritorno in patria, l’eroe dovette affrontare in un duello combattuto su carri da guerra Cicno, figlio di Ares, un brigante sanguinario deciso ad edificare un tempio al padre con le ossa degli stranieri che passavano per il suo territorio;

secondo la maggior parte dei narratori, Cicno fu ucciso da Eracle, mentre altri sostengono che Zeus in persona separò i due contendenti[3].

 Tornato da Euristeo, l’Alcide sfoggiò le mitiche cavalle ma il sovrano, terrorizzato, ordinò che venissero portate via.

[1]    Secondo un’altra versione, egli scese nel regno dei morti e raccontò ad Ades e alla sua sposa Persefone la struggente storia di Alcesti. I due sovrani, commossi, concessero all’eroe di ricondurre la donna nel mondo dei vivi. Queste vicende ispirarono ad Euripide la tragedia “Alcesti”.
[2]   Secondo la leggenda, Bucefalo, il cavallo di Alessandro Magno discendeva da tali giumente.
[3]   Alcuni mitografi collocano questo duello durante l’undice-sima fatica.

8)        Il Toro di Creta

Eracle affronta il toro di Creta

Euristeo ordinò ad Eracle di catturare un toro, che in quel tempo devastava il territorio di Creta.

Minosse, il sovrano dell’isola, era particolarmente devoto a Poseidone, il dio del mare, cui aveva promesso di offrire in sacrificio un toro; si narra, a questo punto, che lo stesso nume facesse sorgere dai flutti marini un animale dalla bellezza incomparabile.

Il sovrano ne fu talmente ammirato che decise di sacrificare un altro toro e di tenersi quello splendido esemplare.

La vendetta del dio del mare non si fece attendere: la bella Pasifae (moglie di Minosse), infatti, venne posseduta da un immondo desiderio nei confronti del toro emerso dalle onde; per placare il suo ardore, la regina chiese all’artigiano più famoso dell’isola, l’abilissimo Dedalo, di costruirle una mucca di legno dove nascondersi; quello stratagemma consentì a Pasifae di ingannare il toro e di sedurlo.

Da quella folle ed insana passione amorosa nacque una creatura deforme ed atroce, cui venne dato il nome di Minotauro: il corpo gigantesco era quello di un uomo, la testa enorme era quella di un toro; si nutriva di carne umana ed emetteva terrificanti muggiti[1].

Il genitore del terribile mostro scorrazzava libero per l’isola di Creta, devastando il territorio e terrorizzando gli abitanti.

Eracle acciuffò la belva, richiudendola in una rete, e la portò ad Euristeo, il quale ordinò di liberarla. Il toro giunse quindi nella piana di Maratona, nell’Attica, dove venne nuovamente catturato da Teseo.

[1]    Il Minotauro venne ucciso dal prode Teseo; v. Racconti senza tempo, Vol. I, pp. 22-39.

9)        Il cinto di Ippolita

Su richiesta di una delle figlie di Euristeo, Eracle dovette recarsi presso le Amazzoni a prendere possesso della splendida cintura della loro regina Ippolita, figlia di Ares.

Eracle, in compagnia di un gruppo di eroi (tra i quali figurava anche Teseo), si imbarcò quindi alla volta di Temiscira, posta alla foce del fiume Termodonte, nella parte orientale del Ponto Eusino (il Mar Nero):

qui, secondo la tradizione, dimorava la regina delle Amazzoni, una stirpe di temibili donne guerriere che lasciavano in vita soltanto le figlie femmine e che si amputavano la mammella destra per non essere impedite nel tiro con l’arco, specialità in cui erano maestre.

Giunti a Temiscira, gli eroi vennero accolti calorosamente da Ippolita, disposta a cedere pacificamente il proprio cinto.

La dea Hera, tuttavia, architettò uno stratagemma per non rendere la vita facile all’eroe: dapprima fece addormentare Zeus con l’aiuto di Ypnos, il dio del sonno; poi prese le sembianze di una amazzone e sobillò le donne guerriere, inducendole a credere che Eracle fosse giunto per rapire la loro regina.

Ne nacque una tremenda battaglia, al termine della quale le Amazzoni furono sconfitte e la loro regina fatta prigioniera da Teseo: dalla loro unione nacque un figlio, Ippolito, futuro seguace devoto della dea Artemide.

Quando Zeus si risvegliò dal sonno cui era stato indotto, si adirò con la moglie Hera per il suo stratagemma e, per punizione, la sospese in aria legata ad una corda d’oro, con due incudini ai piedi; il dio Ypnos riuscì invece a scamparla riparando presso la madre Notte.

