Gli acquedotti di Roma agli occhi di visitatori illustri

Erano soprattutto i poeti romantici d’oltralpe, che sentivano profondamente la suggestione delle rovine, percepite come superstiti testimonianze di un mondo irrimediabilmente perduto, di una grandezza definitivamente tramontata. Il fascino degli antichi resti spingeva poeti e scrittori a compiere il Viaggio in Italia, rituale pellegrinaggio alla riscoperta dei monumenti del passato che offrivano spunto per i loro scritti. Un ruolo dominante tra i ruderi hanno sicuramente i resti degli acquedotti di Roma.

Goethe, ad esempio rimase particolarmente colpito dalla maestosità dei resti degli acquedotti e annotò nel suo diario di viaggio:

“Questa gente lavorava per l’eternità e teneva conto di tutto tranne che della follia alla quale tutto deve cedere … Gli avanzi del grande acquedotto impongono veramente rispetto. Quale grande e nobile scopo è quello di abbeverare un popolo mediante un monumento così grandioso!”

Johann Wolfgang von Goethe (Francoforte sul Meno, 28 agosto 1749 – Weimar, 22 marzo 1832) è stato uno scrittore, poeta e drammaturgo tedesco

De Brosses, nella metà del ‘700, manifesta il suo interesse illuministico per tali strutture; nelle sue Lettere dall’Italia scrive:

“Tutti gli acquedotti sono formati da una quantità incredibile di arcate, lunghe e strette, sostenute da pilastri con volte in mattoni, sulle quali, come su di una terrazza, si snoda il canale che, dalla sorgente, porta le acque a destinazione. Essi non sono costruiti in linea retta ma fanno di tanto in tanto qualche curva serpentina, pari ala letto di un piume. I Romani vollero che l’arte imitasse la natura ritenendo che le acque fossero più sane se precedentemente sottoposte a ripetuti ondeggiamenti. Ogni arcata presa singolarmente è di relativa importanza, ma non potrei immaginare come in materia di architettura la quantità di cose mediocri, siano esse pilastri incassati o colonne radunate in gran numero, producano un effetto straordinario.”

Charles de Brosses, conte di Tournay (Digione, 7 febbraio 1709 – Parigi, 7 maggio 1777) è stato un magistrato, filosofo, linguista e politico francese

Al critico d’arte John Ruskin i resti degli acquedotti, alla luce della sera, apparivano come simboli di morte. Nella prefazione alla seconda edizione di Modern Painters scrive:

“Una melancolica, velenosa nebbiosità, si spande su tutto il deserto, velando gli avanzi spettrali delle massicce rovine, sui cui squarci la rossa luce si arresta come fuoco morente sopra altari contaminati… Dal piano delle montagne, pilastro dopo pilastro, i rovinati acquedotti si perdono nell’oscurità, quali fantomatiche interminabili schiere di dolenti partecipanti al funerale del sepolcro di una nazione … La linea degli acquedotti pare una fila sterminata di salici piangenti che si dilungano sulle tombe di un impero.”

Autoritratto di John Ruskin: (Londra, 8 febbraio 1819 – Brantwood, 20 gennaio 1900) scrittore, pittore, poeta e critico d’arte britannico

Stendhal, nelle sue Passeggiate Romane, scrive:

“Siamo arrivati in Porta Maggiore celebre per le lunghe iscrizioni. Gli antichi avevano il costume di ornare con magnificenza i loro acquedotti nei tratti in cui questi monumenti attraversavano le strade pubbliche. Da Roma partivano diciannove grandi strade: numerosi acquedotti vi apportavano le acque; potete immaginare di quanti monumenti del tipo di Porta Maggiore fosse sparsa la campagna romana quando la contemplavano Properzio e Tibullo. Claudio fece affluire a Roma due sorgenti. Uno degli acquedotti aveva una lunghezza di quarantacinque miglia, l’altro di sessantadue. Ce lo dice una  delle iscrizioni, le altre appartengono a Vespasiano e a Tito … Il monumento costruito da Claudio ha due archi grandi e tre più piccoli. È costruito in  grossi blocchi di travertino, sistemati senza calcina, gli uni sugli altri…”

Marie-Henri Beyle, noto come Stendhal (Grenoble, 23 gennaio 1783 – Parigi, 23 marzo 1842)

Riguardo alle Terme di Caracalle il poeta ottocentesco inglese Shelley scrive:

“Le Terme di Caracalla sono tra le rovine del tempo più degne di considerazione. Mai luogo desolato ha offerto uno spettacolo tanto dolce e sublime. Le pareti dei ruderi sono solcate da fenditure profonde occupare da cespugli fioriti, le cui fitte e contorte radici si sono insinuate fra le pietre. A ogni passo guglie aeree formano effetti sempre diversi sopra le mura alte e lisce; ricordano le montagne che mutano aspetto sotto gli occhi di chi viaggia in pianura. Il cielo azzurro funge da baldacchino e da tetto imperituro a queste enormi sale. L’insieme, che si estende per parecchi acri, è uno spettacolo che lascia senza fiato”

Ritratto di Percy Bysshe Shelley, olio su tela postumo di Alfred Clint, dal dipinto di Amelia Curran (1819). Londra, National Portrait Gallery

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