La guerra di Troia: il conflitto – 6di9

 

6.

I primi anni di guerra

 

i Troiani avanzarono

lanciando grida e richiami, come gli uccelli,

così gridano le gru sotto il cielo,

quando fuggendo l’inverno e le piogge incessanti,

esse volano stridenti verso l’Oceano,

portando ai Pigmei la distruzione e la morte[1].

 

Gli Elleni tentarono di sconfiggere Troia per ben nove anni, senza tuttavia riuscire ad espugnare la città; in realtà, questa è la fase della guerra di cui le fonti parlano meno, per cui diventa arduo stabilire cosa successe esattamente in quel periodo.

Quello che è probabile è che i capi greci non si concentrarono sempre sull’assedio della città nemica: dovendo approvvigionarsi di cibo e schiavi per mantenere un cospicuo esercito, essi preferirono compiere scorrerie nelle città vicine, anche per tagliare i ponti tra i Teucri ed i loro alleati provenienti dalla Tracia e dall’Asia Minore (gli Elleni, allora, controllavano solamente lo stretto dei Dardanelli).

Achille e Troilo

Achille fu senza dubbio il più attivo fra tutti i Greci: secondo Omero il figlio di Peleo conquistò undici città e dodici isole; egli uccise anche Troilo, giovane figlio di Priamo, quando questi aveva solo diciannove anni poiché un oracolo aveva predetto che, se il ragazzo avesse raggiunto il ventesimo anno di vita, la città di Troia non sarebbe mai stata espugnata.

Dalla divisione del bottino proveniente dalle città conquistate, Achille ottenne come schiava personale la bella Briseide di Lirnesso, mentre Agamennone ottenne Criseide, figlia di Crise, sacerdote di Apollo; queste due schiave furono, loro malgrado, strumenti inconsapevoli di uno degli episodi più importanti di tutta la guerra di Troia.

Aiace Telamonio uccide un prigioniero troiano

A fare la parte del leone in questo primo periodo di guerra fu anche il prode e coraggioso Aiace Telamonio, il quale invase le città della penisola tracia dove regnava il re Polinestore, che si era imparentato con la famiglia reale dei Teucri.

Quest’ultimo aveva come ospite a corte il giovane Polidoro, figlio di Priamo; per evitare di compromettersi con i Greci, durante l’assedio dell’esercito elleno egli preferì disfarsi di una presenza così imbarazzante, per cui si risolse ad uccidere a tradimento il principe troiano, violando i sacri doveri dell’ospitalità.

Il principe di Salamina attaccò anche le città della Frigia, dominate dal re Teleuto (che morì in combattimento) e prese come bottino di guerra la figlia di quest’ultimo, Tecmessa, che divenne sua concubina.

Un altro evento molto rilevante in questo periodo fu la morte di Palamede, re di Nauplia. Lo scaltro Odisseo non gli aveva mai perdonato il fatto di avere smascherato le sue finte manifestazioni di pazzia, costringendolo a prendere le armi contro Troia.

Palamede, inoltre, aveva umiliato Odisseo, essendo riuscito ad ottenere gli approvvigionamenti di grano per l’esercito, laddove il figlio di Laerte aveva fallito nella stessa missione.

Spalleggiato da altri capi greci che mal sopportavano l’astuzia e la popolarità di Palamede, Odisseo fece ritrovare all’interno della tenda del re di Nauplia un sacco pieno d’oro e una falsa lettera di Priamo, che lasciava intendere una segreta alleanza tra i Troiani e lo stesso Palamede (il re di Troia ringraziava per le notizie ricevute).

La lettera e l’oro furono scoperti: Agamennone e i capi greci ordinarono che il figlio di Nauplio venisse condannato a morte per tradimento mediante lapidazione.

Il padre di Palamede, venuto a conoscenza della ignominiosa morte del suo erede, navigò verso la Troade a chiedere giustizia per il figlio ma gli venne rifiutata; cercando vendetta, egli viaggiò verso le città greche, calunniando i sovrani presso le loro mogli;

si racconta che, proprio in quel periodo, alcune tra le nobili spose degli Elleni decisero di tradire i propri mariti lontani; in particolare, Clitennestra si unì in una fosca relazione con il figlio di Tieste, Egisto, che da tempo meditava vendetta contro i discendenti di Atreo.

[1]    OMERO, Iliade, III, 2-6.

7.

L’ira di Achille

 

Cantami, o Diva, del Pelìde Achille

l’ira funesta che infiniti addusse

lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco

generose travolse alme d’eroi,

e di cani e d’augelli orrido pasto

lor salme abbandonò (così di Giove

l’alto consiglio s’adempìa), da quando

primamente disgiunse aspra contesa    

il re de’ prodi Atride e il divo Achille[1].

