IL FIUME E IL DESERTO – Parte trentesima: Fulmini sul deserto

Luglio. Anno del Signore 1530

 

Il deserto si svegliò al sorgere del sole. Nonostante Lucrezia Borgia si sentisse molto più a suo agio sottoterra, la consolò la vista delle dieci enormi portaornitotteri del suo fedele ammiraglio Shamada, perfettamente in fila.

Lo spettacolo era quasi biblico, con dieci arche a bordo delle quali, in fila e pazienti, strani animali si imbarcavano. Scorpioni giganteschi, quadrupedi inusitati, e forme che ricordavano esseri umani, piccoli e grandi, nani e giganti. Macchine di tutte le forme, che l’unico essere umano, novello Noè, sembrava guidare sulle rampe di imbarco, nave per nave. 

I giapanghesi di Shamada attendevano con pazienza il loro turno per salire a bordo, in fila, disciplinati. Dietro di loro, i beduini di Iside erano in netto contrasto con l’asiatica stoica pazienza. La fila era in perenne movimento e il vocio si sentiva fin da dove ella si trovava.

Guerrieri senza disciplina, non soldati. Carne da macello. Come del resto i nuovi ausiliari, ultimi in coda, francesi, svizzeri e tedeschi, a cui era stato riservato l’onore di unirsi alla forza d’invasione.

Il Re Francesco I sarebbe stato imbarcato anch’egli sull’ammiraglia, a dar man forte ai vincitori. Al suo fianco, Iside, la padrona dell’anima del monarca. Dall’altra parte della base, le piccole navi sottratte all’aviazione italiana attendevano l’arrivo degli equipaggi giapanghesi, che, sempre in fila, come formiche si stavano dirigendo verso quella che era stata l’orgoglio della Serenissima Repubblica.

Entro le dieci del mattino sarebbero salpati. Poco dopo mezzogiorno l’Italia sarebbe stata invasa. Spie spagnole e inglesi e sicari cristiani fondamentalisti avrebbero effettuato operazioni di sabotaggio facilitando lo sbarco. Le flotte corsare ottomane di Barbarossa e Dragut sarebbero salpate contro il presunto nemico. L’aviazione di Shimada le avrebbe colate a picco. Troppo tardi le due grandi potenze si sarebbero rese conto dell’inganno. Mutilate delle loro armate dei cieli e dei mari sarebbero cadute sotto il dominio dell’Ombra.

Mentre assaporava il trionfo e la vendetta, pensò a suo fratello e a suo padre, che avevano tentato di instaurare il potere delle Tenebre, purtroppo fallendo. Ma l’ultima dei Borgia avrebbe trionfato con l’astuzia di una volpe e la ferocia di un leone.

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Da dietro la feritoia, Andrea Doria attese che i giapanghesi fossero a portata di tiro. I serventi ai rivoltoni piazzati sulle torrette erano ben nascosti. L’ordine era quello di aprire il fuoco soltanto quando lui stesso avrebbe azionato la mitraglia, scatenando l’inferno.

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Sebastiano Veniero, attendeva che il genovese aprisse il fuoco dalla sua ammiraglia. Dal castello di prua dell’aerogaleazza stringeva l’archibugio di precisione. Le raffiche le avrebbe lasciate ai soldati. Lui si sarebbe divertito a bersagliare gli asiatici uno per uno.

Vestiva l’uniforme da battaglia, ma ai piedi calzava pantofole. Fortunatamente non sarebbe stata una battaglia campale e lui, dal suo nascondiglio, avrebbe spedito all’inferno almeno una ventina di avversari. Le ciabatte erano comode, ma anche un toccasana per i calli ai piedi che lo facevano soffrire. Pose l’occhio nel cannocchiale e scelse la sua prossima vittima, a caso. Gli asiatici sembravano tutti uguali.

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Francesco I benedì la meticolosità e il tempismo giapanghese, della quale lui avrebbe ricavato vantaggio. Entro pochi attimi gli uomini di Doria e Veniero avrebbero falciato i giapanghesi scatenando una bolgia che sarebbe stato il segnale per coordinare le azioni che dovevano assolutamente iniziare prima che i samurai salissero a bordo delle navi.

I missili di Doria e Veniero avrebbero colpito gli involucri delle portaornitotteri e la lava avrebbe allagato ogni angolo dei colossi, fondendo le macchine. Il cavalleresco paladino di Francia non avrebbe gioito di un trionfo della natura su prodi samurai bruciati dal magma incandescente come gli abitanti di Pompei. Lui bramava in una vittoria sul campo contro quei guerrieri che i suoi soldati avrebbero attaccato, ancora a terra, in gara con i beduini agli ordini di Basma. Prodi anch’essi, ma senza disciplina.

Attese con pazienza degna di un re imperatore.

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Il comandante dei beduini era pronto a eseguire gli ordini impartitigli dalla regina. Non gli interessava chi fossero gli alleati e chi gli avversari se in gioco era la grandezza dell’Egitto.

