La Canzone di Orlando – i poemi medievali

La Canzone d’Orlando (“Chanson de Roland”) appartiene a quel genere letterario che si sviluppò in Francia tra l’XI e il XII secolo: si tratta delle Chansons de geste, che esaltano le imprese di Carlo Magno e dei suoi Paladini.

Secondo l’interpretazione letteraria più risalente, tali componimenti presuppongono una lunga tradizione orale, successivamente messa per iscritto da poeti vissuti in epoca posteriore e precisamente all’epoca delle Crociate, periodo in cui le imprese di Carlo Magno (vissuto tra l’VIII e il IX secolo d.C.) si prestavano ad una rivisitazione e ad una esaltazione eroica, in quanto egli fu il primo sovrano ad organizzare campagne su larga scala contro i Saraceni.

Secondo critici più recenti, invece, le Chansons de geste avrebbero uno stretto rapporto con tradizioni locali: l’origine delle varie epopee si ricollegherebbe a leggende varie sorte intorno a chiese, tombe, feste, pellegrinaggi.

Presso questi santuari i cantastorie, d’accordo con il clero e con i monaci, cercavano di attirare i pellegrini con i loro componimenti.

Illustrazione ispirata al poema tratta da un manoscritto medievale

La Chanson de Roland venne composta da tale Turoldo, un oscuro cantore di cui sappiamo ben poco; egli potrebbe essere anche un semplice compilatore del poema.

L’epopea si ispira ad un fatto storico realmente accaduto, che ci viene riferito da Eginardo: Carlo Magno stava tornando da una spedizione contro i Saraceni nel Nord della Spagna; la sua retroguardia fu sorpresa a Roncisvalle dai montanari baschi, i quali – abituati a combattere fra le rocce e armati alla leggera – ebbero facilmente ragione dei cavalieri impacciati dalle armi pesanti e non abituati a quel genere di imboscate.

I Franchi furono così accerchiati e massacrati senza che Carlo Magno potesse soccorrerli. Nella rielaborazione letteraria dell’evento, in un’epoca di reconquista dell’Europa e di crociate in Terrasanta, la retroguardia delle forze carolingie è guidata da Orlando, uno dei Pari di Francia (nonché nipote dello stesso sovrano), e deve affrontare un esercito di oltre centomila Saraceni prima di soccombere eroicamente.

Il poema inizia nel momento in cui il re saraceno Marsilio domanda la pace a Carlo Magno, che aveva conquistato tutta la Spagna ad eccezione di Saragozza.

 

Re Carlo, il nostro magno imperadore,

stette per sette interi anni in Ispagna.

Fino al mar conquistò la terra alpestra,

e a lui d’innanzi caddero castella,

né un borgo, e non un muro, ancorché saldo,

rimase contr’a lui nè città, tranne

Saragozza che sta su la montagna.

Re Marsilio la tien, che come a Dio

a Macometto serve e Apollo chiama:

ma sì non potrà far che mal nol prenda.

 

TUROLDO, La Canzone di Orlando, Lassa I

(traduzione di G.L. PASSERINI)

 

Carlo Magno convoca i suoi baroni per trattare sulle condizioni e dopo una lunga discussione (cui prendono parte Namo, Orlando, Oliviero, l’arcivescovo Turpino e Gano di Magonza), il trattato di pace viene accettato; si decide così di inviare a Marsilio un ambasciatore per trattare: l’imperatore, su consiglio di Orlando, designa Gano, il quale obbedisce anche se a malincuore (“Se Carlo vuol ch’io il serva in Saragozza andrò. Ma pria che resti il mio grande furor, qualche stranezza commetterò”).

Durante la sua missione, Gano ordì un tradimento: promise a Marsilio di mettere Orlando e Oliviero nella retroguardia per poterli sorprendere a Roncisvalle, assieme al fior fiore della cavalleria francese.

Dopo il ritorno di Gano, Carlo Magno partì per la Francia. Orlando, che guidava la retroguardia dell’esercito dei Franchi, appena penetrato nelle gole dei Pirenei avvertì di essere circondato dai nemici; Oliviero gli consigliò di suonare il suo corno (l’Olifante) per chiamare aiuto, ma Orlando preferì combattere.