 

Nel decimo anno di guerra si diffuse nel campo dei Greci una terribile epidemia: era il castigo decretato da Apollo come punizione per aver sottratto Criseide al vecchio Crise, sacerdote del dio;

poco tempo prima, il padre della giovane era giunto all’accampamento degli Achei implorandone la liberazione in cambio di un riscatto, ma Agamennone lo aveva cacciato via in malo modo; al sacerdote altro non rimaneva che invocare il dio Apollo per sperare di ottenere giustizia e questi si era vendicato contro l’empietà dei Greci flagellando l’esercito con i suoi dardi avvelenati.

Su consiglio dell’indovino Calcante, Agamennone si rassegnò infine a restituire Criseide alla famiglia, ma in cambio ordinò ai capi Achei di consegnargli un’altra schiava; il re di Micene, in particolare, pretese la bella Briseide, la schiava preferita di Achille.

Scoppiò quindi un feroce litigio tra Achille ed Agamennone, nel quale i due per poco non vennero alle mani: il figlio di Peleo, alla fine, si rassegnò ad obbedire al comando del duce di tutti Greci e consentì alla consegna di Briseide, ma da allora si ritirò nella sua tenda e giurò che non avrebbe preso più parte ai combattimenti assieme ai suoi Mirmidoni.

Patroclo conduce Briseide da Agamennone

L’ira di Achille è l’argomento del poema principale attribuito ad Omero: l’Iliade, che qui cercheremo di riassumere sia pure per sommi capi (anche perché non vogliamo togliere al lettore appassionato il piacere di leggere, un domani, tutta la storia per intero).

Si narra che Teti, madre di Achille, salì sul Monte Olimpo per chiedere riparazione per la grave umiliazione subita dal figlio; il padre di tutti gli dei in persona, Zeus dalla folgore tonante, promise di accontentarla.

La mattina dopo, il re Agamennone – ispirato da un sogno che egli credeva premonitore ma che in realtà era frutto dell’inganno ordito da Zeus – convocò i duci achei e li istruì sul suo piano: per spronare l’esercito, egli avrebbe annunciato la sua intenzione di voler tornare in patria; in tal modo, avrebbe fatto leva sull’amor proprio dei guerrieri greci inducendoli a combattere con maggior vigore.

I soldati, però, accolsero la proposta di tornare con gioia ed entusiasmo; incoraggiati da Tersite, il più brutto e il più vile di tutti gli Achei, essi si stavano apprestando a lasciare la costa quando Odisseo, dopo aver zittito lo stesso Tersite percuotendolo con uno scettro, li convinse a rinnovare la battaglia contro Troia.

[1]     OMERO, Iliade, I, 1-9 (traduzione di Vincenzo MONTI). Il poeta greco si riferisce spesso agli Elleni chiamandoli “Achei”, dal nome della popolazione che, assieme agli Ioni e agli Eoli, invase la penisola ellenica nel II millennio a.C. acquisendo una posizione di egemonia; sono detti anche Argivi dal nome della città di Argo, che fu il primo fiorente centro urbano della regione. Per omaggio ad Omero, anche noi d’ora in poi utilizzeremo questi termini.

8.

Le imprese di Diomede

 

Le due schiere si preparavano quindi ad affrontarsi a viso aperto ancora una volta: il superbo Paride marciava in prima fila ostentando coraggio e baldanza ma, alla vista di Menelao, fuggì nelle retrovie.

Ettore lo rimproverò aspramente per la sua codardia e Paride, per non perdere la faccia, decise di sfidare a duello il re di Sparta: al vincitore sarebbe toccata in sorte la bella Elena e la guerra avrebbe avuto così termine.

I due acerrimi nemici si accanirono l’uno contro l’altro senza risparmiarsi: Menelao era sul punto di uccidere il rivale, ma la dea Afrodite intervenne per salvare Paride avvolgendolo in una nebbia divina e riportandolo a Troia.

Agamennone decretò la vittoria per il fratello e chiese la restituzione di Elena; gli dei dell’Olimpo, tuttavia, che osservavano dall’alto le sorti della guerra, spinti da Hera (che covava un odio intenso per la città di Troia, non avendo ancora perdonato l’umiliazione del giudizio di Paride) decisero per la continuazione della battaglia.

La dea Atena venne inviata nell’accampamento troiano per far riprendere le ostilità: ella si avvicinò ad un arciere dei Teucri, Pandaro, persuadendolo a scagliare una freccia contro Menelao, che incedeva superbo tra i Troiani reclamando la restituzione di Elena.