Durante il viaggio di ritorno, con il prezioso cinto ben conservato, Eracle e i suoi uomini giunsero presso la città di Troia, dove un terribile mostro marino inviato da Poseidone devastava la popolazione; un oracolo aveva predetto che solo offrendo in sacrificio la principessa Esione poteva essere placata l’ira del dio del mare.

Eracle si offrì di affrontare la terribile creatura in cambio di una pariglia dei bellissimi cavalli del re Laomedonte; il sovrano, pur di salvare la figlia, accettò.

L’Alcide si scontrò con il mostro (un pesce gigantesco) e lo uccise. Laomedonte, tuttavia, non rispettò i patti, scatenando così l’ira dell’eroe, che giurò di vendicarsi non appena finite le sue dodici fatiche.

Eracle e le Amazzoni

Eracle e le Amazzoni

10)      I buoi di Gerione

La decima fatica di Eracle fu quella di catturare i leggendari buoi di Gerione; quest’ultimo era un mostro dall’aspetto terrificante; figlio di Calliroe, una delle ninfe oceanine, e di Crisaore (il “guerriero dalla spada d’oro”, nato dal sangue di Medusa che sgorgò quando venne decapitata da Perseo), l’orrenda creatura aveva tre gambe e tre tronchi, da cui si protendevano tre teste e tre paia di braccia.

Il gigante aveva posto come custodi delle sue mandrie un mostruoso cane, Ortro, figlio di Tifone e di Echidna, e il terribile vaccaro Eurizione, figlio di Ares.

I possedimenti di Gerione erano posti agli estremi confini della terra allora conosciuta, ragion per cui Eracle si imbarcò da Pilo e raggiunse i confini del mondo; ivi piantò due colonne, le cosiddette “Colonne d’Ercole“, come monito futuro per l’umanità affinché nessuno dovesse più oltrepassarle[1].

Mentre attraversava le colonne, l’Alcide chiese aiuto a Helios, il dio del Sole, per giungere alle terre di Gerione; di fronte al rifiuto del nume, Eracle si infuriò e giunse a scagliare le sue frecce contro il cocente disco solare.

Il dio, ammirato per il suo coraggio, gli consentì di usare il suo battello d’oro a forma di coppa per raggiungere il nemico; l’eroe dovette addirittura minacciare il dio Oceano, che aveva sollevato i suoi flutti, per proseguire il viaggio.

Giunto nell’isola di Erythia, Eracle affrontò Gerione, Ortro ed Eurizione, che vennero sconfitti dai terribili colpi dell’Alcide; l’eroe non esitò a colpire persino la dea Hera, accorsa in aiuto del mostro contro l’odiato figliastro.

Dopo essersi impossessato delle mandrie, Eracle partì alla volta di Micene; durante il viaggio di ritorno, egli percorse la penisola italica; giunto in Tirrenia, l’eroe si imbatté nel gigante Caco, che esalava fumo e fiamme dalle fauci.

Questi rubò le bestie migliori della mandria approfittando del sonno di Eracle e, per non lasciare tracce del furto, trascinò per la coda gli animali verso la caverna che gli serviva da rifugio.

Ingannato dal trucco del gigante, Eracle si era ormai rassegnato a dare gli animali per dispersi quando sentì il muggito delle bestie dal fondo di una spelonca. Per liberarli, Eracle dovette rimuovere un macigno che faceva da soffitto alla grotta ed affrontare il mostro, che venne stritolato dalla spaventosa morsa dell’Alcide e poi scaraventato giù da una rupe[2].

Giunto nella punta meridionale della penisola, Eracle dovette inseguire una parte degli armenti che a nuoto avevano raggiunto la Sicilia (una parte dei buoi venne divorata dalla terribile Scilla); qui si scontrò con il despota Erice e lo uccise; il luogo di sepoltura del tiranno diede il nome all’omonima cittadina.

Una volta sbarcato in Grecia, Eracle dovette affrontare Neleo, re di Pilo (che tentò anche di rubargli gli armenti), e il gigante Alcione; inoltre, Hera mandò contro le mandrie un tafano che causò la loro dispersione.

Eracle le inseguì freneticamente sino a catturarle di nuovo e riuscì alfine a portare le bestie sane e salve in patria, dove Euristeo le offrì in sacrificio alla stessa dea Hera.

Gerione e il cane Ortro

Gerione e il cane Ortro

[1]    Sono tradizionalmente identificate con lo stretto di Gibilterra, anche se recenti teorie le collocano nello stretto di Sicilia: cfr. FRAU, Le Colonne d’Ercole, Roma, Nur Neon srl, 2002.
[2]   Come si legge nel poema virgiliano “Eneide”, la leggenda di Eracle e Caco viene narrata dal re Evandro ad Enea.