Nonostante la strenua ed eroica difesa, tutti i Baroni dovettero soccombere di fronte alle soverchianti forze dei Saraceni. Solo allora Orlando si risolse a dar fiato al suo corno: suonò con tale impeto, che le sue tempie si spezzarono. Carlo Magno sentì l’appello disperato e corse in aiuto dei suoi Paladini.

Orlando vede la crudele rovina

dei Franchi e parla al suo fido compagno:

«Sire Oliviero, se ti protegge Dio,

guarda per terra il grande stuolo dei nostri

cavalieri fedeli e, per la dolce

terra di Francia, piangi con me, poiché

è stata privata di tanta prodezza!

Ma perché sei lontano da noi,

Re cortese nostro? Come potremo ora

inviargli nostre notizie, fratello mio?».

Dice Oliviero: «Non so come. Meglio

restar qui morti che vivere nell’infamia».

 

Risponde Orlando: «Darò fiato al corno,

perché re Carlo, che è al di là dai monti,

lo ascolti. Ti giuro, accorreranno i Franchi».

Ma Oliviero: «Per noi sarebbe una grande onta;

sarebbe disonore. Il mio consiglio

non hai voluto ascoltare; ora io non posso

essere d’accordo con te. Come potrai mai

soffiare corno se non hai fiato? Entrambe

le tue braccia sono ferite». Ed egli: «In verità

meravigliosi colpi oggi ho inferto».

 

E dice Orlando: «Assai forte è la battaglia!

Perché il Re l’oda darò fiato al corno».

E Oliviero: «Suonerai con tuo disonore.

Quando io te lo dissi, disprezzasti il mio

consiglio. Ben per noi, se ora qui fosse

presente il Re: ma non hanno colpa quelli

che sono lontano!» E poi soggiunge: «Giuro

per la mia barba che se io mai rivedrò

Alda, la mia dolce sorella, un giorno,

non potrai più riabbracciarla!»

 

A questo, Orlando rispose: «Perché ti adiri così?»

«Tua è la colpa» risponde, «amico: folle è chi

non aggiunge il senno ad un grande coraggio.

Meglio è la prudenza che lo sventato ardire.

Tua fu la colpa se la Francia ha perso

tanti valorosi; se del braccio nostro

non potrà più giovarsi Carlo; il Re

nostro sarebbe accorso subito,

se io non ti avessi consigliato invano.

Insieme avremmo combattuto la battaglia

con altra sorte e Marsilio ora sarebbe

morto o in ceppi. Ahi! Troppo funesta

fu per noi la tua audacia, Orlando.

Del tuo valore non potrà avvalersi più

Carlo il grande e un cavaliere di pari

forza non vedrà mai più la terra,

poiché tu morirai qui, con dolore

per la Francia e disonore, e prima di sera

ci lascerai mesti per la tua dipartita ».

E l’uno geme e piange forte per l’altro.

 

Turpino ascolta la disputa e subito

con lo sprone di fine oro spinge

alla corsa il cavallo; giunto in mezzo

ai due li rimprovera: «Sire Orlando, e voi,

sire Oliviero, in nome di Dio: tregua!

Certo ora è tardi per chiedere aiuto; pure

è meglio fare squillare l’acuto corno,

sí che il re Carlo venga in nostro aiuto

e a danno degli Ibèri. I nostri Franchi

arriveranno qui e noi, feriti o morti,

potremo essere caricati sui cavalli

o essere seppelliti con suffragi e pianti

nei chiostri della chiese, asilo

sicuro per le nostre misere reliquie

che non siano pasto di bramosi lupi,

di cinghiali e di cani». «C’è grande sapienza»

esclamò il conte Orlando, «nei vostri detti».

 

Orlando porta alla sua bocca l’olifante

e lo suona senza risparmiare il fiato

che là dai poggi la possente eco

oltre quindici leghe gli risponde.

Bene il Re Carlo l’ode e bene con lui

l’odono i Franchi suoi. «Laggiù si combatte»,

grida il Sovrano; ma Gano dice: «Sire!

Se lo dicesse un altro, lo riterrei menzognero».

 

Con grande peso e affanno, con gran dolore

Orlando soffia nell’olifante. Il sangue

esce dalla sua bocca e pulsano forte

le vene delle tempie; il suono vola

lontano, acuto, altissimo. Il re Carlo

l’ode in fondo alla gola e così Namo e i Franchi.