Sapeva che l’incarnazione della dea Iside prima o poi avrebbe guerreggiato i suoi alleati, che, sapeva, non avevano alcuna intenzione di dividere il mondo con lei. Meglio eliminarli prima che lo facessero loro. L’inaspettato aiuto francese avrebbe anticipato i tempi.

L’Italia era ormai a terra, senza la sua flotta volante. Sarebbero bastate le forze franco imperiali e ottomane per dirigere le sorti del mondo. Nessuna arma era più micidiale del potere degli occhi della sovrana, capace di soggiogare chiunque. Prima Solimano e ora Francesco.

Si tenne pronto a combattere fianco a fianco con i più bei soldati d’Europa a cui avrebbe mostrato il coraggio degli uomini del deserto contro quei guerrieri dagli occhi a spina, alieni e prodi, nonostante tutto.

                                                                        ***

Non appena l’ultimo gigante metallico salì la rampa dell’ammiraglia, Gian Giacomo Caprotti seguì la macchina bipede, come un pastore soddisfatto di aver condotto in stalla l’ultima pecora. O capra. Pensò al proprio cognome, e al soprannome.

Satana veniva rappresentato con le zampe caprine. Soffriva in superficie, alla luce del sole, ma entro poco si sarebbe trovato dentro un piccolo inferno e avrebbe passato il tempo guardando il rosso della lava all’interno dei cilindri scalda aria da un vetro spesso una spanna.

L’illusione di trovarsi in una bolgia infernale gli avrebbe fatto dimenticare di trovarsi in volo, più vicino al cielo. Si affrettò a varcare il grande portello, mentre guardava i samurai in attesa di salire anch’essi a bordo.

Mentre assaporava un sorso d’inferno, questo si scatenò, d’un colpo, al suono di raffiche di rivoltone.

                                                                         ***

Shimada udì i tuoni. In quella terra straniera le tempeste si scatenavano di colpo, sollevando vento e sabbia. Ma i tuoni appartenevano alla natura del suo paese, come i fulmini e l’acqua che cadeva dall’alto. Il cielo era sereno e quella, se era una tempesta, non era creata dalla natura, ma dagli uomini. Qualcuno stava sparando raffiche di rivoltone.

I colpi provenivano dalla flotta italiana. Non c’era tempo di cercare una logica, bensì di localizzare chi fosse il nemico. Si precipitò sul ponte più alto dell’ammiraglia e scrutò l’orizzonte col cannocchiale. I cadaveri degli uomini mandati a prendere consegna delle navi italiani giacevano sulla sabbia, mentre altri tentavano di avanzare. Un giapanghese non fuggiva mai.

Qualcuno si trovava a bordo delle navi e si era impadronito delle armi. In un baleno ipotizzò i colpevoli: o Satanico o la regina d’Egitto. Alleati che pugnalavano alle spalle. La conferma avvenne quando vide i soldati di Francia e i beduini d’Egitto attaccare i suoi uomini. Maledizione, le macchine dell’italiano erano a bordo. Se quello si era messo in combutta con l’altra, allora era la fine.

Un nugulo di missili si innalzò dalle navi italiane. Due delle sue navi vennero colpite. Immaginò la lava uscire dai fori provocati dalle esplosioni. Fortunatamente i suoi uomini non erano ancora a bordo. Immaginò il metallo delle macchine di Satanico fondersi. Il sospetto sull’ingegnere scemò. La traditrice era la Regina. Formulò un piano e agì.

Mentre scendeva velocemente le scale vide un’altra nave venire colpita dai missili. Bisognava salvare il resto della flotta.

                                                                       ***

Ai piedi delle gigantesche navi del cielo, la battaglia terrestre esibiva tre modi di combattere. Il coraggio individuale dei giapanghesi misto a stoica disciplina, il medesimo dei beduini, irruento caotico e micidiale, e la coordinazione franco svizzero tedesca.

Francesco I incitava, e incoraggiava i suoi. La sortita, iniziata a colpi di armi da fuoco, era in breve degenerata in un corpo a corpo con avanzate e ritirate. I giapanghesi, presi di sorpresa, erano al momento in svantaggio.

Una quinta portaornitotteri venne colpita. Dalla flotta italiana si innalzò un altro stormo di missili, che però venne bersagliato da altri missili innalzatisi dalle navi di Shimada.

                                                                          ***

Francesco I aveva sottovalutato il coraggio giapanghese. Non appena il loro condottiero aveva abbaiato ordini dal megafono, quelli si erano precipitati a bordo dell’ammiraglia pur consapevoli del rischio della lava. Oltre a tutto gli anti missili erano molto più efficienti di quanto non avesse creduto. I giapanghesi stavano superando gli italiani in tecnica. Confidò in una contromossa di Doria e Veniero.

CONTINUA…

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di Paolo Ninzatti

Racconto breve ambientato nell’universo del romanzo “Le ali del serpente” dello stesso autore.

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