11)       I pomi delle Esperidi

Ad Eracle venne quindi ordinato di prendere tre mele dal giardino delle Esperidi; un tale fantastico sito prendeva il nome da quattro ninfe, figlie della Notte (ovvero, secondo taluni, del titano Atlante e della ninfa Esperide;

taluni sostengono invece che fossero figlie di Zeus e di Temi), che abitavano il giardino assieme al drago Ladone dalle cento teste, il custode del luogo sacro:

si narra, infatti, che il giardino fosse il regalo di nozze che la dea Terra aveva fatto a Zeus ed Hera per il loro matrimonio: gli alberi che germogliavano producevano frutti d’oro.

Nessuno sapeva in quale remoto angolo della Terra si trovasse il giardino delle Esperidi. Eracle cercò dapprima di trovarlo nelle zone più sperdute della penisola ellenica, ma non ebbe fortuna.

Quindi si recò nella penisola italica, dove presso il fiume Eridano incontrò le splendide ninfe del luogo; esse furono liete di dargli consigli e gli dissero di recarsi presso il dio marino Nereo (ovvero, secondo altri, Proteo), che conosceva tale segreto.

Eracle sorprese la divinità dei flutti mentre questi dormiva e lo strinse saldamente, così come gli avevano detto le ninfe, nonostante questi cercasse di sfuggirgli utilizzando i suoi poteri di metamorfosi.

Alla fine, il vecchio del mare si arrese e acconsentì a soddisfare le richieste di Eracle, indicandogli la strada per raggiungere l’isola dove si trovava il giardino delle Esperidi.

Durante il viaggio l’Alcide ottenne poi altre informazioni da Prometeo, che da lunghi anni si trovava incatenato ed esposto alle torture di un’aquila che gli rodeva il fegato.

Con il consenso del padre Zeus, Eracle uccise il rapace e liberò il Titano. Prometeo gli consigliò di cercare suo fratello Atlante, padre delle Esperidi, e di far cogliere a lui stesso i preziosi frutti d’oro.

Giunto nel continente africano, Eracle attraversò l’Egitto, dove incappò nel re Busiride. Poiché, anni prima, quella terra era stata devastata da una terribile carestia, un indovino aveva profetizzato che l’ira degli dei poteva essere placata soltanto con il sacrificio di uomini nati in altre terre.

Busiride aveva compiuto il primo sacrificio trucidando il malcapitato indovino e, da allora, ogni anno uno straniero era vittima di questo crudele rito.

Eracle stesso venne catturato, ma riuscì a spezzare le catene e ad uccidere il re sullo stesso altare utilizzato per il sacrificio, sotto lo sguardo terrorizzato della popolazione[1].

In seguito, l’Alcide si scontrò con un avversario ancora più temibile, il gigante Anteo, figlio di Gea, che sfidava tutti i malcapitati che incontrava in un duello all’ultimo sangue[2].

Come figlio della dea Terra, il gigante era in grado di riprendere tutte le sue forze ogni volta che, messo al tappeto, egli veniva a contatto con il terreno.

L’eroe trovò il modo di impedire all’avversario di servirsi di questo vantaggio tenendolo in alto con le poderose braccia e strangolandolo così a mezz’aria.

Dopo un lungo viaggio, l’Alcide raggiunse finalmente il gigante Atlante, il quale reggeva sulle sue poderose spalle la volta del cielo. Eracle si offrì di sostituirlo nel gravoso compito per qualche tempo, se questi avesse acconsentito a raccogliere per lui le mele d’oro dal giardino delle Esperidi; il Titano acconsentì[3].

Quando Atlante fece ritorno con i frutti rubati, non avendo nessuna intenzione di riprendere l’immane fardello di reggere il firmamento, cercò di lasciarne per sempre la responsabilità ad Eracle offrendosi di recapitare egli stesso le mele ad Euristeo.

L’Alcide, fingendosi onorato del delicato incarico, chiese ad Atlante di riprendere solo per un momento la volta celeste sulle spalle, in modo da consentirgli di intrecciare una stuoia che ne alleggerisse la pressione sulla schiena.

Il gigante riprese il fardello, ma prima che potesse rendersi conto di essere stato giocato con i suoi stessi mezzi il furbo Eracle era già fuggito, portando con sé il bottino delle mele d’oro.