E dice il Re: «Sento squillare il corno

che Orlando suona solo quando

arde la mischia». E Gano: «In grande inganno

siete, messere il Re; non vi è battaglia;

non è consono alla vecchiaia e alla canizie

vostra essere ingenuo. Conoscete

l’orgoglio immenso di Orlando (ed è un grande

fatto che lo tolleri il Cielo!); sapete come

egli prese Noples, cacciando i Saraceni

dalla città, e perché fosse nascosta

l’opera sua con l’erba fresca

egli si pulì la mano dal sangue. Un giorno intero

egli suonerebbe, anche per una lepre,

il corno d’avorio. Ora, per certo, egli va

ingannando il tempo con i suoi. Un uomo di mondo

non avrebbe il coraggio di provocarlo in campo!

Deh! su dunque, in marcia. Perché vi fermate?

La Francia è ancora molto lontana da qui!».

 

Orlando ha sulla bocca sangue vermiglio.

Sono rotte le tempie del suo capo,

egli soffia il corno con grande dolore e pena.

L’ode re Carlo, l’odono i suoi Franchi.

E dice il Re: «Qual gran suono ha quel corno!»

Risponde Namo: «Ha gran dolore quel suono.

Là si combatte, come io stimo;

il prode Orlando è stato tradito,

caduto per opera di chi ora sta fingendo male!

Su, dunque: in armi, al vostro grido, in aiuto

della santa impresa; Orlando è in pena!».

 

Squillano ad un cenno i corni di re Carlo.

Subito i Franchi cingono le spade dorate,

gli usberghi e gli elmi. A piedi scendono

con i saldi scudi, i forti e i lunghi spiedi

e i gonfaloni vermigli, azzurri e bianchi.

Sui loro destrieri vanno cavalcando i duchi,

forte spronando via per le aspre gole:

narrano l’uno all’altro i fieri colpi

che con Orlando assesteranno, se

lo troveranno ancora in vita — Inutile vanto,

poiché lunga fu l’attesa per i miseri!

È l’alba. Contro il sole splendono le armi,

mandano lampi elmi e corazze, i cesellati

scudi, gli spiedi e i gonfaloni d’oro.

L’Imperatore con grande ira in cuore

cavalca, i Franchi ansiosi e tristi lo seguono.

Piangono tutti e per Orlando tremano.

 

TUROLDO, La Canzone di Orlando, Lassa CXXVII-CXXXVII

(liberamente tratto dalla traduzione di G.L. PASSERINI)

 

Il conte Orlando è ritornato in campo.

Tiene Durendal e colpisce come un bravo.

Ha già tagliato a metà Faldrone Poggio

e ventiquattro fra tutti i più stimati:

maggior vendetta nessuno mai vorrà!

Come davanti ai cani il cervo scappa,

fuggono dinnanzi ad Orlando i pagani.

Disse Turpino: “È bene quel che fate!

Cosi deve essere un bravo cavaliere

che porta le armi e sta su un buon cavallo;

forte deve essere e tremendo in battaglia,

altrimenti non vale quattro denari:

allora faccia in un convento il frate,

sempre pregando per i nostri peccati”.

Risponde Orlando: “Colpite, non fermatevi!”.

Allora subito ricominciano i Franchi.

Ma gran danno patiscono i cristiani.

 

Quando nessuno vuole fare prigionieri

l’uomo che combatte si difende da prode:

i Franchi sono fieri come leoni.

Ecco Marsilio che ha l’aria di un barone!

Sta sul cavallo che chiama Guadagnone.

Lo sprona bene e va a colpire Buovo,

che era signore di Belna e di Bigione.

Gli infrange lo scudo e gli rompe l’usbergo,

giù lo abbatte morto, senza altro colpo.

Subito dopo uccide Ivo ed Ivorio,

anche Gerardo di Rossiglione.

Il conte Orlando non è molto lontano;

dice al pagano: “Ti dia male il Signore!

A torto hai ucciso i miei compagni!

Ne avrai di colpi, prima di separarci.

E imparerai il nome della mia spada!”.

Lo va a colpire come un vero barone

e gli tronca il pugno destro con un taglio;

poi prende il capo di Giurfaretto il biondo:

era costui figliolo del re Marsilio:

“Aiuto”, gridano i pagani, “Maometto!