Il dardo viene tuttavia deviato dalla stessa dea Atena per cui l’Atride venne ferito solo di striscio; gli Achei gridarono al tradimento e la battaglia si rianimò.

Gli Elleni, guidati dal valore del prode Diomede, inizialmente ebbero la meglio, ma la loro furia venne arginata ancora una volta da Pandaro, che riuscì a ferire l’eroe.

Con l’aiuto di Atena, Diomede riuscì riprendere il combattimento; salito sul suo carro da battaglia sospinto a piene forze dal suo auriga, il figlio di Tideo si scontrò ancora una volta con Pandaro e lo uccise con un colpo di giavellotto.

Diomede ingaggiò quindi una furiosa lotta con Enea: il figlio di Anchise stava per essere ucciso nel duello, quando intervenne ancora una volta la dea Afrodite, che riuscì a salvare il figlio con il suo velo magico.

Il figlio di Tideo non si perse d’animo e scagliò nuovamente il giavellotto contro la dea, ferendola alla mano; in seguito, si scontrò per ben tre volte con il dio Apollo, che era accorso in aiuto della sorella e di Enea, prima di venire però respinto. Il dio rimproverò aspramente l’eroe greco per avere osato confrontarsi con i numi.

Diomede ferisce il dio Ares

Diomede, spaventato, indietreggiò consentendo ad Apollo di mettere definitivamente in salvo Enea; nel frattempo, era sceso nel campo di battaglia a dare il sostegno ai Troiani Ares (Marte), il dio della guerra, che ridiede forza e vigore all’esercito dei Teucri.

A questo punto la dea Atena intervenne a rincuorare Diomede, spronandolo a riprendere le armi senza temere gli immortali. Il figlio di Tideo balzò nuovamente sul suo carro da guerra per affrontare i Troiani e subito gli si parò davanti il terribile Ares. Lo scontro tra i due è uno dei momenti più alti della poesia epica, per cui lasciamo la parola ad Omero:

Quando poi furono a fronte, venutisi incontro, Ares tirò per primo, al di sopra del giogo e delle briglie, con la lancia di bronzo, bramoso di togliergli la vita; ma la dea dagli occhi azzurri, Atena, l’afferrò con la mano e la spinse al di sotto del carro, in modo che cadesse a vuoto.

Poi tirò Diomede, possente nel grido di guerra con la lancia di bronzo; l’indirizzò Pallade Atena al basso ventre… dette un ruggito Ares di bronzo, quanto gridano forte nove o diecimila combattenti durante la guerra”[1].

Dopo il ferimento di Ares, le sorti della battaglia erano tornate decisamente a favore dei Greci; su consiglio del fratello Eleno (che aveva doti divinatorie), Ettore tornò in città invitando la madre Ecuba e tutte le altre matrone a fare offerte agli dei per scongiurare la sconfitta.

Dopo aver portato a termine la sua missione, Ettore si recò a salutare la moglie Andromaca e il piccolo Astianatte, suo figlio: il colloquio tra moglie e marito è uno dei passi più commoventi di tutto il poema (“Ettore, tu per me sei padre e madre adorata ed anche fratello, e sei il mio splendido sposo: ma allora, su, abbi pietà e resta qui sulla torre, non rendere orfano il figlio, non fare della tua donna una vedova”[2]).

Prima di tornare a combattere, il primogenito di Priamo incontrò anche il fratello Paride, che dopo essere stato tratto in salvo dalla dea Afrodite si trovava nei suoi appartamenti in compagnia della bella moglie Elena; dopo gli aspri rimproveri di Ettore, che lo accusò di vigliaccheria, Paride si risolse a raggiungere di nuovo il campo di battaglia.

Una volta tornato nella mischia, Ettore sfidò a duello uno dei capi achei: tra gli Elleni venne estratto il nome di Aiace Telamonio, che si preparò quindi a combattere contro il campione dei Teucri. I due tentarono di uccidersi a vicenda a colpi di giavellotto e di spada, in uno scontro aspro che proseguì sino al calare delle tenebre e che venne sospeso solo dall’intervento degli araldi di entrambi gli eserciti.

I due guerrieri presero commiato scambiandosi dei doni, mentre i portavoce dei due schieramenti acconsentirono ad una tregua di un giorno per recuperare i corpi dei caduti; i Greci ne approfittarono per costruire un muro difensivo in legno a protezione delle navi.

[1]    OMERO, Iliade, Libro V, vv. 850-861 (traduzione di Giovanni  CERRI), Milano, RCS, 1996, p. 369.
[2]     OMERO, Iliade, Libro VI, vv. 429-432 (traduzione di Giovanni  CERRI), Milano, RCS, 1996, p. 407.

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di Daniele Bello

Gennaio 2, 2018

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