Eracle uccide Busiride

Eracle uccide Busiride

[1]     Secondo un’altra versione del mito, lo scontro con Busiride sarebbe avvenuto nel corso del viaggio verso le terre di Gerione, durante la decima fatica.
[2]     Secondo un’altra versione del mito, la lotta contro Anteo sarebbe avvenuta, anche in questo caso, durante la decima fatica.
[3]   Alcuni poeti riferiscono che Atlante si sarebbe inizialmente rifiutato di cogliere le mele per paura del drago Ladone; a questo punto, Eracle avrebbe incoccato una freccia uccidendo il mostro con un solo colpo, convincendo così il Titano a compiere l’impresa. Ma questo episodio appare “eccessivo” anche per un ingenuo affabulatore come il vostro Autore…

12)      La cattura di Cerbero

Euristeo scelse, come ultima prova, un’impresa che sembrava impossibile per qualsiasi mortale: catturare Cerbero, lo spaventoso cane a tre teste (figlio di Tifone ed Echidna), posto a guardia dell’oltretomba: “fiera crudele e diversa, con tre gole carinamente latra sopra la gente che quivi è sommersa”[1].

L’Alcide si preparò a questa prova con un pellegrinaggio presso Eleusi, dove venne iniziato ai misteri[2] per purificarsi; quindi, sotto la guida di Hermes, egli giunse al Tenaro, la punta meridionale del Peloponneso, e si addentrò in una buia spelonca che conduceva ad una delle porte dell’Ade.

Per giungere nell’oltretomba era necessario attraversare il fiume Acheronte; l’eroe si fece traghettare dal nocchiero dei morti, Caronte;

giunto nell’Ade, Eracle vide le ombre dei trapassati e i terribili mostri che infestavano questa tetra regione; tra tutti gli spiriti, solo la Medusa osò affrontarlo: l’Alcide stava già per colpirla con la spada, quando Hermes gli fermò la mano, ricordandogli che le creature dell’Ade sono solo dei fantasmi.

Ad avvicinarsi ad Eracle fu l’ombra di Meleagro, celebre eroe dell’epopea del cinghiale calidonio (v. Capitolo III), il quale pregò l’eroe di proteggere, una volta tornato nel mondo dei vivi, la sorella Deianira.

Eracle giunse finalmente davanti al trono dei due sovrani dell’oltretomba: Ades e Persefone. Il sovrano degli inferi, conoscendo personalmente il coraggio e l’ardore dell’Alcide, acconsentì a consegnargli il cane Cerbero, a patto però che Eracle riuscisse a domarlo con le sole mani, senza fare uso di armi.

Il figlio di Alcmena si recò di nuovo presso il fiume Acheronte, dove dimorava il terribile cane a tre teste: dopo una strenua lotta, il mostruoso figlio di Tifone e Echidna fu costretto ad arrendersi quando Eracle riuscì a serrargli tra le potenti braccia la base dei tre colli.

Cerbero tentò di colpirlo con la coda, ma alla fine dovette arrendersi e si lasciò incatenare[3].

Presso le porte del palazzo di Ades, Eracle trovò due prigionieri, che riconobbe molto presto: erano Teseo, suo compagno in svariate avventure, e il suo amico Piritoo, il re dei Lapiti.

Entrambi erano scesi nel mondo sotterraneo per rapire Persefone, ma erano stati scoperti e condannati a restare seduti per l’eternità sulla pietra dell’oblio.

L’eroe riuscì a salvare Teseo ma, quando si apprestò a recuperare anche Piritoo, fu costretto ad allontanarsi per colpa di un terribile terremoto.

Eracle rivide la luce del sole nei pressi di Trezene, nella regione dell’Attica, e di qui prese la via verso Micene. Euristeo, vedendo l’eroe tornare con il mostro infernale sulle spalle, si sentì morire per la paura e ordinò che Cerbero venisse rimandato negli inferi.

Il re di Micene, avendo constatato che l’eroico cugino era uscito vincitore da tutte le prove che gli aveva imposto, si diede per vinto e lo liberò dalla sua prigionia.

Eracle presenta Cerbero ad Euristeo

Eracle presenta Cerbero ad Euristeo

[1]    DANTE, Inferno, Canto VI, vv. 13-15.
[2]   I riti misterici erano una pratica di culto parallela a quella degli dei olimpici e si credeva fossero stati fondati da Orfeo (essi provenivano, probabilmente, dall’Asia); gli adepti del culto dei Misteri credevano nel ciclo continuo della nascita e della morte e, quasi sicuramente, anche nella reincarnazione. Scopo ultimo di queste pratiche religiose era ricongiungere l’anima con l’elemento divino; tale ascesa poteva essere compiuta attraverso rituali complessi (anche di tipo orgiastico), che prevedevano il raggiungimento di stati di estasi ed eccitazione per acuire la sensibilità ed avvicinarsi agli dei (famosa la definizione dell’epilessia come “morbo sacro”). Rituali simili erano connessi al culto del dio Dioniso.
[3]    Si dice che, da allora, Cerbero “ne porta ancor pelato il mento e ‘l gozzo”; DANTE, Inferno, Canto IX, v. 91.

 

di Daniele Bello

 

Aprile 18, 2017

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