Dèi, vendicateci contro l’imperatore!

In questa terra ha portato felloni,

che anche a morire non lasceranno la lotta”.

Dicono loro: “E noi fuggiamo allora!”.

E così subito centomila si voltano:

chiami chi vuole, non faranno più ritorno.

 

Però a che serve? Se fuggito è Marsilio,

rimasto in campo è il Califfo suo zio,

che regge Cartagine, Alfrera, Garmalia

e il maledetto paese degli Etiopi,

la gente nera ha sotto il suo dominio,

fornita di larghe orecchie e di grandi nasi:

insieme sono più di cinquantamila.

Vanno a cavallo fieramente e con ira,

innalzano il grido di guerra saraceno.

Orlando disse: “Avremo qui il martirio.

Ora so bene che non c’è molto da vivere.

Però chi non saprà vendere cara la vita è un vile.

Date gran colpi con le spade forbite

e disputate, signori, morte e vita:

la dolce Francia da noi non sia avvilita!

Quando nel campo verrà Carlo, il mio sire,

e dei pagani vedrà il grande castigo,

e quindici nemici morti per ognuno dei nostri,

non mancherà certo di benedirci”.

 

E quando vede tutti quei maledetti

che dell’inchiostro sono ancora più neri

e non hanno nulla di bianco se non i denti,

il conte dice: “Ora so veramente che oggi

moriremo, per quello che io penso.

Colpite, Franchi, riprendo a lottare!”.

Dice Oliviero: “Disgrazia a chi è più lento!”.

 

[…]

 

Allora i Franchi si buttano nel mezzo.

I Saraceni fuggono con ira e pena

verso la Spagna: cercano di andare in fretta.

Il conte Orlando non potrebbe seguirli;

ha perso Vegliantivo, il destriero.

Va ad aiutare l’arcivescovo Turpino:

“Ora che i compagni, che amammo tanto insieme,

sono tutti morti, non dobbiamo lasciarli insepolti!

Io voglio andare a cercarli, a vederli,

per metterli in ordine dinnanzi a voi”.

“Fatelo dunque” gli disse l’arcivescovo.

“Grazie al Signore è vostro e mio il terreno!”

 

TUROLDO, La Canzone di Orlando, Lassa CXL-CXLIII; CLX

Immagine ispirata alla Canzone di Orlando

A Roncisvalle, intanto, morirono Oliviero e Turpino; Orlando, dopo aver tentato invano di spezzare sulle rocce la sua spada Durendal (Durlindana), ripose sotto il suo corpo la spada e l’Olifante e morì con la testa volta verso la Spagna, tendendo al cielo il guanto della sua destra.

 

Lo sente Orlando che ha la morte addosso:

dalle orecchie gli esce fuori il cervello.

I suoi pari prega Dio a sé li chiami,

e per sé prega l’angelo Gabriele.

Prende il corno, per non averne biasimo,

e Durendal la spada nell’altra mano.

Più in là che tiri una balestra un quadrello

verso la Spagna va in un gran campo d’erba,

sale su un poggio: sotto due begli alberi

ci sono quattro grandi pietre di marmo;

sull’erba verde è caduto riverso,

e là è svenuto, perché ha la morte addosso.

 

Sono alti i monti, sono altissimi gli alberi;

ci son quattro pietroni di marmo lucidi.

Sull’erba verde il conte Orlando s’accascia.

Un Saraceno se ne sta lì a guardarlo,

s’è finto morto, giace in mezzo agli altri;

di sangue ha lordo tutto il corpo e il viso;

si rizza in piedi e di corsa si slancia.

È bello e forte e di grande coraggio;

per presunzione fa una follia mortale:

afferra Orlando, il suo corpo e le armi,

e dice «Vinto è il nipote di Carlo!

Questa spada la porterò in Arabia».

Allo strattone si riscuote un po’ il conte.

 

Lo sente Orlando che la spada gli toglie.

Apre gli occhi, gli dice queste parole:

«Mi pare proprio che tu non sia dei nostri!».

Brandisce il corno, che non volle mai perdere,

gliel’abbatte sull’elmo adorno d’oro e gemme:

schianta l’acciaio con la testa e le ossa,

gli occhi dal capo glieli manda fuori,

così ai suoi piedi l’ha abbattuto morto.

