Heinrich Heine

Heinrich Heine

Il mio vetturino aveva attaccato i destrieri prima ancora di Elios e a mezzogiorno eravamo a Ala, dove i cocchieri sogliono far tappa per qualche ora e cambiar carrozza.

Ala è un borgo tipicamente italiano, in posizione amena, sul pendio di un monte; vi passa scrosciando un torrente; qua e là, viti di un verde gaio incoronano i palazzi cenciosi, affastellati e stretti l’un l’altro.

All’angolo della piazza del mercato, che è tutta sbilenca, e stretta come un pollaio, si legge a caratteri cubitali: Piazza San Marco.

Sul frammento di pietra di uno stemma nobiliare, un ragazzino s’era accoccolato a fare i bisognini; il sole vivo illuminava le sue nudità innocenti; in mano teneva un’immaginetta sacra di carta, e accanto gli stava in contemplazione una femminuccia, che ogni tanto, a guisa d’accompagnamento, suonava una trombetta.

Non meno tipicamente italiano era l’albergo al quale scesi.

Al primo piano, un ballatoio aperto con vista sul cortile, dove vetture malconce si alternavano a mucchi olezzanti di letame, tacchini dai rossi bargigli, buffoneschi e tronfi pavoni passeggiavano, e una mezza dozzina di marmocchi cenciosi e abbronzati si spidocchiavano secondo il metodo Bell e Lancaster.

Il ballatoio portava, lungo una ringhiera di ferro sgangherata, a un’ampia sala: pavimento di marmo, in mezzo un lettone sul quale andavano a nozze le pulci, un’opulenta sporcizia ovunque.

L’oste mi saltellava intorno chiedendo ordini, portava una zimarra verdastra e, al centro di un faccione mosso e tutto grinze, un naso lungo e ricurvo con un bitorzolo rosso peloso, che faceva pensare a una scimmia in giubbetto scarlatto in groppa a un cammello.

Mi saltellava intorno; ed era come se, con lui, sul naso saltellasse la scimmietta.

Mi ci volle un’ora buona perché combinasse qualcosa; e quando protestai, mi assicurò che parlavo molto bene l’italiano.

Così, per un po’ di tempo, dovetti accontentarmi del grato odor d’arrosto che veniva a ondate dalla cucina aperta, dove madre e figlia cantavano, sedute una accanto all’altra, spennando galline.

La madre era un donnone dai seni che traboccavano impetuosi dal corsetto, ma non erano ancora nulla in confronto al gigantesco posteriore…

Una certa tendenza alla pinguedine mostrava anche la figlia, un tipo non molto grosso ma tarchiato, la cui florida ciccia non aveva però nulla a che vedere col sego rancido della madre.

I lineamenti non erano puri e giovanilmente freschi, ma ben tagliati, nobili e antichi; e riccioli e occhi erano di un nero ardente…

Questa scena domestica, cordiale e quasi idilliaca, fu improvvisamente turbata da un ciclone: un giovane dalle spalle quadrate e dalla faccia stravolta da assassino piombò sulle due donne urlando non so che cosa e, poiché quelle scrollavano la testa, uscì in un violento scoppio d’ira e sprizzò fuoco e fiamme come un piccolo Vesuvio imbestialito.

L’ostessa parve sbigottirsi, e mormorò parole di pace che ebbero l’effetto esattamente opposto, tanto che l’indemoniato brandì una paletta di ferro, ruppe i piatti e le bottiglie venutigli a tiro, e avrebbe colpito anche la povera donna, se la figlia non avesse afferrato un coltello da cucina minacciando di infilzarlo se non levava i tacchi al più presto.

Fu un bello spettacolo, la ragazza dritta come una statua, livida, tremante d’ira, le labbra bianche, gli occhi cupi e selvaggi, una vena gonfia e azzurra attraverso la fronte, i capelli neri come un groviglio di serpi, in mano il coltello insanguinato…

Durante tutta quella scena, il signor padre non si scomodò; poi, con calma rassegnazione, raccolse i cocci, radunò i piatti rimasti in vita, e mi servì una zuppa di cacio parmigiano, un arrosto testardo e duro come la fedeltà tedesca, gamberetti rossi come l’amore, uova con spinaci verdi come la speranza e, per dessert, uno stufato di cipolle che mi strappò lacrime di commozione.

“Oh, non è nulla; i soliti sistemi di Pietro” rispose quando accennai alla cucina, e infatti, sparito colui che aveva scatenato quell’inferno, fu come se nulla fosse stato, e madre e figlia si rimisero a sedere tranquille, cantando e spennando galline.

Heinrich Heine “Impressioni di Viaggio (1824-1828)”, trad. Bruno Maffi

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