Il lusso del pianto

Il lusso del pianto

 

Togli quel berretto

Dice la madre alla bambina dagli occhi densi.

No non posso e strania lo sguardo sulle scarpe grandi di forma indefinita in cui il piede sciacquando non le permette di saltare alla corda.

La donna bella seppur ritorta come certi ulivi nerastri in odore di mare si alza e per un attimo si compone di nuovo in lei l’antica bellezza.

Si alza e lenta quasi regale strappa il cappelluccio dalla testa della ragazzina.

Si trovano in quella domenica di settembre su una panchina, non lontane dal manicomio di S. Maria della Pietà. Le strade deserte di una periferia evitata serbano ancora la polvere estiva. Intorno il verde stentato, in alcuni punti più rigoglioso negli alberi di alto fusto, pare tirare la giacca ai visitatori per ricordare lo splendore passato.

La donna accarezza sgomenta quella testolina delicata, pressoché calva, in cui il rasoio calato con brutalità ha causato piccole ferite, crepe venate di croste.

Perché? Chi è stato? E le torce il mento rotondo, tenero

Le lacrime colano a picco, si rincorrono diventano valanghe. I singulti schermano il respiro, facendo franare qualunque resistenza, cacciano fuori puro l’humus sterminato del suo dolore.

Sono state le suore vero?

La donna si alza. Le pieghe della gonna ricadono come quelle di un peplo sulle belle gambe robuste

Vieni dobbiamo tornare

Ripercorrono il sentiero fra cespugli arsi di ginestre, le ombre curve per l’imminente saluto.

Non te ne andare mamma non mi lasciare

Ci vediamo domenica prossima

Non deve piangere non ora non qui alla fermata dell’autobus. Le hanno insegnato a seppellire il dolore. Il suo cuore è pieno di tumuli. Lo strazio va incartato, avvolto, bare disposte una sull’altra e calate se necessario fino al centro della terra.

Appoggia il viso al finestrino del tram mentre si snoda sotto i suoi occhi il solito triste paesaggio domenicale. Famiglie disposte a semicerchio leccano gelati grondanti.

La sua è lontana dimezzata spaiata come le scarpe

Le sue scarpe regalate dalla padrona. Si guarda i piedi ancora belli, senza bozzi nonostante le giornate passate in piedi a stirare manovrando un ferro da dodici chili.

Se n’era andata a trent’anni.

Una sera tornata a casa non era riuscita ad aprire il portone, le mani legate dalla fatica. Lassù affacciata alla finestra una coppia si abbracciava. Nell’oscurità di un pomeriggio dal precoce notturno autunnale i fari di un’auto glieli aveva mostrati. Lanterna magica, film squallido di un cinema parrocchiale. Suo marito ed un’altra.

Un’altra donna

Era tornata indietro.

Nella stireria ormai vuota pianse tutte quelle lacrime che si era sempre negata. Si concesse questo lusso.

Il lusso del pianto

Tracimò fino a dover interrompere quel flusso che la stava disseccando.

La pancia le traballò sotto i colpi lievi ma imperiosi del feto.

Troppo avanti per abortire aveva pensato

Il ricordo le fa dolere la testa.

Maledette monache pensa infilando la chiave nella toppa. Aveva dato i soldi alla suora perché i capelli della sua Maria fossero tagliati da una parrucchiera.

Doveva al più presto tirarla fuori da lì.

Magari tornare in Sicilia. Maria non ha mai visto il mare, non conosce il calore del sole, non conosce il calore del sole che scioglie i profumi fino a renderli liquidi sapori.

Aveva voglia di fare l’amore le manca un uomo che si attardi su di lei. Le manca una bocca in cui respirare dentro.

Domani

Domani

Le manca le manca

Cerca nel buio, si sforza di tenere gli occhi aperti nell’oscurità.

Qualcosa deve venir fuori da questa cavità nera

Pensa la bambina

Portatemi via va bene anche un mostro magari un mostriciattolo teneramente rugoso, uno gnomo dei boschi nella sua tana odorosa di linfa.

E si addormenta, il viso paffuto spalancato verso il soffitto, non potendo disporsi su un fianco, le guance profondamente escoriate dall’anello della suora.

Cattiva pidocchiosa

l’hai detto a tua madre.

Non lo sai che è peccato.

Tiavevamodettodimantenereilsegreto.

Andrai all’Inferno come quella svergognata……

E la mano si era abbattuta implacabile

Un cerottoperpiaceresuoramisimimacchiailgrembiule

Fu portata classe per classe il volto rigato di lacrime miste a sangue perché fosse di esempio

La disciplina è l’unica arte che dovete imparare nella vita

No signora questa domenica non venga portiamo le bambine in gita

No questa domenica non venga sua figlia ha cicatrici sul viso, tanto quelle dell’anima nessuno le vede

Passa meglio lo straccio che pensi di fare da grande la serva tanto andrai a fare come tua madre

Siete nate serve e serve morirete

Stanotte deve stare attenta

Deve stare attenta a non bagnare il letto. Ha tanto freddo dopo, non le permettono di lavarsi e l’urina quando si secca brucia, soprattutto in mezzo alle cosce.

Sciocca sporcacciona le avevano detto legandogli le mutande zuppe sulla testa ora mostra alle compagne quello che sei…..una pisciona

Pisciona pisciona piscionapiscionapisciona

Ti ho portato una bambola

La donna porge il giocattolo a Maria

L’ha vista arrivare da lontano traballante e il cuore le si è aperto.

Così semplicemente d’amore infinito

Passo dopo passo stentato e timido, quel getto cristallino si tramuta in lava, un nastro incandescente di rabbia. Stringe le mani a pugno, le unghie conficcate nel palmo delle mani.

Nonostante sia passato quasi un mese il volto della ragazzina è venato da ferite. I capillari azzurrastri che pulsano sotto la pelle candida, così bella pensa la madre, formano un reticolo confuso con le cicatrici rossobordò.

L’ira plumbea si stempera in una miriade di colori. I colorisapori dell’infanzia con le gonnelle tirate sulle ginocchia nodose, i piedi grandi-basamenti a cercare i pescetti nell’acqua celeste.

Celeste

Com’è che questo cielo romano è sempre così polveroso e grigio grigio e polveroso

Vieni andiamo

Dove mi porti mamma dove mi porti mamma?

In un bel posto vedrai

In un bel posto vedrai

Poco lontano passa il treno ti porto a vedere i treni che corrono via veloci

Zac

Che bello e salta sui piedini, le gambe arrossate per metà coperte dai calzettoni, solo per metà

Non c’è posto qui per noi

Dice la madre mentre si appresta, come sempre composta, a fare quello che è più giusto.

di Giovanna Arciprete

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