E poi gli dice: «Vigliacco, come hai osato

toccare me, a ragione oppure a torto?

Non l’udrà alcuno che non ti dia del folle!

Rotto è il mio corno nella parte grossa,

ne son caduti giù il cristallo e l’oro».

 

Lo sente Orlando che la vista ha perduta,

si mette in piedi, quanto può si sforza;

il colorito del viso ha perduto.

Davanti a lui c’è una pietra bruna:

dieci colpi ci dà con dolore e con rabbia;

stride l’acciaio, non si rompe né intacca.

«Eh!», dice il conte, «santa Maria, aiuto!

Eh! Durendal, brava, quanta hai sfortuna!

Giacché perisco non potrò più difenderti.

Tanti eserciti in campo con te ho vinto,

e tante terre grandi prese in guerra

che Carlo tiene, che ha la barba canuta!

Non ti abbia alcuno che da un altro fugga!

Gran buon guerriero a lungo ti ha tenuta,

mai più uno uguale ne avrà la santa Francia».

 

Colpisce Orlando la pietra di Cerdagna:

stride l’acciaio, non si rompe né scheggia.

Quando s’accorge che non la può infrangere,

fra sé e sé prende allora a compiangerla:

«Eh! Durendal, come sei chiara e bianca!

E come al sole splendi e mandi fiamme!

Carlo stava nei valli di Moriana

quando gli comandò Dio col suo angelo

che ti donasse a un conte capitano:

e me la cinse il re nobile, il grande.

Ci conquistai per lui Angiò e Bretagna,

ci conquistai per lui Poitou e Maine;

ci conquistai per lui Normandia franca,

ci conquistai per lui Provenza e Aquitania,

e Lombardia e tutta la Romagna;

ci conquistai per lui Baviera e tutta Fiandra,

e Bulgaria e Polonia tutta quanta,

Costantinopoli, di cui prese l’omaggio,

e in Sassonia fa lui ciò che comanda;

ci conquistai per lui Scozia ed Irlanda,

e Inghilterra, che casa sua considera;

ci conquistai per lui paesi e terre tante

che Carlo tiene, che ha la barba bianca.

Per questa spada ho dolore ed affanno:

meglio morire, che ai pagani lasciarla.

Dio padre, fa che mai ne abbia vergogna Francia!».

 

Colpisce Orlando su una pietra bigia,

ne rompe più che io non vi so dire.

Stride la spada, non si rompe né schianta,

su verso il cielo è rimbalzata in alto.

Quando sa il conte che non potrà infrangerla,

con gran dolcezza fra sé e sé la compiange:

«Eh! Durendal, che sei bella e santissima!

Nel pomo d’oro c’è un bel po’ di reliquie:

un dente di san Pietro, sangue di san Basilio,

e capelli di monsignor san Dionigi,

e della veste di santa Maria un lembo.

Non è giusto che dei pagani t’adoprino,

da cristiani devi essere servita.

Non t’abbia alcuno che faccia codardia!

Ben grandi terre con te ho conquistate

che Carlo tiene, che ha la barba fiorita,

l’imperatore, e ne è grande e potente».

 

Lo sente Orlando che la morte l’afferra,

giù dalla testa fin sul cuore gli scende.

Fin sotto un pino se n’è andato correndo,

sull’erba verde ci si è accanto disteso,

la spada e il corno sotto sé si mette.

Volta ha la testa alla pagana gente,

e così ha fatto perché vuole davvero

che dica Carlo e con lui la sua gente

che morì il nobile conte da vincitore.

Confessa le sue colpe ripetutamente,

per i peccati in pegno offre a Dio il guanto.

 

Lo sente Orlando che il suo tempo è finito,

volto alla Spagna è in cima a un poggio aguzzo;

con una mano il petto s’è battuto:

«Mea culpa, Dio!, verso le tue virtù,

dei miei peccati, dei grandi e dei minori

che ho commesso da quando venni al mondo

fino ad oggi, che qui son stato preso!».

Il guanto destro perciò ha teso a Dio,

angeli scendono giù dal cielo a lui.

 

Il conte Orlando giace sotto un pino,

verso la Spagna tiene volto il viso.

Di molte cose gli ritorna alla mente,

di tante terre quante ne prese il prode,

la dolce Francia, quelli del suo lignaggio,

Carlomagno che l’allevò, suo signore;

non può impedirsi di sospirare e piangere.

Ma non si vuole dimenticare di sé,

confessa le sue colpe, chiede a Dio pietà:

«Vero Padre, che non hai mai mentito,

san Lazzaro da morte risuscitasti,

e Daniele dai leoni salvasti,

a me l’anima salva da tutti i pericoli

dei miei peccati quanti ne ho fatti in vita!».

Il guanto destro porge in pegno a Dio:

San Gabriele dalla sua mano l’ha preso.

Sopra il braccio si tiene il capo chino,

le mani giunte è arrivato alla fine.

Dio gli manda il suo angelo Cherubino

e San Michele del mare del Pericolo;

insieme a loro viene lì san Gabriele,

portan del conte l’anima in paradiso.

TUROLDO, La Canzone di Orlando, Lassa CLXVII-CLXXV (2259-2396)

(traduzione di G. BELTRAMI)

Orlando suona il corno

Carlo Magno, giunto al campo, ordinò di inseguire i Saraceni e di sterminarli; rese poi gli ultimi onori ai prodi caduti e portò le spoglie di Orlando, Oliviero e Turpino ad Aix-le-Chapelle, ove annunciò la morte del suo fidanzato Orlando ad Alda, che morì per il dolore.

 

Di Spagna è giunto Carlo imperadore

in Francia, al prediletto suo soggiorno

di Aquisgrana. È alla Reggia; entra nell’aula.

Quivi Alda, bella damigella, in contro

si fa al Signore, e sí gli chiede: «Orlando?

dov’è il cattano [1]che giurommi fede?»

Turbamento e dolor ne prova Carlo.

Pensoso, si tormenta la gran barba

E gli occhi gli si velano di pianto.

«Amica mia, sorella mia, novelle

d’un uom morto mi chiedi! Un prezioso

cambio te ne darò, qual non saprei

trovar megliore in Francia. Lodovico

io ti darò ch’è mio figliuolo e erede».

Alda risponde: «Strano tu mi parli!

A Dio non piaccia e agli angioli e a’ suoi santi

che al prode Orlando, Sire, io sopravviva!»

D’un tratto di pallor mortale il viso

le s’illumina e cade a’ pie’ di Carlo

la bella donna. — Iddio ne accolga il fiato!

Ploran di Francia tutti intorno i prodi.

 

Alda la bella è morta. Il Re sol crede

ch’abbia smarriti i sensi, e di pietade

piange. Le man le prende, e le solleva,

ma il capo, greve, su le spalle cade.

Conosce Carlo ch’ella è morta, e quattro

contesse fa venir, che ad un convento

la rechino di suore. Ivi è vegliata

la notte insino al dí, quindi con molto

onor, presso un altare, è seppellita.

A riposo del suo spirto, votivi

grandi doni largí l’Imperadore.

TUROLDO, La Canzone di Orlando, Lassa CLXVII- CLXVIII

(traduzione di G.L. PASSERINI)

Si riunì poi un consiglio per giudicare Gano, che venne condannato a morte. Il poema termina con un sogno di Carlo Magno: un angelo annuncia al vecchio re, stanco e riluttante, di preparare una nuova spedizione.

 

Quand’ebbe Carlo re la sua giustizia

fornita, e l’ira sua cadde, a la vera

legge volle acquistar di Bramimonda[2]

lo spirito immortal. Poi, giunto a sera

il dì, si trasse sotto le regali

volte de la sua stanza, e il travagliato

corpo posò l’Imperadore. Quivi

da la parte di Dio san Gabriele

gli apparve e comandò: «Carlo, raccogli

del reame gli eserciti; convienti

marciare inverso Bira, a dare in Infa,

ove invocato sei con alte grida,

soccorso al re Vivian contra i Pagani».

Grave, a lo stanco Re, giunge l’invito.

«Signore!» esclama «come perigliosa

è la mia vita». E per dolore ed ira

piange e tormenta la sua bianca barba.

Qui ha fin la gesta che Turoldo accoglie.

RES ITA FINITA TESTIFICATVR ITA LAVS DEO

TUROLDO, La Canzone di Orlando, Lassa CCXCI

(traduzione di G.L. PASSERINI)

 

[1] Castellano.
[2]     La moglie del re pagano Marsilio.

di Daniele Bello

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